Apro al cospetto di Max il plico che ho appena raccolto dalla cassetta delle lettere, e anche se il commento giusto al contenuto potrebbe riguardare l’esagerazione che è tipica del modo di fare marketing per gli americani Max mi delude con una battuta sul fatto che non c’è stato alcun segnale premonitore sull’opportunità di trasferirsi all’estero. Nemmeno se la vita fosse un susseguirsi di sveglie impostate da un’entità superiore che ti avvisano che è il momento giusto di fare o non fare quella cosa, perché se fosse così ricorderei a Max che è meglio che si metta a studiare seriamente armonia se vuole fare il jazzista di mestiere. Max non azzecca neppure certi intervalli di sesta che riconoscono anche i bambini al primo anno di solfeggio, quando gli chiedi di accompagnare con il basso un pezzo reggae tira indietro che ti viene voglia di sfondargli l’ampli, va fuori sui ritmi dispari e, come se non bastasse, a gusti proprio non ci siamo. Resta indietro di un ciclo da sempre, si aspetta estetiche musicali di almeno un lustro prima quando ormai quel tempo è finito, fuori moda, già dimenticato, quindi occhio a chiedergli di curare gli arrangiamenti per voi. Io, almeno, non lo farei. Comunque il materiale informativo della Berklee che ci troviamo davanti è davvero sorprendente. Qualcuno tempo fa aveva recuperato l’indirizzo del più famoso college musicale del mondo da una delle varie riviste per musicisti jazz ossessionati dal jazz che ci scambiamo, quelle con i cd di terza o quarta scelta che allegano appunto per attirare maggiormente l’attenzione dei musicisti jazz ossessionati dal jazz. Nessuno si era ancora preoccupato di inventare la posta elettronica, quindi quello con l’inglese scritto più fluente – modestamente questo sono io – aveva richiesto informazioni su corsi, iscrizione e soprattutto tariffe. Tempo nemmeno dieci giorni e ricevo il pacchetto che ora ho davanti pieno di brochure patinate, un volume sulla storia della scuola con le foto di tutti i jazzisti più celebri che si sono diplomati lì e un ricco catalogo su Boston e sulle strutture ricettive per chi non vuole o non può soggiornare nel campus. Max, che dei due è quello che bada più agli aspetti materiali delle cose, d’altronde fa il consulente finanziario, si precipita sui moduli di registrazione e sulle indicazioni delle rette, me li mette sotto il naso ed è qui che anche senza dircelo capiamo che alla Berklee non ci andrà mai nessuno di noi. Tengo in mano ancora per un po’ il libretto principale, in cartone deluxe rilegato a spirale e con la foto di un trombettista che non vi sto a dire in copertina, con le guance che sembrano esplodere tanto sono gonfie, pronte a spararci nelle orecchie un nota acuta di disprezzo. Faccio notare a Max che tra noi e la celebrità in copertina la distanza è siderale, ma capisco troppo tardi che l’espressione è infelice perché è facile intuire chi, in quella metafora, è la stella e chi è terra terra.
suonare
ci vorrebbero più strumenti musicali tascabili
StandardPresso la scuola di musica del paese in cui vivo, quest’anno è stato istituito un corso di chitarra da scampagnata. Ora non ricordo la corretta dicitura ma il senso è quello: insegnare l’uso sociale dello strumento a sei corde, divulgare la sua funzione di collante delle attività di gruppo e ripristinare l’antico valore della “chitarra sulla spiaggia” nella cultura del tempo libero. La chitarra acustica, nella musica, riveste lo stesso ruolo del pane durante i pasti, un appagante e completo supporto armonico alle melodie. Ma il suo uso universalmente noto come “di accompagnamento” necessita di un’educazione musicale a sé. Basta riff, basta soli e arpeggi: se volete compiacere i due amici e guadagnarvi il diritto a fare un paio di tiri dallo spinello come si cantava ai tempi dei collettivi studenteschi, la chitarra dovete saperla suonare come si deve, con pochi personalismi e al servizio della comunità con pennate e barrè. E c’è ancora oggi chi ha voglia di imparare così e diventare un chitarrista senza troppe pretese, per questo l’idea della scuola di musica che vi ho riportato prima mi sembra tanto onesta quanto funzionale.
