Avete presente quando siete in quattro in macchina, diciamo A, B, C e D. A, che è alla guida, prova interesse per B, che siede davanti. Ma B è ancora innamorata di C, che siete proprio dietro di lei e sta armeggiando al buio con accendini e cartine, e il problema è che C ha lasciato B perché ha in ballo una storia che tiene segreta con D che, lì a fianco, guarda la strada e tutti i lampioni che a singhiozzo interrompono il buio. E C ha una gran voglia di fare sul serio con D, se non che D non si toglie dalla testa E che è partito ed è andato a studiare a 500 km di distanza e che poi è l’unico che sa tutto di tutti. A imbocca un rettilineo e approfitta di quel tratto di strada affrontabile con una mano sola per cercare una canzone presente nella cassetta che ha appena inserito dell’autoradio. Si tratta di una specie di canzone d’amore con un ritornello che parla chiaro. Una canzone d’amore che quella sera piace a tutti, così A, B, C e D cantano insieme, in coro. A la canta per B, B per C, C la intona per D e addirittura si volta dalla sua parte per farle arrivare più direttamente il messaggio. D è l’unica che canta sperando che la sua voce esca dall’abitacolo e si senta forte e chiara ovunque. La canzone è molto bella anche se un po’ datata, e poi sembra che il messaggio sia arrivato a destinazione, e se A, B e C un po’ si sono persi di vista, D ed E no, tutt’altro, tanto che auguro a loro un buon anniversario di matrimonio.
A dieci minuti dalla partenza sarebbe già tornata indietro, il panorama dal pullman era tutt’altro che interessante e l’unico diversivo possibile era spostarsi verso i sedili in fondo come tutti. Ma l’ultima volta che aveva viaggiato dando le spalle al senso di marcia aveva sofferto, la nausea e tutte le conseguenze delle strade tortuose. Era passato un anno, ma meglio non rischiare. La fronte appoggiata al vetro, fuori l’autostrada e il paesaggio indefinito tra nebbia, oggetti in movimento e i riflessi da fuori, giocare con le pupille finché non fanno male. Ma dall’altra parte, il posto a fianco, sarebbe stato peggio. Era finita per caso vicino a una ragazza dell’altra sezione, chiusa nel suo bozzo fatto di kefiah e occhiali da sole, in una postura inequivocabilmente da sonno. Sperava nel ronzio dell’automezzo e nei brevi ma ripetitivi loop dei rumori, l’alternarsi dei guardrail e le barriere di insonorizzazione per i centri abitati, i veicoli in fase di sorpasso, l’asfalto drenante e i giunti sui viadotti. Da dietro, nella fessura tra i due poggiatesta, spunta una mano con una cuffia. Tieni, io faccio un pisolino, le dice il compagno di classe seduto dietro, che poi siede dietro di lei per davvero anche in aula, ma in prima superiore non ci si conosce per nulla e poi c’è quella cosa alla gola che non fa uscire nemmeno una parola. Non aveva mai posseduto un walkmen in vita sua, non aveva mai pensato nemmeno a farselo regalare perché la musica lei l’ascoltava con la porta chiusa della camera e le luci spente, la stessa cassetta ogni sera con cui prendere sonno. Per intuito capisce come si accende mentre l’amico da dietro le regola le cuffie sulle orecchie lottando con i capelli informi e i muscoli irrigiditi dall’imbarazzo e poi si getta a rannicchiarsi nel suo sedile. Qualche secondo e inizia un pezzo, nella fessura trasparente si legge una parte dell’etichetta della Tdk C90 scritta in corsivo a pennarello blu in cui si intuisce solo una parola che finisce per “dinista”. Rimane a bocca aperta, si gira per dirgli qualcosa, ma lui dorme già.