Su VH1 che a quanto vedo da mia figlia dev’essere la Videomusic o, per non esagerare, la MTV dei millennials, ma come l’abbiamo conosciuta noi e non quella merda che trasmette sedici anni e incinta, è appena passato l’ultimo video di uno speciale sui Subsonica che è bene che sappiate che sono il mio punto debole, il mio tallone d’Achille, il mio Fabio Volo, il mio M5S, il mio Muccino. Mio padre a trentatré anni aveva già due figli, io a trentatré anni non mi perdevo una tappa del tour di Microchip Emozionale. Ho visto dozzine e dozzine di concerti, ma vi giuro che quanto mi sono divertito ai loro non riesco a spiegarlo. Ogni passione musicale ha il suo momento e la sua dimensione. Ebbene, i Subsonica vissuti in quella fase della mia vita sono stati una colonna sonora perfetta, che vi devo dire. E sia chiaro che non me ne vergogno nemmeno un po’.
Così mentre finiva l’ultimo video dello speciale su VH1 ho pensato al fatto che oggi i Subsonica sono un po’ obsoleti per l’approccio da band novecentesca che hanno alla musica e per la musica in sé che fanno, visto che certa d’n’b è finita da un pezzo. Non a caso ci stanno dando dentro separatamente con progetti più o meno individuali: Samuel lo avete visto tutti a Sanremo ma è già un po’ che è in giro con dei brani da solista, canzoncine peraltro niente male. Anche Boosta ha pubblicato un disco pieno di ospiti e, per di più, siede tra i giudici di Amici di Maria De Filippi e insomma, non mi stupirei tra qualche anno vederlo sull’Isola dei Famosi o un omologo programma per rilanciare starlette desuete. Anche il Ninja e Max Casacci sono fuori con un loro progetto, un disco elettronico particolarmente complesso. Vicio, il bassista, non pervenuto, almeno non mi risulta.
La cosa che però traspare da tutta questa verve indipendentista, e lo si capisce tra le righe del titolo di questo post, è che ne devono ancora fare di strada i subsonici per guadagnarsi una dignità di artisti indipendentisti. Se un marziano capitasse sulla terra nel 2017 e per la prima volta ascoltasse quei dischi senza sapere nulla, questo indipendentemente dall’assistere o meno a una puntata di Amici con Boosta che fa il giudice, non capirebbe mai che quei cinque fanno parte di una band affiatata da più di vent’anni. A me i Subsonica piacevano e piacciono perché sono un bell’insieme, si completano con i loro limiti e funzionano così, come funzionavano quando io di anni ne avevo trentatré e saltavo ancora sulla loro d’n’b. Ma lo so come funzionano le cose, oramai sono abbastanza disilluso: tutto cambia, le cose si evolvono, star sempre a piangere su come era prima non porta a nulla e che ci volete fare, probabilmente è giusto così e da qualche parte è un primo maggio a Roma e ci sono loro sul palco che suonano “Liberi tutti” con la strumentazione d’epoca.
Io lo so che avete i vostri gusti ma che, nonostante ciò, non sempre avete voglia di esporvi con questo mi piace e questo invece no perché succede che uno non sempre se la sente di prendere una posizione scomoda su qualcuno o qualcosa. Non mi riferisco alle grandi questioni o a fatti di attualità come lo scempio che uno come Matteo Renzi sta facendo del Partito Democratico, mi limito ad argomenti più alla mia portata. Ed ecco che nel mio piccolo mi trovo in difficoltà ogni volta in cui esce un nuovo album dei Subsonica perché entrano in collisione il mio disprezzo generalizzato per la musica italiana e una parte della colonna sonora della mia vita recente, a cui si aggiunge il fatto che di riffa o di raffa stiamo parlando dell’unico gruppo di successo – nel senso di emerso dal sottosuolo – che comunque ha portato un bel po’ di rinnovamento nella musica pop nazionale, a partire da un uso generoso e intelligente dei sintetizzatori grazie alla presenza del più talentuoso tastierista nostrano vivente (ciao Busta) fino all’aver reso familiari a un pubblico quadrato e abitudinario come il nostro certi tempi dispari (ne parlavo giusto ieri e perdonatemi l’autocit.).
Perdonatemi anche per il fatto che ogni volta in cui i Subsonica pubblicano un nuovo disco e ovunque è un rifiorire di recensioni siete costretti ad assistere a un rincaro della mia mancanza di stima nei confronti dei recensori professionisti o no che si lasciano travolgere dal facile criterio di misurazione del nuovo disco dalla distanza più o meno effettiva da “Microchip emozionale”. Anche se non stiamo certo parlando degli Area o dei CCCP, anche i Subsonica hanno la loro dignità e considerarli come una band costretta ogni volta a rifare sé stessa perché con un disco ha stabilito una sorta di record di stile personale è francamente riduttivo. Questo infatti non vuol dire che quell’album lì non sia il loro meglio riuscito, ma che dischi così capitano una volta nella storia della musica (che poi io, a dirla tutta, preferisco di gran lunga il primo omonimo e anche Amorematico) e che dal 99 ad oggi comunque i Subsonica hanno prodotto sicuramente alcuni pezzi imbarazzanti ma anche qualche brano riuscito e in uno stile molto diverso dal loro specifico. Anzi, nei casi in cui cercano di ritrovare sé stessi con quel ritmo alla “Aurora sogna”, per dire, ed è il caso di “Lazzaro” presente nel nuovo album che è, consentitemi, davvero un pezzo che fa cagare fortissimamente, in quei casi lì i Subsonica danno il peggio del loro potenziale, e tutto per soddisfare una fascia di ascoltatori in piena estasi evocativa che cercano echi di andamenti drum’n’bass ogni volta che il quintetto torinese manifesta la volontà di uscire con un nuovo album.
