Non faccio più classifiche come un tempo quando si tratta di dischi dell’anno, senza contare che più divento vecchio e più ascolto davvero di tutto e mettere insieme carne con pesce – e dargli dei voti, soprattutto – non ha proprio senso. Dovrei fare tutte le categorie per ogni genere, ma proprio non mi ci vedo. Di una cosa sono però certo: il 2013 è stato foriero di dischi interessanti molto più dei vettori temporali di novità che lo hanno preceduto (sono compiaciuto di questa perifrasi). Ecco quindi quello che, secondo me, vale la pena traghettare con noi sulle memory card di quello che ci aspetta nell’anno che verrà.
Intanto un veloce spoiler: se vi aspettate di trovare qui gli stessi album ai vertici dei listoni di gente e siti specializzati sull’indie e dintorni molto più titolati di me, vi sbagliate di grosso. Niente Arcade Fire, niente Vampire Weekend, e nemmeno Daft Punk. I primi due probabilmente li ho sottovalutati e ascoltati molto poco, quindi sono fuori gara. Dei pluripremiati mascherati e dei loro meme ne ho fin sopra quei pochi capelli che mi restano, quindi meglio lasciar perdere.
Due dischi i cui solchi ho consumato dalla loro uscita sono Trouble will find me dei The National e Satellites.02 di Satellites. L’album della band americana, anche se un po’ meno dirompente di High Violet, è in perfetta media con l’alto livello del resto della loro produzione. Anche il long playing del raffinato progetto di Johnny Vic è stato davvero una delle sorprese più piacevoli dell’anno. Il fatto che li abbia citati nello stesso paragrafo è solo l’espressione di una affinità elettiva che ravvedo tra loro. Non sono certo uno di quelli che sostiene che il secondo sia l’epigone dei primi. Basare il giudizio riguardo a Satellites solo sul timbro vocale alla Matt Berninger è fortemente riduttivo. Nella stessa categoria, sia come genere che dal punto di vista qualitativo, rientra Chop Chop degli irlandesi Bell X1, dove guarda caso lo zampino dei The National comunque in parte si sente. Che vi devo dire, vado pazzo per quelle atmosfere lì anche se in quest’ultimo caso il cantante è su tutt’altre estensioni vocali.
Ma ci sono altre sonorità che mi accendono la smania di acquistare vinile: voci femminili black ma poco r’n’b, pelle scura e folti e intricati dreadlocks sulla testa. Sono solo dettagli per un disco come Pushin’ Against A Stone della grintosissima blueswoman Valerie June, che a proposito di timbro balza al top delle mie cantanti preferite. Da questo suo ultimo lavoro – che me l’ha resa nota – sono andato a ritroso a scoprirne la precedente auto-produzione, davvero superlativa.
Novità anche sul fronte Tv On The Radio, che, come già scritto più volte, qualunque cosa pubblicata da loro tutti insieme o singolarmente o in qualche progetto parallelo spacca. Del gruppo di Brooklyn sono usciti solo un paio di singoli niente male come Million Miles e Mercy, quindi niente disco dell’anno ma se ne riparlerà a breve, dato che a quanto pare stanno registrando altri pezzi per un nuovo lavoro. Ci possiamo accontentare, per il 2013, dell’EP degli Higgins Waterproof Black Magic Band capitanati da Tunde Adebimpe, dal titolo The Blast, the Bloom. Come per i The National, per i TVOTR sono di parte. Cinque stelle anche per loro.
Una manciata di band da mettere tutte insieme per altri ascolti degni di nota in quest’anno, a partire dai The Hands, autori di un album piuttosto fresco dal titolo Synesthesia. Pop-rock alternativo di matrice britannica tanto quanto i The Foals che hanno confermato con Holy Fire il loro talento pregno di math-rock a tratti prog. Dalle stesse latitudini e dalle stesse sonorità gli Everything Everything hanno dato alla luce un buon secondo album dal laconico titolo Arc.
Gran bel disco anche Brightest Darkest Day dei Pyyramids, un duo di Los Angeles che comprende Tim Norwind degli Ok Go e la cantante Drea Smith. C’è un po’ di tutto, dark, elettronica e rock piuttosto duretto che incattivisce qualche svolta più poppettosa (ma vi giuro che non parlo così).
Il 2013 ha visto quindi il ritorno dei canadesi Suuns, autori di Images Du Futur, un disco che ha sancito la loro svolta su atmosfere più sperimentali rispetto al precedente e sempre più agli antipodi del rock. Un trionfo di post-punk invece in Forever degli svedesi Holograms, roba di matrice derivativa come piace a me ma che che è riuscita a reinventarsi con tutta l’acqua che è passata sotto i ponti dalla fine dei Joy Division. Di opposta matrice invece Ghostpoet e il suo album Some Say I So I Say Light, una specie di post-hip hop disordinato,sghimbescio e stralunato proveniente dall’Inghilterra.
Chiudiamo questa superficiale top ten – per le recensioni, come avete visto, rimando a gente che ne sa più di me – con due passaggi obbligati. M.I.A. che finalmente ha pubblicato il suo Matangi dopo alcune “traversine” (come dice un mio amico) e che è stato eletto all’unanimità (mia e basta, anzi M.I.A. e basta) come colonna sonora della fine del mondo. Se fossi Kathryn Bigelow e dovessi scegliere qualcuno da mettere sul palco nella notte di capodanno prima della rivolta globale termonucleare in un film, ci metterei il suo noise-electro-tutto che non ha eguali al mondo. Solo per questo, Matangi merita il primo posto. Ma il 2013 non è stato un anno come tutti gli altri. Non capita tutti i giorni, infatti, che esca un nuovo album di David Bowie. Figuriamoci se il giorno è quello dopo.