l’orticaria e le bollicine

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Più di restare chiuso in uno spazio angusto completamente privo di ombra e i tetti in lamiera, più di sfoggiare un outfit completamente inadatto alle temperature elevate della bella stagione, più che bere una tazza di latte bollente appena sveglio quando fuori ci sono quaranta gradi, più che mangiare pietanze tipicamente invernali – una bella cassoeula – sotto il sole, non c’è niente che mi faccia sudare di più di una canzone tratta da Bollicine di Vasco Rossi ascoltata in estate. I motivi di questa idiosincrasia vanno ricondotti a diversi fattori, a partire da sottigliezze quali le abbondanti mandate di riverberi sul rullante e la preponderante plasticosità dei suoni di batteria. Gli effetti sulle chitarre poi, una pratica tutta italiana che ti fa riconoscere un brano registrato al di qua delle Alpi sin dai primi solchi del disco. Il sax che emerge qua e là con quel timbro languido, un sacrilegio rispetto alla ruvidezza per quale è stato inventato e che pone le sonorità del sesto album di Vasco Rossi agli antipodi geografici e sonori della musica americana. Le tastiere pacchiane, proprie di un modo di intendere i synth nella massima subalternità del rock canzonettaro di Vasco. Ecco, già solo parlare di questi pochi elementi a introdurre Bollicine mi fa patire l’afa come un anziano con il completo di lana a ferragosto. La tracklist, poi, è tutta un susseguirsi di vampate di angoscia, dal retrogusto di adolescenza gettata alle ortiche, di tempo sprecato ad adattarsi alla moda altrui per pura codardia da emarginazionale sociale. Ve la ricordate o devo passarla in rassegna brano per brano? Cocacosa cocacola ha una freschezza illusioria quanto un bicchiere di una bevanda sgasata e lasciata fuori dal frigo, con gli adolescenti che la cantano ostentando arbitrariamente il doppio senso con la polverina bianca più usata dagli italiani. Poi la canzone d’amore, la serenata con dedica che induce a soffocamento emotivo con la sua esplicita dichiarazione d’intenti a forma di ballata, con la chitarra di Dodi Battaglia dei Pooh, degno esecutore della peggio melodicità nazional-popolare. La sfida alla divinità di Portatemi Dio, le Deviazioni che accontentano le frange oltre le regole della sua fanbase, il carpe diem di Giocala con la sua filosofia da bar tavola fredda sulla strada provinciale e l’inno al nichilismo sentimentale di Mi piaci perché, la summa della concezione rossiana dell’essere donna oggi. Fino a quell’idea di James Dean de noantri a cui a noi che Bollicine fa venire le bolle sulla pelle non abbiamo mai creduto, presentata lungo esibizioni playback di programmi musicali pomeridiani e fortemente penalizzate da chissà quali agenti chimici, colonna sonora di anni di disimpegno esistenziale, politico, sociale, volto a scardinare definitivamente tutto il potenziale delle generazioni a venire. E lui in quella foto da copertina, con quegli occhiali assurdi che non sai se ti guarda o no e con le mani fuori campo, probabilmente intente a contare i soldi dei numerosissimi acquirenti di provincia che nell’estate dell’83 erano comunque lontani dal compimento della maggiore età e dal diventare boriosi adulti pieni di rimpianti.

ciao, maledetto ciao, semplicemente ciao

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Ieri, allo spettacolino di fine anno scolastico che quest’anno coincide anche con la fine della scuola primaria, e su questo tema ho già in serbo una marea di contenuti strappalacrime, dicevo che ieri le quinte tra cui c’è anche mia figlia al termine della loro recita che poi, come ogni anno, è una vera e propria pièce perché le classi seguono un laboratorio di teatro, insomma voglio dirvi che ieri, per salutare i genitori in lacrime, le classi dirette dalla maestra di musica hanno intonato in coro una canzone che con mio sommo sbigottimento ho scoperto essere dei Modà e che si intitola “Come un pittore” – roba da matti – ma dovrebbe intitolarsi con il ritornello con cui è ricordata che dice “Ciao semplicemente ciao”.

