se componi il numero puoi sempre cambiare idea prima dell'ultima cifra

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Non ci si può sbagliare: il prefisso lo si deve usare solo per le interurbane, mentre per chiamare compagni di classe e amici è sufficiente fare il numero. Per comodità mio padre comunque conserva una guida preziosa nel cassetto che contiene in ordine alfabetico per comune tutti i codici di avviamento postale e i prefissi teleselettivi. Siamo nel 1976 ed è quasi l’ora che i miei si siano decisi a mettere il telefono. Alessandro, che è il mio migliore amico e ha il numero 29841, mi fa credere che nel primo mese di utilizzo si può chiamare chiunque senza pagare una lira in bolletta, ma capisco subito che si tratta di una burla e mica ci casco.

Oltre il suo, il secondo numero che imparo a memoria è 26615 ed è il centralino del Liceo in cui lavora mia mamma. Fa i pomeriggi e quando siamo a casa per un motivo o per l’altro è sempre bene sentirla. Quello dell’ufficio di mio papà è invece un numero già a sei cifre ed è 800998, che con il telefono a disco ci vuole mezz’ora per comporlo tutto ed è anche per questo che si fa prima a chiamare la mamma. Ovvio che impariamo come prima cosa il nostro numero di casa, 30125, sin dal primo momento in cui mio papà ci comunica la portata innovativa di avere finalmente in casa una linea tutta per noi. Basta scendere dal lattaio per le chiamate di necessità, basta suonare ai vicini per quelle di emergenza.

Dopo qualche anno la Sip impone a tutta la città i numeri a sei cifre ed è per questo che di lì a poco siamo costretti anche noi a cambiarlo. Leggevo con invidia i numeri dei conoscenti che abitavano nei quartieri di recente costruzione e non capivo il motivo di quel privilegio che trasmetteva modernità, allo stesso modo dell’attualità della toponomastica di quelle zone con nomi appena entrati nella nostra storia e nella nostra cultura rispetto a una banale e vetusta battaglia napoleonica come la mia via.

Fino alla scelta più democratica: l’uso del prefisso indiscriminatamente per le chiamate in città e fuori, il primo vero passo verso la globalizzazione. Cittadini del centro, della periferia e delle zone più chic, gente nata in città o trasferitasi da fuori, ricchi e poveri, operai e dirigenti d’azienda, tutti ancora in ordine alfabetico sull’elenco e con l’obbligo di essere raggiunti solo tramite una cifra con lo zero davanti. Prima del libero mercato, ad anni luce di distanza dalla telefonica mobile, comprendo di esser stato testimone del momento della nostra storia più vicino all’applicazione del socialismo e della concreta e reale uguaglianza tra gli uomini di ogni estrazione.

finalmente libero

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Dev’essere stata nostra madre a insegnarci come si telefona, se non ricordo male, a metterci al corrente dell’etichetta da utilizzare per non apparire maleducato a un interlocutore che risponde e che non è il diretto interessato da coinvolgere nella conversazione che si vuole avviare, nella richiesta di notizie che si ha bisogno di chiedere, nella semplice constatazione che va tutto bene da un capo all’altro della linea perché è un po’ che non ci si vede e non ci si sente.

Una metodologia resa necessaria dal fatto che avere il telefono in casa non era così scontato, si poteva nascere e crescere fino a una certa età senza averne uno e ricorrere a quello pubblico più vicino per le urgenze e fornire il numero di quello dei vicini di casa in caso di necessità di essere rintracciati. La mia famiglia fino a un certo punto non ha posseduto un apparecchio telefonico, come non ha avuto sempre a disposizione un’automobile di proprietà, un ascensore condominiale e persino un bagno con tutti i crismi, nel senso di doccia, vasca e bidet se non un suo surrogato di plastica componibile da riempire di volta in volta di acqua fredda, indipendentemente dalla stagione. Cose che, come si dice, non usavano.

Ed è stato così, almeno per il telefono, fino a quando mio papà è venuto a comunicarci il nostro numero di cinque cifre – trenta centoventicinque – così, senza il prefisso che nelle chiamate urbane non doveva essere messo davanti. Da lì l’esigenza del training per irrompere con la giusta e buona educazione nelle vite degli altri con uno squillo ripetuto, che in certi frangenti risuona come un disturbo dell’intimità del quale bisogna scusarsi di default. Buongiorno/buonasera sono nome cognome, parlo con la famiglia cognome? Si/No (esiste la possibilità che si sbagli a selezionare il numero). Se si: C’è nome_interessato? Grazie buongiorno/buonasera.

Poi alle richieste di chiarimenti sui compiti e agli inviti per i giochi pomeridiani con merenda sono subentrate le chiamate romantiche, quelle con le quali si occupavano gli apparecchi per ore dolci e bollette salate, con fratelli e sorelle che rivendicavano il loro diritto a un uso analogo. Tanto che per ovvi motivi di privacy io preferivo munirmi di gettoni o, più tardi, di schede e utilizzare uno dei loculi di uno di quei posti pubblici della Sip che non esistono più, con le cabine insonorizzate la cui assenza di rumori esterni dava sin fastidio.

Ma oggi la telefonata non conserva più la drammaticità dell’evento unico, raro, persin costoso. Contratti flat e dispositivi personali, per non parlare della maggiore importanza che rivestono le conversazioni scritte (male) hanno svilito il pathos del parlarsi a distanza e senza faccia. Al telefono si costruivano e si distruggevano amori, si progettavano futuri di gloria, ci si attribuiva responsabilità di attentati e sequestri di persona, ci si rendeva irrintracciabili.

Ora tutto questo ha un significato e un sapore diverso, il parlarsi è una delle tante funzionalità digitali e non ne sto dando un giudizio morale perché anzi, per certi versi è anche meglio così. Lo stordimento da conversazioni fiume, si manifestavano rare e quindi lunghe in quanto concentravano più cose da dirsi, era una sensazione postuma che rimaneva appiccicata come una morsa sull’orecchio, rosso e indolenzito per tutto quel tempo con la cornetta tenuta schiacciata per l’intenzione di un abbraccio, in fondo il telefono e la persona con cui si parlava avevano la stessa voce.