un film per un altro

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La signora Edna, diventata nonna tutto sommato giovane, ricambia il saluto della nipote equivocando il gesto del caffè con le dita che formano una specie di ok e il polso che ruota un paio di volte velocemente portando alla bocca una tazzina invisibile e il qui pro quo è favorito dallo stupore per quello che sta facendo il ragazzo seduto nel posto a fianco. La signora Edna, che non conosco ancora ma si presenterà alla fine della storia, si alza approfittando del treno che non è ancora partito e viene a chiedermi se posso intimare al suo sconosciuto compagno di viaggio di spegnete il tablet che rientra nel suo campo visivo, su cui sta seguendo un film per adulti o, come lo definisce lei, un pornazzo di quelli belli tosti. Oltre a lei a rischio disagio c’è una folla di bambini con la maglietta dell’oratorio che vanno in piscina ma comunque non si tratta di un passatempo da coltivare in pubblico. Se non fosse che la signora Edna è così scossa le suggerirei di trovarsi un altro posto perché, anche se disapprovo e non dovete fraintendermi, ognuno è libero di vedere quel che vuole, ma la cosa più di buon senso che mi viene in mente al momento è che il pornografo posizioni il suo tablet con un’angolazione tale per cui nessuno riesca a sbirciare nel suo schermo. Il risultato però è che la signora Edna si trova un altro posto proprio a fianco a me e vi giuro che non ricordo di essere mai stato a contatto con un persona così ipercinetica. Non sta una decina di secondi ferma. Termina il “Corriere” in una manciata di minuti e dell’inserto culturale “La Lettura” a malapena guarda le figure. Intravedo un bel servizio sul legame tra alcune città USA e gli scrittori a cui hanno dato i natali e quando vede che lo sto leggendo a scrocco passa all’inutile paginone successivo dedicato alle lande del terzo mondo a rischio sisma, come se non fossero già colpite da abbastanza sfortuna. Ah, dimenticavo: alla fine si è scoperto che il film in questione era “Samba” con Charlotte Gainsbourg e Omar Sy e la signora Edna l’aveva scambiato per “Nymphomaniac”, sarà per la co-partecipazione simultanea di attori bianchi e attori di colore.

passano ancora lenti i treni per Lourdes?

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Ma quindi passano ancora lenti i treni per Lourdes? Potete aggiornarmi e per un istante evitare che vi ritorni la voglia di vivere a un’altra velocità? I treni per Lourdes erano una visione notturna per quelli che aspettavano l’ultimo locale per tornare a casa in qualche stazioncina di provincia, quelle dove non fermano né diretti né espressi tantomeno gli Intercity. Avrete capito che mi riferisco a treni di un’altra epoca, altro che Tav e Freccia Rossa. Era proprio il tempo di Alice e Franco Battiato e della loro partecipazione all’Eurofestival dell’84. Si aspettava l’ultimo locale di mezzanotte, dopo aver dato a chi so io l’ultimo bacio della sera, sulla panchina di uno dei due binari, poi suonava la campanella – ve la ricordate la campanella? Ci sono ancora ad annunciare il treno in arrivo? – ma anziché l’ultimo locale di mezzanotte arrivava inaspettato quanto deludente il treno per Lourdes, facilmente riconoscibile da lontano per via del locomotore, troppo potente per un treno locale.

Un convoglio con le sembianze di un treno a lunga percorrenza che si differenziava dagli altri, e mentre rallentava con lo stridore dei freni per fermarsi lì davanti a persone assonnate in attesa di tutt’altri vagoni, era lì che si capiva che era un treno straordinario, perché era popolato solo da tre tipologie di viaggiatori. Suore o suore/infermiere, comunque sacerdotesse addette al culto della salvezza umana con la divisa bianca da crocerossine che si affacciavano al finestrino per capire perché il treno straordinario faceva fermata lì, con i loro visi acqua e sapone racchiusi dentro al velo o al cappello di ordinanza.

Ci guardavamo loro dall’alto in basso, con l’espressione di chi non capisce quel che succede, noi dal basso verso l’alto perché sapevamo benissimo che cosa stava accadendo, con quei dannati treni straordinari che scombussolavano gli orari dei treni regolamentari, come i trasporti eccezionali sulle strade in cui è già un casino sorpassare veicoli normali. Per me era essenziale che il semaforo consentisse al treno per Lourdes di ripartire in fretta sgomberando il binario per favorire l’arrivo del mio locale, probabilmente fermo alla stazione precedente in attesa del via.

Oltre alle suore/infermiere c’erano vari accompagnatori in abiti laici o vestiti da preti nel tempo libero, spesso persone molto anziane ma in salute e amanti del colore grigio. Quindi ecco la carrozza con i viaggiatori più accreditati su quella linea taumaturgica, ovvero malati, moribondi, gente sulla sedia a rotelle o infermi sdraiati nelle cuccette, la cui ombra si intravedeva da fuori svelandone la sofferenza velata da un pizzico di speranza, quella di scendere trasportati da qualcuno alla stazione di arrivo e di prender posto sulla carrozza del ritorno invece autonomamente.