E sapete perché non si intitola così? Perché altrimenti il plagio di “Maledetto Ciao” di Gianna Nannini, altra pietra miliare del pop spazzatura nostrano, sarebbe eclatante.

E infatti mentre seguivo le bocche di una sessantina di esseri, a metà tra la dimensione dell’infanzia e quella dell’adolescenza, muoversi a tempo su parole scritte e pensate da un intellettuale del calibro di Checco, così è conosciuto ai più il cantante dei Modà, sollecitavo mia moglie nel cogliere una lunga serie di similitudini tra i due brani oggetto della contesa che però lei non ravvisava. Non è la prima volta, la mia forma mentis da musicista mi condiziona oltremodo perché poi le note sono quelle e con i giri di accordi, nella canzone italiana, non è che si possa sperimentare più di tanto. Per sfidarla, allora le ho chiesto se non sentiva anche una eco di “Ciao” di Vasco Rossi, ma si è accorta subito che il mio era un bluff.

In compenso sono passato per una brutta persona senza sentimenti, che bada a speculazioni e aspetti stilistici quando la sostanza, quella della fine di un’epoca e il passaggio a tutta una nuova serie di preoccupazioni, dovrebbe annullare tutto il resto. E infatti è così, sdrammatizzare serve anche a temporeggiare e non versare lacrime, per il momento, ma questo sarà un altro post.

mi son distratto un attimo

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Avete sentito bene. Siete proprio voi, decine di milioni di persone che da più di trent’anni continuate ad acquistare i dischi di Vasco Rossi, a non aver capito un cazzo. Voi, orfani dell’irriverenza al sistema col distorsore acceso per un impatto trasgressivo del calibro del Rock di Capitan Uncino, voi avete ceduto a una delle più semplici equazioni, rock più parole dritte alla pancia uguale evasione dall’ordinario accompagnata da beveroni con superalcolici da discount. E non dite che non è vero, perché se non vi foste fermati al primo tamarro che passava tanto eravate stufi della trascuratezza musicale dei cantautori, tutta una generazione di gruppi no, scherzo, a pensarci bene nessuno avrebbe catalizzato così come lui la voglia caciarona di disimpegno e di stracciare la tessera del partito anzi no riciclarla come filtrino da spinello. La fortuna è che la sua parabola umana tende per motivi anagrafici verso la conclusione, in questo paese lo sapete che sperare nella vecchiaia è l’unica via plausibile per liberarsi di personaggi che hanno stufato da tempo, abbiamo un esempio ancora più illustre. Ma vi assicuro che ancora ieri sera in una spiaggetta qui a fianco ho colto l’inconfondibile successione di accordi di “Colpa d’Alfredo” e siamo nel 2013, non avete sbagliato a impostare la data del vostro pc. Siamo nel 2013 e come ai tempi in cui dire negro e troia nella stessa frase non faceva né caldo né freddo a nessuno perché il politically correct non era stato ancora inventato ci sono menestrelli da outdoor che si cimentano nel timbro roco con accento emiliano più celebre d’Italia per farsi due risate con gli amici dopo il tramonto, con quel giro di chitarra che sa fare chiunque, anche io che suono i sintetizzatori e potete immaginare quanto ci tenga ai miei polpastrelli. L’occasione buona si è persa in un sera di un’era storica fa, quando ognuno di noi ha sentito la prima volta l’immediatezza di un modo di esprimere il glocale, in tempi in cui non si poteva passare da uno stato all’altro per validi motivi di politica internazionale e quindi ci si autoriferiva ancora di più tra città, periferie urbane, contesti ibridi e agglomerati rurali in pieni contesti di sviluppo impazzito se non abusivo, laddove nella complessità delirante soprattutto under venti si è allargata a macchia d’olio questa paralisi artistica che ci portiamo dietro perché facile da trasportare, proprio come una chitarra acustica sulla spiaggia. E sono convinto che se non ci fosse stato lui avremmo detto sì lo stesso, ma almeno a qualcun altro.

o niente

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Il Deboscio si porta avanti con un coccodrillo per Vasco Rossi, eccolo qui (o leggetelo ).

