Teo ha solo undici anni ma gli ultimi venti minuti li ha sprecati con un pianto ininterrotto e inconsolabile. Deve trattarsi di una tara di famiglia: mi dice mia moglie che la madre, da giovane, era rimasta chiusa in camera per una settimana a singhiozzare dopo che aveva colto il suo ex storico in flagrante con una donna divorziata con cui aveva una relazione da tempo e c’era di mezzo pure un figlio già grande avuto con il precedente marito. Teo invece ha solo involontariamente spaccato una gamba a un amico con cui si è scontrato in bici mentre giocavano al motocross su una strada sterrata. Il guaio, oltre la frattura, è che Teo sembra avere torto perché stava sul senso di marcia sbagliato. C’è persino una discussione che si protrae su questo tema. Secondo me le regole della strada in campagna non contano, la ruralità è sinonimo di anarchia. A cinquant’anni per esempio dicono che è sconveniente addentrarsi da soli per i boschi per lungo tempo ma io continuo a farlo. Poi ci si mettono cose che in contesto urbano uno non indosserebbe mai, come la camicia scozzese di flanella che era di mio papà o il cappello di paglia. Anche certe sensazioni elementari come il caldo e il freddo possono avere numerose variabili a cui non siamo abituati a causa dei pregiudizi di matrice binaria che sfoggiamo in città. Le mura spesse delle case contadine non proteggono dall’umidità, la stufa a legna resta accesa anche a ferragosto, il fango è un elemento con cui ci si abitua a convivere e le scarpe dei giorni di festa è meglio non portarsele dietro nemmeno se fai una vacanza come questa. Mi sforzo così a distrarmi da quella tragedia famigliare altrui che si sta consumando – il mio informatore del futuro mi assicura via SMS che Teo non si sbarazzerà mai dell’imbarazzo provocato da quell’episodio – cercando di comporre una ipotetica biografia da quarta di copertina qualora, un giorno, diventassi uno scrittore affermato. Anzi, potrei prendergli a prestito il suo nome e aggiungere una data di nascita fittizia per mantenere l’incognito come fa Elena Ferrante. Quindi risulterebbe così. “Matteo Cannoniero (Genova, 08/02/1961) è uno dei più interessanti scrittori italiani contemporanei. Paragonato ad autori nordamericani come Douglas Coupland e Dave Eggers per il suo stile postmoderno, cinicamente tetro e sagacemente ironico, Cannoniero ha pubblicato alcune delle pagine più rappresentative sulle complessità sociali e umane di queste prime decadi del nuovo millennio. Ciò, unito a radici saldamente impresse nel terreno politico-culturale dell’ultimo scorcio del novecento, fa di lui uno dei principali trait d’union tra l’epoca analogica e quella digitale e smart”.
vita di campagna
ancora sul ragazzo di campagna
StandardSe sognate un ritorno alla campagna e barattereste senza tante remore il vostro impiego dal nome in inglese nei servizi per un’involuzione verso la terra e i proventi che ne derivano dalla semina e la raccolta, passando per la zappatura, dovreste essere pronti a un cambiamento radicale della vostra vita soprattutto negli orari dei pasti. Io lo so perché i miei nonni paterni erano contadini, e anche quando si sono trasferiti in città, come si usava fare dopo la guerra, hanno continuato le loro abitudini pranzando a mezzodì e cenando alle sei di sera. Abitavamo tutti insieme e ricordo bene quei ritmi naturali prima che iniziassi ad andare a scuola. Oggi posso proiettarli in un’economia povera fatta dei frutti del proprio lavoro, di qualche animale nella stalla per il sostentamento del nucleo famigliare e dei cicli produttivi soggetti alla natura, alla regolarità delle sue certezze – le stagioni in primis – ma anche agli imprevisti. Grandini, incendi, siccità, piogge copiose. Nella sicurezza della vita urbana, nella finzione delle comodità messe a disposizione dal progresso come la luce elettrica sul tavolo da pranzo e un mobile tv sintonizzato sul telegiornale della sera, mantenere gli stessi ritmi imposti dal lavoro nei campi era comunque una sfida aperta all’industrializzazione. E poi si sparecchiava e con la bella stagione c’erano ancora un po’ di ore di chiaro da passare a proprio piacimento prima di coricarsi. Per me quindi il concetto di dopocena, almeno per una parte cospicua della mia adolescenza, partiva dalle sette circa in poi. Quella trasposizione di un modello non tanto superato quanto inadatto per la vita di città si è esaurita in occasione del primo scontro con la realtà dei coetanei. Avevo risposto con entusiasmo a una proposta di uscita con una ragazza, era estate e tutto era lecito anche se le prime esperienze fuori di casa si cercava di organizzarle basandosi un po’ sul sentito dire dei più grandi o copiando quello che si vedeva nelle pubblicità in televisione. Le avevo proposto di vederci dopo mangiato per un gelato, ma l’idea di incontrarci verso le sette e mezza fu motivo di ilarità. Lei, cittadina da molte generazioni, era solita cenare non prima delle venti e trenta. Avevo comunque provato a uscire di casa all’orario che ritenevo più naturale, una sorta di prova preliminare all’appuntamento vero e proprio, e avevo appurato che alle sette e mezza, in effetti, le gelaterie erano deserte. Non volevo però far pesare alla mia famiglia questa usanza che ci rendeva differenti rispetto al resto della gente di città. La sera decisiva ero uscito lo stesso dopo cena – ora contadina, ammazzando il tempo fino alle nove in giro da solo, cercando di non farmi vedere da nessuno.