Ci sono infatti due aspetti da tenere in considerazione, che tengo a sottolineare in quanto tastierista/pianista e, come tale, sempre afflitto da una sorta di “invidia del manico” nei confronti dei miei nemici-amici chitarristi. Intanto la completezza armonica del timbro data da una giusta misura di note suonate simultaneamente lungo la scala (gravi, medie e acute), un risultato che non sono mai riuscito a ottenere in modo equivalente con il pianoforte vista la maggiore possibilità di rivolti (almeno credo) e la difficoltà di supportare una linea melodica con la base di accordi migliore. Suonare a due mani è una scocciatura, soprattutto se sei una mezza calzetta come il sottoscritto.
Oltre a questo, è la portabilità dello strumento che fa la differenza. Non a caso l’adesivo dell’hippy di spalle che campeggiava sulle automobili da fricchettoni di una volta aveva una chitarra sulla spalla, e non un piano verticale. Si tratta di un altro elemento di frustrazione. Vorrei vedere voi fermi in coda in autostrada per un incidente, quei blocchi in cui si sta lì per ore, e tutti i vostri compagni di viaggio che tirano fuori tromba, sax, contrabbasso, rullante e chitarra semi-acustica dal furgone e improvvisano un concertino nella corsia d’emergenza e voi nulla perché non ci sono prese di corrente e amplificatori.
Ma ci sono anche altri momenti che un tastierista vive con imbarazzo, quando per esempio c’è un pianoforte a disposizione e amici o parenti o colleghi ti chiedono di suonare qualcosa. Se sei un pianista classico o un jazzista, capace di suonare temi e di accompagnarli allo stesso tempo, il gioco è fatto. Gli spari senza indugi un notturno di Chopin o The Koln Concert e il successo è assicurato anche se qui, attenzione, il rischio di passare per un Richard Claydermann o, peggio, per un Giovanni Allevi è dietro l’angolo. Ma se non siete così esperti o siete più avvezzi ai synth, come me che ero scarso e pure abituato a suonare con una mano mentre l’altra smanettava su manopoloni e potenziometri, mettere a disposizione un brano di senso compiuto, con un capo, una coda e una serie di note in mezzo comprensibili, mica è facile. Non c’è una scuola intermedia e di conseguenza un modo ufficiale per diventare un pianista equivalente al chitarrista da scampagnata.
Ma a volte basta trovare una propria nicchia. Io per esempio avevo tutto un repertorio di stupidaggini musicali, che andavano dalla sigla de “Il pranzo è servito” a “Profondo rosso” e potevo contare su una discreta capacità di riprodurre al volo canzoni anche senza averle mai studiate con attenzione, attività che rientra nella categoria dell’improvvisazione. Questo mi ha regalato momenti irripetibili, come un’esibizione a una cena di Natale a casa di una fidanzata, molto tempo fa, con parenti, nonni e animali annessi, un convivio a cui ho aggiunto valore con il mio accompagnamento usando una di quelle tastiere da dilettanti a tutto un rito famigliare, e mi spiace averne dimenticato i dettagli. Mi pare che ci fosse un membro designato alla consegna dei regali ad ogni componente della famiglia e che, ogni volta, dovesse accompagnare l’attribuzione del dono con storie, battute, aneddoti famigliari. Sono stato così assoldato nel musicare improvvisando quelle scenette, fino a quando la nonna si era messa a piangere dalla commozione, anche se non riesco proprio a ricordare quale brano avessi scelto per sonorizzare il suo momento. Inutile sottolineare che quello, che era il primo Natale trascorso con quella ragazza, è stato anche l’ultimo, l’unico insomma, ma sono pronto a scommettere che quella cena, con tanto di esibizione di pianobar tutta per loro, se la ricordano ancora.