Vendesi coccodrillo per Vasco in stile Studio Aperto. (Contattateci se interessati, prezzo modico)

E allora dai che prendiamo il volo, cantava. Questa volta, a volare in cielo è stato lui. Il Blasco. Un mito per tutti, che ha messo d’accordo quattro generazioni, che da trent’anni ci emoziona, diverte, e che ci ha unito sotto un’unica grande bandiera: quella del rock, delle emozioni da urlare forte al cielo sotto una pioggia di stelle. Ma oggi anche le stelle piangono l’astro più luminoso del firmamento. E chissà le donne del Vasco, oggi magari sposate e con figli, cosa diranno. Forse anche un pezzo di loro è volato su nel cielo con Vasco. Cosa diranno Sally, Gabry, Susanna, Jenny, Laura? Cosa dirà Toffee? Come potrà lenire il suo dolore Giulia? Forse non potrà come non potremo noi, oggi che una parte di noi non c’è più.
La più strabordante, caotica. La nostra vita spericolata è scomparsa e da oggi torna ordinaria, grigia, vuota. Forse L’alba non sarà mai più chiara.
La sua vita spericolata, esagerata, il suo equilibrio sopra la follia, oggi non c’è più. Ciao Vasco, con te se ne va un pezzo fondamentale di storia della musica italiana. E quando il cielo sarà buio e scuro forse potremo riuscire a distinguere una stella, luminosa come mai. Noi sapremo che sei tu, Vasco, e a quella stella rivolgeremo un ultimo, accorato “eeeh…!”, e ai nostri figli, lo racconteremo noi.

una splendida giornata

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Sottotitolo: il post definitivo (mio, e chi mi credo essere…) su Vasco Rossi e sul suo ritiro.

Sei un fan di Vasco? Sei un mio amico e sei fan di Vasco? Allora questo post non fa per te. Nel primo caso, non puoi essere sufficientemente obiettivo da condividere il mio parere. Nel secondo caso, potresti essere tentato di farne una questione personale e, chiunque tu sia, sappi che personale non è. Cerca di non riconoscerti tra queste righe, e se cogli qualche riferimento privato parliamone, saprò convincerti del contrario. Inoltre, di alcune cose ne ho già parlato più volte in questo blog, ma perché non affrontare nuovamente il problema sfruttando la notizia del momento? Quindi, apriamo le buste. Tema: Vasco lascia le scene per manifesti problemi anagrafici, e non solo. Svolgimento.

È facile identificare il momento in cui ci siamo accorti che Vasco Rossi era diventato un qualcosa di più che l’ennesima rivelazione emersa da un sottobosco di rock italiano ancora fermo alla generazione precedente e che per nulla riusciva a rappresentare il nuovo modello di giovane di allora: disimpegnato, non tanto tossico quanto sconvoltone, ai tempi si diceva “sballato”, un aggettivo così anacronistico da farmi vergognare di averlo scritto, poco raffinato ed equidistante sia dai Clash (per non parlare del post-punk italiano, nemmeno preso in considerazione a questo livello) che da un qualsiasi cantautore dell’epoca che iniziava ad essere fuori luogo, più che fuori tempo.

Quel momento è stato quando abbiamo incontrato un amico chitarrista vestito e pettinato tale e quale a Vasco Rossi. Siamo nel 1982. Tanto che negli ambienti della cultura giovanile di allora, come l’ARCI, indossare una maglietta con l’effigie della copertina di Siamo solo noi era oltremodo disdicevole, ed era un attimo a prendersi botte di “stronzo borghese” (cit.). Quasi più rischioso che sfoggiare spencer dalle spalle imbottite e spacciarsi New Romantic.