l’abolizione delle province non metterà fine al provincialismo
StandardMa dai, che combinazione. Anche io ero vivo quel giorno lì. Grazie per la puntualizzazione, e la differenza è che per te quel due luglio è stato un paio di giorni prima del giorno dell’Indipendenza ed eri nei dintorni di San Francisco, per me è stato la festa della Madonna delle Grazie con i falò votivi sulle colline, la fiera con i prodotti agricoli e l’albero della cuccagna in piazza e l’orchestra con il ballo al palchetto. Un piccolo equivoco che però dimostra come nei grandi Paesi – con la p maiuscola, appunto – ci si possa permettere di parlare di cose infinitesimali perché parte di un mondo che nel nostro provincialismo appare incommensurabile, talmente complesso da afferrare nell’insieme che poi un albero, una siepe tagliata a forma di chissà quale animale esotico o un pezzo di costa pacifica – nel senso dell’oceano – acquisiscono una loro dignità.
Se lo fai in stati piccoli e chiusi in sé corri il rischio di separatismo narrativo e il particolare non si fa generale ma diventa una porzione indipendente in cui si conoscono tutti e fanno lo struscio nei pomeriggi prevestivi in zone identificate per convenzione come aree aggregative. E non è nemmeno la vecchia storia del marketing territoriale, quel fenomeno per cui appena valichi il confine con la Francia anche il peggio rudere è indicato con gigantografie sull’autostrada mentre quando vai per le arterie della nostra penisola ti saltano agli occhi solo le gru o i trattori o le piscine prefabbricate messe in bella mostra lungo i rettilinei per attirare acquirenti in transito.
Quindi, non so come tu abbia trascorso la tua, di festa. Noi quell’anno lì – come tutti gli altri e, ne sono certo, ancora adesso – abbiamo fatto notte aspettando che si esaurisse tutto il fuoco del falò alimentato dal fieno, dalle sterpaglie, dai copertoni e da altro ciarpame sicuramente tossico e bagnato di benzina sottratta alle falciatrici a motore, nessuno ha dimenticato che si viveva ignari nell’amianto allo stesso modo in cui la filosofia slow food non era ancora stata inventata.
C’era però un aspetto ricco di significati. L’incendio è la sciagura più ostile per chi abita le campagne, come tutto ciò che è da tenere alla larga risulta tentacolare. Trovate una fiamma accesa e strepitante e intorno si raduneranno bambini per mettere alla prova il tanto decantato potere di un elemento così dirompente, e questo a ogni latitudine, anche nei paesi più caldi. In campagna il fascino è duplice. Il fuoco che si espande è un pericolo per le persone ma anche per le bestie e per le risorse che danno da mangiare. Tenerlo sotto controllo è come avere un leone in gabbia e star fuori a fargli le pernacchie. Ora non ricordo bene, ma di sicuro a un certo punto qualcuno giù in paese avrà suonato le campane, l’inizio del giorno del santo patrono è ufficialmente al via anche se è ancora notte. Tutti i fuochi piano piano si attenuano fino a spegnersi sulle colline tutto intorno e i ragazzi e le ragazze, con le loro motociclette da fuoristrada, vanno a festeggiare altrove e a modo loro, lasciando soli i bambini intenti a cercare tizzoni ancora accesi mentre gli adulti e i vecchi si spazientiscono per portarli a dormire.