un amore di gruppo
StandardHo deciso che se rinasco e mi viene data l’opportunità di rifare tutto da capo, cosa di per sè molto probabile, non cambio la mia vita nemmeno di una virgola se non alla voce “hobby e interessi”. Già. Penso che anziché imparare a suonare uno strumento musicale, nel mio caso pianoforte, tastiere, sintetizzatori analogici e ogni diavoleria sonora immessa sul mercato con l’avvento del digitale, connettibile al pc tramite interfaccia midi, prima, e usb, in tempi più recenti, mi dedicherò a un passatempo meno costoso, che so, la Formula Uno, e meno carico di aspettative, che so, fare il blogger. Anzi, ho intenzione di scrivere una lettera a mia figlia, nella quale spiegare che è meglio dedicarsi allo sport, alla lettura, ad amicizie normali e ad attività più salubri, rispetto a contornarsi di idioti perditempo (non solo batteristi) con i quali passare serate in scantinati e garage dall’inconfondibile fraganza di muffa, rincorrere personaggi dubbi quali organizzatori di concerti, impresari e discografici con cui si è disposti a scendere a ogni compromesso, e sognare una vita facile fatta di tour intorno al mondo e grupies consenzienti. Caro sangue nel mio sangue, ecco una lista alla Saviano di tutto quello che, se mi dai retta, nella buona e nella cattiva sorte potresti risparmiarti. Fai tesoro di quello che ha passato papà, e continua con scoutismo, yoga, pallavolo e nuoto, che ce n’è già abbastanza.
In ordine sparso: gestori di locali che non vogliono pagarti a fine serata; chilometri macinati in furgone, stipati come sardine tra corpi sudati, piedi puzzolenti e ampli polverosi (nel peggiore dei casi aste dei piatti che crollano addosso ad ogni frenata); numero di spettatori inferiore a quello di persone sul palco; tecnici del suono metallari residenti, non avvezzi all’amplificazione dei synth analogici; pomodori che lanciati dal pubblico fanno centro sulla tua maglia, nella piazza principale della tua città; cantanti che non si ricordano i testi; batteristi che non si ricordano la struttura dei pezzi, con i quali devi instaurare un sistema di messaggistica anticipata fatta di sguardi e curvature dell’arcata sopraccigliare.
Un bicchiere di vino bianco fresco e quattro chiacchiere piacevoli con Mara Redeghieri, a tavola il giorno dopo un concerto; chitarristi che si alzano di un paio di tacche rispetto al sound check; batteristi ostinati che considerano l’uso del metronomo un affronto ai loro studi jazzistici e prendono i pezzi ad un bpm totalmente aleatorio; fidanzate che passano dal cantante al tastierista e poi di nuovo al cantante, causando lo scioglimento del gruppo; gelati mangiati in autogrill prima di arrivare alla cassa.
Quelle sagome dei Tiro Mancino; pastori tedeschi della finanza che non ne vogliono sapere di uscire dal furgone fermo al posto di blocco, mentre fuori fa freddo e sono le 4 del mattino e vorresti tornare a casa, ma l’odore nell’abitacolo è inequivocabile; i materassi, riciclati chissà da chi, sui quali devi stenderti, se la paga è il rimborso minimo ovvero essere ospitati in un centro sociale; i bagni del centro sociale; il centro sociale; Carmen Consoli che prova i pezzi nel camerino con la chitarra acustica; i fattoni che ballano sotto il palco canzoni che sentono solo loro; il pubblico francese, misto, multietnico e di tutte le età, che sta ad ascoltarti malgrado il tuo sound tenda al punk noise industriale perché comunque è la festa della musica, ed è una festa; le serate di cover per tirare su qualche lira, oggi euro nelle tribute band; i turnisti che suonano senza cuore; i turnisti che suonano però meglio di tutti e che non riesci a convincere a sposare la causa; Luca De Gennaro e Paolo Conforti che ti fanno passare la voglia di frequentare l’ambiente dei gruppi underground.