Insomma, per farla breve, Vasco Rossi piomba in una generazione senza anticorpi e in effetti, se non ci pensavi più di tanto, il genere così un po’ rock con qualche pezzo addirittura reggae ti poteva trarre in inganno. E come biasimarci. Le parole in un italiano così diretto come nessuno mai era riuscito a scrivere hanno scardinato trasversalmente un po’ tutti. Passa poco tempo, ed ecco il manifesto del pensiero rossiano, la vita spericolata a rischio ritiro patente per etilometro, che dalla vetrina di Sanremo spicca il volo per raggiungere una vetta senza ritorno, a cui, nemmeno oggi a distanza di vent’anni, nessuno, nemmeno Ligabue (ecco forse quasi avrei preferito si fosse ritirato lui) è arrivato.

Non mi piace Vasco perché ha catalizzato, monopolizzato e gestito in modo poco proficuo, per lo sviluppo e la crescita di almeno 3 generazioni di giovani, energie positive e costruttive con le quali si poteva tranquillamente fare altro che una rivoluzione. Ma mi sarebbe bastato una presa di coscienza, qualche parola su qualcosa che andasse oltre le sue tematiche standard. Che poi magari bastava solo una parola sbagliata o un pezzo sul piacere della cosa pubblica anziché la monotonia del vivere chiusi nel proprio guscio di periferia (qualcosa di più di cosa succede in città, sia chiaro) ed ecco che ti giochi un parte del tuo bacino di consenso. Che poi, a dirla tutta, secondo me, una volta che hai fatto innamorare di te così tante persone ti seguono ovunque vai. E allora, diamine, e dì qualcosa di sinistra anche tu.

Sanremo 2011, ecco chi vincerà il Festival

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La mia amica S. deve scrivere un pezzo su Sanremo, qualcosa che metta insieme, come è ovvio, musica, costume, gossip e così via. S. è la stessa fan di Morrissey che nel 1987 o giù di lì, ora controllo meglio (1), partì alla volta della cittadina rivierasca per intercettare il suo idolo, ospite straniero di quella edizione del Festival. E di episodi di quel genere me ne ricordo diversi. F. che sosteneva di aver soccorso David Gahan fattissimo o in preda a una sbornia colossale mentre vomitava per i caruggi di Sanremo (2), qualche anno prima. Ricordo anche M., un tizio buffissimo che era convinto di somigliare a John Taylor, che conciato in perfetto stile duraniano faceva incuriosire giornalisti e ragazzine isteriche sul lungomare durante i giorni del festival (3). Sui Duran Duran a Sanremo qualcuno scrisse pure un libro, faccio finta di non ricordare titolo e autrice per non essere accusato di dedicare la mia memoria solo ai ricordi più futili. Al diavolo il dovere di cronaca. Metto solo un link e la cosa finisce qui.

Ma torniamo a S. e al suo articolo. Le ho consigliato, in alternativa, di puntare più alla sostanza, se sostanza e Festival di Sanremo possono coesistere nella stessa frase, raccogliendo in una sorta di superclassifica (roba da supertelegattone) i prodotti più più originali che sono stati lanciati da quel palcoscenico. S., che dagli Smiths è passata nel corso del tempo a fenomeni sempre più estremi di musica alternativa, per darvi in pasto alcune perle di competenza vi butto lì gli Einsturzende Neubauten o roba alla Sigur Ros, mi guarda e storce la bocca. Ma sì, le ho detto, poi metti un lancio tipo “Sanremo 2011, ecco chi vincerà il Festival” (già, proprio come il mio), aggiungi un po’ di tag accattivanti (come quelle qui sotto), magari posti il link sulla pagina Facebook della tua testata, e il gioco è fatto. “Sì, ma non ho ancora capito a quali contenuti ti riferisci“. Già, S. è un animale da nicchie. Con calma, procediamo con ordine.

Pur lasciando perdere conduttori – a cui e di cui non si deve parlare – e coordinatrici di palco (per non usare il termine vallette), a memoria d’uomo (la mia, siete in una botte di ferro) ci sono decine di casi da riesumare. Mi riferisco a brani eliminati dopo la prima serata, ultimi posti, o anche brani e artisti di successo che è ingiusto snobbare solo perché presentati in quel calderone obsoleto e completamente avulso dalla realtà artistica e musicale italiana che è Sanremo. S. ha così scommesso che non ce l’avrei fatta a mettere insieme almeno 10 esempi, canzoni che lei potrà raccogliere nel suo articolo. “Tsk“, le ho detto. “Sei pronta? Accendi il registratore, andrò in ordine sparso“. Si va in scena. Visto il mio background (e la mia età), il periodo preso in rassegna va dal 1975, prima edizione di cui mi ricordi, al 2001, ultima edizione che ho seguito, più qualche eccezione vissuta di riflesso. “Considera però l’anno di uscita e il contesto, naturalmente“. L’innovazione è sempre relativa.

