Rivoluzione e colpo di stato sono termini talmente inflazionati da avere un potenziale persuasivo pari agli adesivi della lega di cui sono cosparsi i pali dei cartelli stradali nelle periferie padane o, se vivete ad altre latitudini, garantiscono una redemption di eguale entità rispetto a quelle minuscole pubblicità autoprodotte che stanno appiccicate ai caselli autostradali, quando ti fermi a prendere il biglietto senza contare la percentuale di utenti Telepass che al casello non ci si ferma nemmeno. Tutti che invocano la rivoluzione che si deve fare, tutti che gridano al colpo di stato che non ci sono arrivati prima loro a farlo, poi quelli che dicono di aver subito il colpo di stato chiedono di essere supportati nella rivoluzione, e manco a farlo apposta quelli che non hanno fatto in tempo a scendere in piazza per la rivoluzione pensano di aver sventato o intercettato le manovre per il colpo di stato. Ma le vestigia dell’uno o dell’altro gesto estremo non sono facili da riconoscere nelle situazioni di tutti i giorni. Voglio dire, la rivoluzione non sono certo quei quattro gatti con i forconi che stazionavano all’incrocio sotto casa nei giorni feriali, e il colpo di stato non è nemmeno qualche schermaglia tra maggioranza allargata e opposizione esagitata, l’asse che nasce di qui o di là per un fittizio fronte comune, o il Presidente della Repubblica che interviene a cazzo o a ragione. Converrete con me che comunque da qui, sul divano e con il portatile accesso, è difficile distinguere l’uno o l’altro. C’è un po’ di rivoluzione nel colpo di stato, e un po’ di golpe nella rivolta. Facciamo un po’ di ordine, però. Di qui si mettano quelli che pensano di fare la rivoluzione, di là quelli invece che vogliono il colpo di stato. Avvisatemi solo in qualche modo se c’è bisogno di me. Nel frattempo, metto su un disco.