Ma per me, deluso dal treno sbagliato che significava il prolungamento dell’attesa, il miracolo non era certo quello e al limite poteva avere le sembianze di un capotreno che apriva una porta e mi lasciava salire lo stesso, magari non per spingermi fino a Lourdes ma per la mia quotidiana destinazione. Fantasticavo su un viaggio a bordo di uno di quegli Orient Express del dogma. Sentivo le voci dentro, accenti del sud, risa femminili, qualcuno che si lamentava del dolore nel buio del proprio scompartimento, fino al fischio definitivo che sanciva la fine di quello spettacolo estemporaneo. Il treno ripartiva per Lourdes portandosi via tutto il suo vento, l’aria che prende il posto delle cose ingombranti che prendono velocità. Il binario restava vuoto. Di lì a qualche minuto sarebbe suonata ancora la campanella, mi era stata concessa una seconda possibilità.

lo zen e l’arte di avere pazienza con i treni in ritardo

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Oltre a essere un Paese di allenatori della Nazionale e di Presidenti del Consiglio, e anche di eterni indecisi su cosa e quando alcuni nomi vadano scritti con l’iniziale maiuscola o no, siamo anche un popolo (questo sono sicuro che va minuscolo) di addetti ai trasporti pubblici ed è facile accorgersene se c’è gente come me o come chi ha anche un blog dedicato al pendolarismo che sarebbe in grado di scrivere un’intera bibliografia su cosa va e cosa non va. Soprattutto oggi in cui le Ferrovie dello Stato o Trenitalia o come diamine si chiamano ora hanno pensato di organizzare un incontro con alcuni influencer e, come si dice, di metterci la faccia. No, non sono stato invitato, lo sapete che non sono nel jet set. Ma di treni e di cose che succedono lì sopra ne potrei raccontare a centinaia. Ho viaggiato su locali per frequentare l’Università ogni giorno, ho trascorso una media di quattro ore in andate e ritorni quotidiani per anni tra Genova e Milano per lavoro prima di trasferirmi definitivamente nella metropoli fino a diventare un tesserato modello delle Ferrovie Nord con tanto di card di ultima generazione con chip integrato per acquistare l’abbonamento on line e attivarlo in stazione, in attesa che tutto si possa fare con il telefono. E giusto ieri io e centinaia di lavoratori come me siamo stati sballottati in Bovisa da un convoglio all’altro perché purtroppo alcune situazioni critiche, come il gelo e la neve che ormai non costituiscono più un’eccezione o i lavori su una tratta che moltiplicano la necessità di convogli sull’altra – ovviamente vista la stagione si trattava di questo – l’organizzazione lascia a desiderare. Capisco che si tratti di un sistema logistico di una complessità inimmaginabile mettere insieme vagoni e orari e binari e stazioni, ma a volte vien da chiedersi su errori ripetuti se l’obiettivo sia quello di prenderci per il culo. E, per quello che vedo, la differenza in positivo tra Trenord e le linee della compagnia statale sono più che evidenti, soprattutto sul trasporto locale e per quello che riguarda il materiale utilizzato. L’antidoto alla sofferenza da treno chiuso pieno all’inverosimile che non parte e non si sa il perché è la full immersion nella narrativa. Questo per non riflettere sulla somma del tempo perso in ritardi e treni guasti, che se fai il pendolare e provi a fare due conti non sono bruscolini. Carichiamo sulla tessera allora i punti-vita individuali, ce li facciamo restituire in bonus e vediamo di quanto si allunga la nostra permanenza qui?

bisogna saper perdere

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Alla seconda volta in cui vediamo passare il capotreno attraverso i vagoni, osservare le cappelliere e, se è presente una borsa o zaino porta computer, chiedere ai passeggeri sottostanti se appartiene a qualcuno di loro, è facile capire il dramma che si sta consumando. Qualcuno è sceso a qualche fermata prima dimenticando sul locale, pardon, suburbano per Lodi il proprio PC. O, peggio, con quello che costa, il Mac portatile. Quindi, realizzata la sciagura, il malcapitato è corso in biglietteria esponendo l’accaduto e implorando una azione rapida ed efficace. Ma a giudicare dall’espressione del capotreno, l’oggetto smarrito ha già cambiato proprietario. Che poi non è detto, magari quel qualcuno si sta già organizzando per rintracciare il pendolare smemorato che, tra poco, si troverà vis a vis con il suo destino.