1. di Ruggeri – Muzio: Contessa. Cantano: i Decibel (1980)


Lo so. Ho iniziato con un brano classico e scontato. Ma non si era mai sentito un pezzo così e mai visto un look simile, in Italia. Da leggere, sul sito dei Decibel, la genesi del pezzo.

2. di Cocciante – Santandrea: La fenice. Canta: Santandrea (1984)


Una sorta di Giovanni Lindo Ferretti (chissà perché mi viene sempre da scrivere Giuliano Lindo Ferrara, mah.. sarò tratto d’inganno dalle iniziali?) in versione operetta, su base plasticosa italo-disco-wave anni ’80. Dimenticato presto, non da me, ricettacolo di pochezze. Ritornerà alla ribalta qualche anno dopo con il nome completo di battesimo (Rodolfo), autore e interprete della celebre “ho un’arancia nella pancia”.

3. di Abate: Cose Veloci. Canta: Garbo (1985)


Lo so (ancora). Su guggol digiti Garbo e Sanremo e ti viene fuori come risultato Radioclima, binomio certificato anche dai cultori e puristi. Una pietra miliare, certo, ma io preferisco questo brano dal piglio alla LLoyd Cole, più evoluto e maturo anche se meno wave e berlinese (nel senso del periodo di Bowie). Come per Radioclima, la critica gli ha riservato il fondo della classifica. Tsk.

4. di Fossati – Guglielminetti: Un’emozione da poco. Canta: Anna Oxa (1978)


“Anna Oxa conciata come una punk londinese”, dice un noto motivetto degli Offlaga Disco Pax. E chi non se la ricorda? Peccato l’involuzione e la discesa verso i meandri dello specifico sanremese, unico palco che l’ha vista davvero protagonista. Qui, era il 78, ci si aveva l’abitudine di bucarsi le guance con le spille da balia e di bucarsi le vene con altro. Il punk, quello estetico e modaiolo di Malcolm Mc Laren viene sdoganato anche nella più tradizionalista della tradizione canora italiana, in prima serata, sul Primo Canale. Ricordo di aver aspettato l’esibizione di Anna Oxa a Disco Ring la domenica successiva, e di essere stato premiato con lo stesso inizio di esibizione, spalle al pubblico. Questa sì che è trasgressione.

5. di Bissi – Battiato – Pio: Per elisa. Canta: Alice (1981)


Battiato in versione femminile. Fu amore a prima vista, soprattutto perché, studiando pianoforte, colsi la citazione colta. Non trovo il video di tratto da Sanremo, spero vi accontentiate di questo.

6. di Romano – Casacci – Di Leo: Tutti i miei sbagli. Cantano: i Subsonica (2000)


6 bis. di Castoldi – Urbani: L’assenzio. Cantano: i Bluvertigo (2001)

Il meglio dell’indie-rock anni ’90 sbarca al Festival, un’operazione di mercato riuscita che ha permesso a entrambe le band di proporsi a un pubblico diverso (e più ampio). L’innovazione non è tanto nelle due canzoni, piuttosto tendenti alla grande distribuzione rispetto agli standard dei momenti artistici migliori di entrambi i gruppi, quanto nell’accostamento con il resto della manifestazione. Samuel che balla come se fosse in un club, Morgan che indossa il basso con la dovuta calma. Momenti irripetibili, merito degli Amici e di altri Fattori (X) oggi più affini al gusto imperante tra i giovani.

