In sala ho una lampada bellissima, un pezzo di autentico modernariato vecchio quanto il matrimonio dei miei genitori, cinquantun’anni più un periodo non quantificabile tra il momento in cui è stato conteggiato in una lista nozze e la sua vera data di fabbricazione. Ha una linea anni cinquanta, addirittura c’è una leggenda famigliare che lo vuole disegnato da un architetto famoso, si mormora addirittura Castiglioni. Ma non si ha la prova di tutto ciò se non una notizia senza fonti che avevo trovato su un sito specializzato in forniture d’epoca, memorizzato tra i segnalibri del browser di sistema di almeno tre computer fa, prova poi evaporata con tutti gli altri dati virtuali di quegli hard disk primitivi.
La lampada bellissima è composta da uno ovale in teak di circa centoventi centimetri su cui sono posizionate tre lampade rettangolari in vetro opaco. Il tutto è montato su un’asta di ferro nero fissata su una piantana tonda di marmo, per un totale di un metro e ottanta circa di altezza. È una lampada a cui sono affezionatissimo, intanto perché serve a mantenere nitide le poche reminiscenze del primo soggiorno dei miei, composto da divano e poltrone in velluto blu con un set di mobili in teak, libreria, tavolino e la lampada, appunto, gli unici pezzi sopravvissuti. Si tratta di ricordi vaghi, non privi delle interferenze di alcune foto che hanno come sfondo quelle delizie vintage, mio papà con mia sorella in braccio e simili.
Poi la lampada si ruppe, probabilmente, e in un momento in cui tutto ciò che era considerato obsoleto veniva fatto vittima di ostracismo in favore di complementi d’arredo più eighties, finì in soffitta, miracolosamente fasciata con carta di giornale e, quindi, protetta dai segni del tempo e dagli urti a cui sono spesso esposti i mobili nei ripostigli. Una volta resomi indipendente, in un guizzo di amarcord mi ritornò in mente la lampada, proprio perché, in pieno boom del design d’epoca, girellavo mercatini dell’usato e discariche alla ricerca di chicche vittime dell’arbitrario oscurantismo e dell’ignoranza altrui. Ho una lampada di valore, pensai, chissà se funziona ancora. La portai da un elettricista che la rimise in sesto, e da allora la lampada ha accompagnato prima un divano e due poltrone anni sessanta in sky verde, provenienti direttamente dalla sala d’aspetto di un dentista e pagate un prezzo a dir tanto irrisorio; quindi l’attuale soggiorno, moderno e minimale, della casa in cui vivo, a prova del fatto che la linea del pseudo-Castiglioni sta bene proprio con tutto.
Ora però la lampada si è guastata, probabilmente un semplice cavo che trasporta la corrente a intermittenza, a seconda del posizionamento della piantana. E il guaio è duplice. Intanto occorre muoverla, e ogni volta che la si sposta, si tratta comunque di un oggetto di mezzo secolo fa, c’è il rischio di scalfirne il corpo di legno. Ma il vero problema è trovare chi sia in grado di ripararla. Anche l’elettricista del paese, che mi conosce perché gli faccio sempre le richieste più assurde come sostituire uno spinotto ormai fuori produzione di un giradischi con una coppia di rca standard o il jack della vecchia cuffia Pioneer, ha messo in dubbio la fattibilità dell’opera. Dovresti trovare un pensionato appassionato di queste cose, mi dice, ci vorranno almeno due ore, io non ho tempo. Ecco, l’elettricista non ha tempo. Ha un negozio al dettaglio di piccoli elettrodomestici che sta per essere spazzato via dalla grande distribuzione e lavora solo sui vecchietti che portano a riparare le radioline per ascoltare le partite, le signore anziane che cercano prese e adattori non più a norma altrimenti dovrebbero sostituire tutte le spine di casa, e gli amanti delle cianfrusaglie come il sottoscritto. Eppure non ha tempo, nemmeno lui. E mi dice che comunque non ne varrebbe la pena, il costo della manodopera sarebbe troppo alto per un oggetto così vecchio.
Allora sto per raccontargli la storia di quella lampada, per fargli capire che oltre all’inestimabile valore affettivo, quel pezzo unico che lui ha l’onore di riportare agli antichi fasti non stonerebbe in una vetrina del centro di Milano, con una bella targhetta sotto con su scritto un migliaio di euro, come minimo. Ma è troppo tardi, entra un signore sulla settantina con un parrucchino arancione e un lettore mp3 in mano di una marca sconosciuta. Chiede se lì vendono le pile.