Il momento in cui ti accorgi di aver perso o dimenticato qualcosa è poco meno doloroso di quando prendi un pugno in faccia, di quelli che ti lasciano attonito qualche secondo prima che inizi il dolore fortissimo, il sangue che ti cola dal naso o dalla bocca e che ti fanno accasciare per terra, talvolta senza sensi. Ti accorgi che manca proprio quella cosa nella mano ancora indolenzita che fino a poco tempo prima la teneva, ora che al posto della borsa stringe solo un po’ d’aria con il formicolio sul palmo. E inizi a fare una lista di tutto quello a cui dovrai rinunciare. Oltre al costo dell’oggetto, il lavoro, magari la tesi di laurea di cui è mesi che non fai un backup, tutte le foto della tua vita che non stampi perché sei un nativo digitale, le mail del fidanzato o un po’ di materiale compromettente, chissà. Non si tratta solo di merce che si è spostata da un individuo a un altro, si tratta di una parte di te a cui non avevi mai pensato come necessaria di un sistema di Disaster Recovery permanente.

E non vi nascondo che trovare un MacBook Pro da 17 pollici sul treno è uno dei miei sogni erotici preferiti. Lo vedo sopra di me incustodito, in una costosa borsa gialla. Mi guardo intorno, non c’è nessuno che possa reclamarlo. Così lo prendo con nonchalance e mi avvio all’uscita cercando il più possibile di soffocare l’emozione. Anche se so già che farei di tutto per restituirlo, e non lo dico solo per farmi bello su un blog, credetemi. Come premio di cotanta onestà, sogno a occhi aperti di trovare una busta piena di banconote da 500 euro, almeno un centinaio, frutto di una transazione illegale, così da poter essere intascata senza sensi di colpa. Non so, il pagamento di una tangente, una partita di droga pagata così sottobanco, la mala che ha retribuito un killer che poi, all’ultimo momento, si è pentito è ha deciso di lasciare lì la sua ricompensa in balìa del caso.

Trovare soldi in un vagone ferroviario mi è capitato solo una volta, con un esito degno di essere raccontato. Una storia che ha protagonista un portafogli contenente poco più di centomila lire. Mi sono affrettato, una volta sceso dal treno, a restituirlo alla Polfer in stazione soldi compresi e, tornato a casa, c’era una multa per divieto di sosta da poco più di centomila lire ad aspettarmi. La redenzione si è manifestata qualche mese dopo, a Natale di quell’anno, quando ricevetti un biglietto di auguri da parte del proprietario del portafogli, in ringraziamento del beau geste. Ho dimenticato sui treni invece molti ombrelli, in tanti anni di distrazione. Anzi, numerosi ombrelli, oggetti di poco valore che miracolosamente diventano invisibili all’uscita della stazione di arrivo, fuori piove e provo ad aprirli ma al posto dell’ombrello c’è il nulla, che protegge decisamente di meno.

il carpentiere e il controllore

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Un carpentiere siede su uno dei pochi treni utili a tornare casa in una giornata di sciopero dei lavoratori dei trasporti, dopo un duro pomeriggio di lavoro sotto il sole e sui ponteggi, magari con attrezzatura non a norma, probabilmente pagato in nero, chi lo sa, di certo guadagna più di me ma questo non è il finale della storiella. In una giornata di sciopero, il cui diritto è sacrosanto per tutti – compresi i controllori zelanti e i carpentieri non in regola, ma per i carpentieri in regola e non è un po’ più difficile scioperare, e nemmeno questo è il finale della storiella – l’orario è comunque un concetto molto vago. Ci si siede sotto i display, e si spera che la parolina soppresso non compaia nel record a fianco dell’indicazione del proprio abituale vettore. E per la destinazione che accomuna me e quel corpulento carpentiere, ne è arrivato finalmente uno, quello su cui siamo seduti ora, in questa storiella, a pochi centimetri di distanza. Il treno parte, il tempo di una fermata e si avvicina un ferroviere controllore, giovanissimo e zelante, forse uno dei pochi in servizio oggi sulle linee delle Nord o come si chiamano ora. “Biglietto, prego”, chiede con professionalità il controllore zelante. “Quanto ritardo abbiamo?” chiede il carpentiere. “Ritardo?” si stupisce il controllore. “Sì ritardo, questo è il primo treno dalle cinque, e ora sono le sei e mezza e dovrei essere già a casa da un pezzo, diciamo quindi 90 minuti?” incalza il carpentiere. “Beh ma oggi è stata una giornata particolare perché…” “Senti”, lo interrompe il carpentiere, “allora facciamo così: ripassa tra 90 minuti e ti faccio vedere il biglietto”. “Guardi che la mancata fornitura del titolo di viaggio comporta 40 euro di multa” sottolinea il ferroviere zelante. “E allora facciamo che io ti comporto quaranta calci nel culo”, risponde serafico il carpentiere. Il controllore rimette il blocco e la penna che nel frattempo aveva estratto nel marsupio e prosegue il suo lavoro continuando dal vagone successivo.  “Biglietti, prego”.