7. di Marrale – Golzi, Vacanze romane. Cantano: i Matia Bazar (1983)


La svolta di uno dei gruppi più interessanti della canzone italiana culmina con questa esibizione. Un pezzo su cui si è già detto tutto e, tentando qualcosa, correrei il rischio di plagiare altri scritti. Lascio solo il link a una pagina dedicata a Mauro Sabbione, il tastierista che prese il posto di Piero Cassano e che contribuì in assoluto al periodo migliore della band. Questo, appunto. Mauro Sabbione (che peraltro sei mio amico su Facebook), se per caso leggi questo post, sappi che sei stato il mio principale tastierista ispiratore, insieme a Mick MacNeil e a Carlo Speranza.

8 di Gaetano: Gianna. Canta: Rino Gaetano (1978)


La popolarità di Rino Gaetano e di questo pezzo si è manifestata con un crescendo continuo, complici il periodo in cui venne composta, la perpetua attualità delle liriche di Gaetano, la sua riscoperta in pieno revival dei ’70, il karaoke, la nostalgia per la tv in bianco e nero (anche se le trasmissioni erano già a colori, ma solo per i più ricchi), la sua tragica scomparsa. La sua esibizione resta uno degli episodi migliori in assoluto nella storia del Festival.

9. di Avogadro, Borghetti, Fanigliulo, Pace: A me mi piace vivere alla grande. Canta: Franco Fanigliulo (1979)


Non vorrei passare per radical chic (di questi tempi, poi) ma questa è una chicca, a cui sono molto affezionato, nonché brano vincitore morale dell’edizione 1979. Tacciato anche di vilipendio alla religione, con un bell’errore voluto di grammatica nel titolo, il brano, apparentemente un tripudio di fricchettonaggine all’italiana dell’epoca, risulta essere una piacevole eccezione nel piattume con cui si riempiva il Festival in un periodo in cui la musica e la canzone erano davvero altrove (leggi nelle piazze. Forse il periodo, quello che ho appena scritto, era troppo lungo?). Come anomalo era Franco Fanigliulo, scomparso purtroppo prematuramente.

10. di Rossi: Vado al massimo. Canta: Vasco Rossi (1982)


Non mi è simpatico Vasco, per nulla. Ma vi assicuro che la sua esibizione, quella che avete appena visto, è stata una bella botta.

(1) Gli Smiths parteciparono come ospiti a Sanremo Rock, una manifestazione collaterale al festival, proprio nel 1987. Suonarono, in un ostentato playback, 4 brani tra cui Ask (gli altri 3 facilmente reperibili nei suggerimenti su youtube)
(2) I Depeche Mode furono ospiti nel 1986 con Stripped (e se non erro anche nel 1990 con Enjoy the silence, ma l’edizione a cui si riferisce l’autore è la prima)
(3) Era il 1985, non aggiungo altro. Qualcuno sa il perché.
(4) Se invece cercate qualche melodia più mainstream, il Post ha raccolto le 10 migliori canzoni di Roberto Vecchioni. Vado a sentirle.

 

 

sundayness, o domenicosità, ovvero spiegare cos’è la domenica negli altri giorni della settimana

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M. sfonda porte aperte. Poco fa, a cena, in una sera che è la domenica sera, mi ha proposto e abbiamo a lungo discusso di quella sensazione, o come diamine si può chiamare altrimenti, che è la domenica. Ed è incredibile come possa essere un qualcosa di universalmente riconosciuto, almeno qui nell’occidente opulento. La domenica è tutto sommato un argomento oscuro, di cui si cerca di capirne il senso vivendola, ogni maledetta domenica, senza mai arrivare al punto. Senza mai riuscire a spiegare che cos’è quella specie di indescrivibile malessere che si prova la domenica.

Ci si rende sempre conto che è domenica, la domenica. La controprova è pensare che è domenica quando il lunedì successivo non si lavora o non si va a scuola, durante le vacanze, per esempio. Non è l’essere a ridosso di un giorno feriale che fa la differenza. La domenica non potrebbe essere un altro giorno. Da questo punto di vista, potrebbe trattarsi davvero di un giorno da santificare. Un giorno con una marcia in più, con una brillantezza artificiale, come una sorta di video postprodotto in cui si dà una colorazione diversa se c’è il sole, o si accentuano le tonalità di grigio quando è nuvoloso. Il freddo è un freddo da domenica, e in estate si suda diversamente. Le città sono così vuote solo di domenica, anche rispetto a feste in cui in giro si incontra meno gente. Perché si tratta di un vuoto diverso.

