quel pop new wave da serie C

Standard

C’è poi la serie C composta da un unico girone in cui militavano tutte quelle band e artisti che erano a metà tra la new wave e il pop, anzi più verso il pop che la new wave, comunque composta da teste di serie di tutto rispetto che erano gli OMD, i Propaganda, gli Human League, i Talk Talk, i Visage, i Tears for Fears, i Blancmange, Lloyd Cole, i Big Country, i The Cult e tutta quella roba lì che passava a Deejay Television. Per la cronaca, mentre la serie A potete immaginare da chi fosse frequentata, in serie B militavano quelli subito sotto ai grandi campioni, roba comunque di tutto rispetto del calibro di Echo and the Bunnymen, Chamaleons, Soft Cell e Comsat Angels. In serie C invece rientrano quelli che, alla peggio, ti alzavi dai divanetti e li ballavi perché comunque sempre meglio dei Modern Talking o di Tracy Spencer e di tutta la merda italodisco che non ho mai capito perché tutti, poi, l’abbiano additata come un prodotto originale come quelle scarpe che oggi esportiamo in tutto il mondo e che rendono milioni di persone inscopabili a livello globale.

Erano comunque cantanti che tutto sommato nei video accennavano movenze un po’ dark e sulle riviste commerciali erano già considerati ampiamente alternativi e al terzo White Lady la soglia critica scendeva sempre, irrimediabilmente, quindi si riempiva la pista. Ma, come potete immaginare, per chi aveva il potere di giocarsi fuoriclasse di altri pianeti come Polyrock, Durutti Column, Tuxedomoon, The Sound, Clock DVA o Suicide o, comunque, sintonizzarsi su prodotti più facilmente e oggettivamente categorizzabili come Joy Division, The Cure e Bauhaus ma sempre di qualità eccelsa, ballare i ritmi ordinari di brani piuttosto commerciali costituiva una pratica da seguire in modo distratto, come un virtuoso abituato a Rachmaninov approccia una sonatina in do maggiore di Muzio Clementi. Sigaretta in mano e consumazione dall’altra, la passione per le atmosfere cupe doveva esser giustamente impiegata proporzionalmente al livello di impatto emotivo del sonoro sullo stato d’animo.

Poi sapete come è andata a finire, il tempo dilata qualsiasi ricordo e oggi certi ascolti se li filano in pochi mentre le mezze calzette delle riviste patinate sono finite nel calderone della memoria collettiva a simboleggiare un periodo e una scala di valori di giudizio che, se avete vissuto quegli anni perché ci siete cresciuti, come me, allora erano assolutamente rigidi. In serie C c’erano per esempio anche gli Eurythmics, che a me al terzo pezzo già mi annoiavano pur essendo sempre tra le prime tracce delle compilation ufficiali per nostalgici (che poi trovo che farsi preparare compilation da altri al di fuori di me un abominio). Un po’ troppo pretenziosi, nevvero? Piuttosto ben vengano gli Heaven 17, eleganti, con quelle belle pettinature e direttamente da Sheffield che, ricordiamolo, doveva essere un bel concentrato di british sound tra la fine dei 70 e i primi 80. Oltre al celeberrimo “Let me go”, che nelle versioni extended play riuscivi ad ascoltarlo anche per venti minuti senza dare di matto, a me piaceva molto questo pezzo qui. Anche per la vocalist, se ve la devo dire tutta.