un gita domenicale in un posto dall’indiscutibile fascino

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Se ci avessero detto, quando consegnavamo brevi manu i curriculum ancora impregnati dell’odore delle foto-copisterie a SMAU negli anni novanta, che saremmo finiti a fare un lavoro così impensabilmente di merda come i socialmediacosi nel duemila e rotti avremmo cambiato strada subito e scelto un destino meno vacuo. A partire da quando poi ci chiamavano per i colloqui nei centri direzionali come il Colleoni di Agrate Brianza in cui non c’era nemmeno un mezzo pubblico da cristiani per raggiungerlo senza la macchina. Ci sono passato di fianco proprio ieri che era domenica, all’imbrunire. Sapete meglio di me l’impatto fisiologico che i luoghi destinati al business vissuti nei giorni festivi hanno sugli esseri umani sensibili. Nausea, mal di pancia, malesseri intestinali.

Una volta avevo letto di un bar ubicato proprio in uno di questi non-luoghi che si era inventato nei fine-settimana estivi delle serate con musica e cocktail. Si tratta di esercizi pubblici che vivono grazie ai ticket restaurant degli impiegati delle aziende che hanno la sede lì dal lunedì al venerdì. A nessuna di queste persone verrebbe mai in mente di recarsi in un posto che puzza di ufficio lontano un miglio nel weekend, e se a questo ci aggiungete che queste aree sono ben isolate dai centri urbani potete immaginare il successo dell’iniziativa. Luci colorate, tavole imbandite per l’apericena, long drink esotici preparati da un barman acrobatico ingaggiato per l’occasione, musica con il meglio della merda latino-americana del momento e il locale vuotissimo all’inverosimile.

Per questo i centri direzionali come il Colleoni di Agrate Brianza a me fanno tenerezza perché, come certe specie animali di allevamento, sono l’ennesimo prodotto della smania di fare soldi dell’uomo. Tonnellate di cemento e di attrezzature Ikea da ufficio sfruttate senza ritegno e poi abbandonate a loro stesse in un tripudio di ipocrisia. Un tempo, quando l’economia girava, probabilmente tutto ciò incuteva timore. Quelle persone che sono state chiamate per un colloquio dopo aver consegnato il loro curriculum a SMAU negli anni novanta e che non avevano mezzi propri per attraversare gli effluvi di brodaglia delle industrie alimentari nelle vicinanze di Agrate sono arrivate all’ingresso del Colleoni che ancora era buio per sfruttare la combinazione di treno + metro + navetta da Cascina Gobba a un costo conveniente.

Oggi invece chi immagina che cosa è rimasto in quartieri di affari nei tempi crisi come quello transita in macchina a fianco, la domenica sera, consapevole che non c’è quasi più nulla da perdere, che uno alla volta qualcuno viene allontanato da lì senza essere più rimpiazzato, e che i giganti edificati per aggiungere ricchezza alla ricchezza oggi sono come vecchie attrazioni da circo a cui faccendieri senza scrupoli, imponendo gli standard della cattività da arrivismo, hanno negato la loro vera natura per sempre. Da lontano, all’imbrunire, nemmeno una luce accesa. Il buio, il vuoto, l’incertezza che lunedì qualcuno, in quelle stanze, disinserisca ancora i codici di allarme. Le aziende oggi si sono spostate quasi tutte a sud di Milano, in altri centri direzionali. Che almeno tutto ‘sto andirivieni di uffici che traslocano da una parte all’altra, in cerca dell’affitto più conveniente e della classe di efficienza energetica più adeguata ai tempi che corrono, abbia portato qualche soldo in tasca a qualcuno.

