Sembra che i corsi di public speaking siano sempre più gremiti di gente che vuole imparare a esprimersi e a convincere il prossimo. Si tratta di un dato che non fatico a mettere in relazione con la felice dichiarazione di Umberto Eco riportata su La Stampa di ieri. Il nostro intellettuale preferito, in occasione del conferimento della laurea honoris causa in “Comunicazione e Cultura dei media”, ha scatenato un putiferio tra gli influencer più in voga sostenendo che “i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”. La “triplete” è completata dai corsi di scrittura creativa e il self publishing, con cui un’orda di miserabili (capitanata dal sottoscritto) persegue illusorie velleità nel mondo dell’editoria e della narrativa.
Il problema è che non abbiamo un cazzo da dire e da dirci e quel poco che diciamo lo hanno già detto gli altri e quello che non hanno detto gli altri in realtà non interessa a nessuno. Imparare a mantenere l’interesse del prossimo non serve se non ci sono contenuti da trasferire, malgrado le slide a supporto. Sui social è evidente a tutti la deriva a cui il genere umano sta tendendo. Il resto riguarda lo scrittore o il poeta che vive nascosto in tutti noi e che la democratizzazione dei media ha ringalluzzito. E c’è un altro punto. Quando c’erano i soldi si parlava di persona e in diretta, senza tanti fronzoli. Ora che i soldi sono finiti ci spartiamo le briciole con la comunicazione in differita e frutto di anni di elucubrazioni di persone parcheggiate in università a studiarla, con l’aggiunta del popolo che sente di dover dire la sua anche quando non sa cosa dire.
Proprio ieri viaggiavo su un Frecciarossa del mattino, una di quelle mostruosità (in senso buono) tecnologiche popolate da lavoratori dei servizi che portano il loro know how su e giù per la penisola a 300km all’ora. Professionisti dalla posizione sempre in bilico che sfruttano questa parziale ubiquità raggiungendo nuovi mercati alla ricerca di nuove opportunità. L’impressione è che la crescente povertà che ci fa riempire la rete di contenuti come se non ci fosse un domani ora ci spinge a ripetere l’errore sugli spazi fisici, spostando noi stessi e un non si sa bene cosa tramite mezzi ultrarapidi e occupare i pochi vuoti rimasti. Una riflessione che mi ha mandato nel panico. Poi ho pensato che sarebbe ora anche di smettere di lavorare di fantasia. Quella specie di cloud cerebrale comune in cui finiscono tutte le cose a cui pensiamo nei tempi morti – come un viaggio sul Frecciarossa – sarà ormai anch’esso saturo, ma mi piace pensare che il frutto di tutti questi sforzi intellettuali si disperda nell’aria, come sarebbe bene evaporasse anche tutto il resto.