A quel punto a tavola è scattata la gara di esemplificazione delle situazioni tipiche da domenica, che cerco di riassumere qui, ma a cui spero aggiungerete qualcosa voi. Vista l’età anagrafica dei conviviali, i contributi partono da almeno 35 anni fa con Buona domenica, di Antonello Venditti. Un pezzo sull’angoscia del settimo giorno da ascoltare anche la domenica pomeriggio, in inverno, mentre fuori piove, i tuoi genitori bevono il tè con le tue vecchie zie e tu non puoi o non vuoi uscire perché non ti sei organizzato e non esistono ancora gli sms. La scena infatti è in bianco e nero (è il 1979), M. sente la sorella grande ascoltare la cassetta di Venditti con ostinazione, senza capire il perché. Il link più immediato è l’ubriacatura da maratona televisiva pomeridiana con cose tipo Domenica In, se non altro per vedere a Discoring le popstar del momento. Siamo ancora in pieni anni ’70. Non è difficile, quindi, immaginare di chiudere il cerchio proprio con Antonello Venditti che canta Buona domenica in playback proprio in quella trasmissione, ricordo che abbiamo subito rintracciato e reso tangibile su youtube.

Con F. invece facciamo un salto in avanti di qualche anno, tipo il 1984. La sensazione della domenica pomeriggio è l’annoiarsi a vuoto in un bar di periferia, le Honda XL dei più grandi della compagnia parcheggiate fuori disordinatamente, dentro il chiacchiericcio sconnesso sopra la telecronaca delle partite. Pochi consumano ma si trascorre lì tanto, troppo tempo e si fumano sigarette ininterrottamente. Habituè che giocano a boccette, whisky e amari di sottomarca. Colonna sonora: qualsiasi pezzo di Vasco Rossi (seguono tutta una serie di cliché e atmosfere tondelliane). Si finirà in discoteca? O al cinema?

Il cinema però è un ricordo collettivo più da grandi, anche perché costoso se ripetuto 4 o 5 volte al mese. La sensazione tirata in ballo però è senza tempo: l’entrare nella sala con la luce del giorno, passando alla luce artificiale che si spegne lasciando il posto alla proiezione. Il tempo e la domenica stessa si sospendono per 90 minuti circa, e si ritorna nel mood dopo i titoli di coda, mentre il cinema ti vomita fuori nel tardo pomeriggio, già buio, mentre magari ha iniziato anche a piovere. Non poteva andare peggio.

C’è chi come A. che aggiunge a questo quadro un particolare ancora più deprimente: la città che ospitava la caserma di C.A.R. – erano i tempi della leva obbligatoria – e che, la domenica pomeriggio, si riempiva di ragazzi con i capelli corti e dagli accenti più improbabili a spasso sotto i portici, a caccia continua di genere femminile, per poi finire la giornata ai tavoli delle numerose pizzerie del centro.

Chiudo con la nomination per la miglior titletrack della domenicosità (o sundayness), la musica votata all’unanimità come quella che più di ogni altra sanciva la fine del tanto agognato obiettivo a medio termine di ogni studente. Questo almeno fino a quando è stata trasmessa in tv. Dopo questa sigla di chiusura, il sipario sulla domenica scendeva irrimediabilmente, per lasciare il posto al lunedì. Si poteva posticipare ancora per qualche manciata di minuti la fine della festa, ma non si sarebbe fatto altro che togliere tempo prezioso al sonno e vendicarsi su il proprio se stesso alle prese con il giorno dopo e dato in pasto alla sveglia del lunedì mattina. E se i compiti non erano terminati, a quel punto, con quella sigla di chiusura, non ci sarebbe stata più alcuna possibilità di rimediare. Tutto troppo tardi. Signore e signori, buonanotte.