I chitarristi punk morti di overdose; i chitarristi punk che prendono il metadone; quelli che suonano in canottiera; quelli che si presentano al concerto nel locale figo vestiti da ufficio; i genitori del più giovane della band che hanno la tua età; le sbronze prima del concerto; le sbronze durante il concerto; le vomitate dopo il concerto; le congestioni prese a fumare fuori dal locale in pieno inverno; Cecchetto che cazzia brutalmente regista e presentatore della trasmissione radio alla quale devi rilasciare l’intervista per un buio di una manciata di secondi; cannare in pieno la parte di piano di Because the night; cannare in pieno l’inizio di piano di Virtual insanity; convincere gli altri che suonare i synth non significa essere un pianista; la SIAE che ti fa la multa; l’inaugurazione del locale dove vanno le modelle; Giuliano Palma e Aliosha con le modelle che hai visto la settimana prima all’inaugurazione del locale; i batteristi che votano Bossi; mantenere una fedeltà alla linea; i parametri per essere considerato new wave.
Suoniamo prima dei Portishead, che poi significa suoniamo prima di un dj che ha aperto i concerti per i Portishead; Madaski che ti fa usare il suo mixer per le tue tastiere; la dinamica di diffusione di una rissa nel locale, che assomiglia alla meiosi cellulare; la pioggia che ti fa saltare il concerto e la paga della serata; Piero Pelù che viene nei camerini della Flog a complimentarsi con il tuo cantante; il liscio per mettere insieme uno stipendio; il furgone sepolto dalla neve, che ti costringe a tornare a casa in treno la mattina di capodanno; l’affidabilità, questa sconosciuta; fare 300 chilometri per essere intervistato telefonicamente da un giornalista che abita a 5 minuti da casa tua.
L’umidità che fa impazzire i circuiti elettronici vintage; i problemi alla schiena dopo decenni di strumenti trasportati ripieni di circuiti elettronici vintage; chi paga la sala prove in ritardo; chi dorme con la tipa in sala prove; le prove di mattina; le interminabili sessioni di registrazione; le interminabili sessioni di missaggio; Roy Paci che dà una dritta al tuo trombettista; ringraziare mamma e papà sul booklet; i cantanti maledetti; i cantanti che poi si mettono a fare i solisti; i cantanti che se ne vanno; i cantanti.
Dulcis in fundo, una reminiscenza perfetta per la chiusura di un post, un amarcord per il quale una battuta di una riga non basta, un rilancio da usare con gli amici durante le discussioni alla io ce l’ho più lungo. Un episodio che si trova meritatamente nella top ten dei momenti storici della mia vita. Magari anche nella vostra, in questo caso potrete capirmi se sapete di cosa parlo. E ve la tirereste anche voi. Siete pronti per il (o la) climax?
Il primo maggio del 1996 ho aperto il concerto omonimo, in piazza San Giovanni, a Roma, davanti a una folla di 400mila persone. Persone sicuramente distratte, a cui eravamo sconosciuti, accaldate e bruciate dal sole. Ma pur sempre 400mila. E c’era Sting, quell’anno, che ha accennato Message in a bottle al sound check, illudendomi, e poi ha suonato le sue solite melense canzoni pop da solista, se ami qualcuno lascialo libero e similia, con il suo gruppo di virtuosi. Sting, che nei camerini, fottendosene di chi avrebbe voluto avvicinarlo e del volume della musica che arrivava dal palco, se ne stava sdraiato su una chaise longue a leggere un libro all’ombra delle sue guardie del corpo. E poi è arrivato il nostro momento, il palco tondo che ruota e ci sbatte in faccia quell’oceano di mani che salgono. Pochi minuti, il palco ruota ancora, questa volta verso le quinte, e già devi scendere. Tornare a casa. E finisce così. E pensi che sarà per la prossima vita.