hit parade di alcune cose che non ci sono più

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Meno male che certe cose non hanno preso piede, pensavo proprio ieri mentre uno di quei non-programmi televisivi che si vedono solo d’estate e quando le emittenti che non trasmettono i mondiali di calcio devono ingannare il tempo aspettando che il pubblico si distribuisca in modo più equo tra tutti i canali tv mi ricordava, lungo una hit parade del 2001, che sono già passati tredici anni da Crying at the discoteque dei sedicenti Alcazar, che era quel tormentone disco-vintage che riproponeva un riconoscibilissimo sample di Spacer di Sheila and the Black Devotion. Chissà perché l’ho collegato a un’usanza che poi tutti abbiamo lasciato passare inosservata, fortunatamente, per manifesta incompatibilità con il genere umano e che era quella di partecipare a rave party o feste danzanti indossando cuffie e ballando così su una musica non amplificata, tanto che chi capitava per caso rimaneva a bocca aperta alla vista di una moltitudine di giovani che si muovevano a ritmo ma senza sentire nulla tranne i fruscii dei vestiti, il tintinnare di bicchieri, qualche verso di compiacimento, le zeppe sul dancefloor e poco più. E anche sono certo nessuno sentirà la mancanza di Second Life, quella sì che era una roba da dementi, altro che Facebook. Quelli che spendevano per arredarsi gli appartamenti della loro vita virtuale parallela andavano presi a schiaffi e qualcuno deve pur averlo fatto sul serio perché Second Life è sparito dalla circolazione. Oppure ascoltando Think Tank dei Blur oggi è incredibile pensare che qualcuno abbia potuto mettere la band di Damon Albarn sullo stesso piano degli Oasis o anche solo inventarsi una competizione e divulgare un fenomeno dicotomico. Alla lunga non c’è proprio paragone. Siete d’accordo? Ho notato infine che di sigarette elettroniche non se ne vedono più tante in giro, da notare il fatto che in posti più civili del nostro non se ne è mai vista nemmeno una. Ho smesso di fumare nel 1994, dicevo proprio la settimana scorsa all’urologo che mi dato la gioia di un altro anno di prostata sana. Stavo percorrendo le vie del centro insieme a migliaia di persone che come me partecipavano a un corteo contro il primissimo governo Berlusconi. Ho spento una Winston appena accesa – fumavo dalla terza media o poco più – e ho gettato il pacchetto morbido ancora a metà nella spazzatura. Essere categorici a volte è una delle sensazioni più arricchenti.

guardare non costa niente

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Quelli che hanno relazioni complicate con la tecnologia sono i più svantaggiati, perché costa tutto tanto e ogni volta che devi comprare un nuovo dispositivo perché si è rotto, lo hai perso, ti è caduto in mare o l’hai inavvertitamente messo in lavatrice ci pensi bene. Poi magari lo acquisti, ma di certo preferiresti essere meno sfortunato con questo genere di cose. D’altronde meglio così che aver relazioni complicate con le persone perché subentrano tutta un’altra serie di problemi. Ma con la tecnologia, che è protagonista della nostre giornate da quando al mattino premiamo il tasto snooze della sveglia fino a quando arrestiamo il sistema dell’e-reader prima di riporlo sul comodino e riaddomentarci alla sera, forse abbiamo molto più a che fare. E, anche se a suon di centinaia se non migliaia di euro, talvolta è più semplice voltare pagina che con le persone o dover ogni volta rifugiarci in luoghi dove non ci conosce nessuno per ricominciare da zero, come se l’operare nell’anonimato e lontani dal proprio passato agevolasse la nostra perenne ricerca di successo e ricchezza.

Nella categoria di riferimento – oggetti che a ogni stagione c’è qualche pubblicità che ti avverte che stai utilizzando dispositivi già obsoleti anche se per te sono nuovissimi – rientrano pure lavastoviglie e piani cottura e frigoriferi, perché quando li scegli in teoria non dovresti badare a spese e acquistare il meglio come, per chi poteva permetterselo, si faceva un tempo. Capita che qualcuno ti consigli quella tale marca perché sua mamma l’ha acquistata venticinque anni prima e possiede quel modello ancora oggi, perfettamente funzionante, ma c’è anche chi è pronto ad assicurarti che la sua relazione complicata con la tecnologia implica un potere superiore anche a questa strategia di consumo, portandoti come esempio frigoriferi di fascia top che quando c’è da sbrinare il freezer bisogna usare la fiamma ossidrica o lettori di compact disc da centinaia di euro che certi supporti masterizzati in casa non se li filano per nulla. Oppure incidenti un po’ grossolani che non sono di responsabilità della casa produttrice come la barra di acciaio che cade sul display e rende l’interfaccia di lettura impraticabile o altre amenità domestiche.

Così le visite in quelle Disneyland dell’hi-tech che sono i megastore di elettronica diventano un’esperienza tentacolare quanto contraddittoria. Ogni cosa ti strappa un’opinione e quando vedi quello che cerchi da lontano il gioco è nell’indovinare il prezzo e figurarselo alla propria portata per poi, quasi sempre, rimanere i delusi. Così ci si sposta verso sinistra, dove sono collocati secondo il prezzo decrescente le sottomarche, i brand sconosciuti e quelli che uno associa alle cianfrusaglie, ma a quel punto è più facile decidere se una cosa può o meno rientrare nella propria visione di felicità. Si dice sì a tutto. Al tablet, alla Miele di classe A++, al lettore mp4 touch screen e alla macchina fotografica reflex con il grandangolo. E nel frattempo si è fatto tardi, c’è un appuntamento o un impegno da rispettare e così si esce di fretta e la felicità è oltre l’addetto alla sicurezza, che ti osserva mentre non squilla nessun allarme se non quello che hai dentro e che ti conferma che, in fondo, puoi convincerti di non aver bisogno di nulla.