Io prendo invece le distanze dai recensori dei Subsonica, nonché da chi scrive recensioni musicali tout court a meno che non lo faccia su mezzi di comunicazione auto-compiacenti come questo blog, e sostengo che i migliori Subsonica vanno identificati nei brani più sperimentali rispetto al loro stile personale di cui è disseminata la loro carriera. Quindi se mi volete chiedere un giudizio su “Una nave in una foresta”, il disco dei Subsonica da poco uscito, ecco, io vi rispondo che boh ma che di sicuro contiene probabilmente il pezzo più interessante che abbiano mai composto in tutta la loro vita e che è quello che dà il titolo al nuovo album.
I Subsonica hanno pubblicato una nuova edizione del loro ultimo lavoro, Eden, in cui hanno incluso anche la loro rivisitazione di “Up patriots to arms”, un pezzo che non ha bisogno di presentazione alcuna e che fa parte di una delle migliori produzioni musicali italiane del secolo scorso che è l’album Patriots di Franco Battiato. La band torinese ne propone la cover da un po’ di tempo, recentemente era compresa in un medley con “L’ultima risposta” ed oggi, finalmente, è stata registrata in studio con tutti i crismi, voce di Battiato compresa. Chiaro che stiamo parlando di una di quelle canzoni così intense e belle che è quasi impossibile eseguirla male, puoi anche rivoltarla come un calzino ma conserva comunque il suo fascino. Quindi grazie a Rael che mi ha dato l’ispirazione, e qui sotto trovate riunite l’originale, la prima cover che io ricordi che risale addirittura ai Disciplinatha, una versione rockettara dei Negrita e la più recente di Samuel e soci (in qualità meno che disdicevole, ma è quanto passa per ora il convento).
Capisco che l’esterofilia fine a se stessa sia scostante, e non vorrei certo sembrarvi antipatico. Anzi. E vi assicuro che mi impegno a seguire il panorama locale in ambito musicale, editoriale e cinematografico. E probabilmente lo farò ancora, anche solo per un briciolo di campanilismo. Ma, diamine, mi cadono sempre più le braccia.
Per farvi un esempio, anzi tre ma partiamo dal primo, fino a qualche anno fa seguivo con acceso interesse la musica italiana, le nuove band e il trend del momento, affidandomi soprattutto ai principali siti specializzati, come quelli che organizzano i festival dei baci e degli abbracci. Il motivo? Da una parte era il retaggio che mi portavo dietro da sempre, avendo occupato gran parte della mia vita (almeno 30 anni) a suonare in gruppi più o meno underground. Se volete saperne di più, questo blog è pieno di riferimenti alla mia vita precedente, e vi consiglio di iniziare dalla fine di quella esperienza. Seguivo i forum, partecipavo alle discussioni. Ma anche prima di Internet, ho letto e mi sono costantemente tenuto aggiornato, in un percorso che parte dagli Area passando per Diaframma, Litfiba e CCCP, poi svolta con Almamegretta e Casino Royale, sempre dritto per arrivare a Scisma e Subsonica. Ho parcheggiato di fronte agli Offlaga Disco Pax e sono sceso dal mezzo, autoradio alla mano, perché era subentrato nel frattempo il nulla più assoluto.
Più difficile argomentare la mia esterofilia in ambito letterario, sono meno competente (o più cialtrone, dipende dai punti di vista), il campo è oltremodo più vasto, più difficile da conoscere approfonditamente e da valutare. Diciamo che, esaurita la bibliografia del ‘900 italiano, ho perso l’orientamento passando da Pavese, per fare un esempio, a un qualsiasi autore emergente. Le poche volte in cui ho dato un’opportunità a uno scrittore locale (passatemi l’aggettivo), mentre mi si ripresentava a menadito il metro quadrato storico, politico e geografico in cui erano state ambientate le vicende descritte nell’opera di turno, già rimpiangevo la sicurezza dei parametri che utilizzo in fase di scouting di nuovi autori per il mio tempo libero. Ovvero: nati possibilmente tra l’Oceano Atlantico e il Pacifico (procedendo verso ovest), a nord del Messico e a sud del Canada (con l’eccezione di Coupland e degli autori nati in Alaska), tra il 1900 e il 2011. Un sottoinsieme già di per sé infinito.
Il terzo e ultimo elemento di riflessione riguarda il cinema. Qui converrete con me della difficoltà (mi veniva da scrivere dell’inesistenza, poi ho pensato che sarei risultato antipatico agli estimatori di Moretti, Martone, Costanzo, Sorrentino e Virzì, quei pochi di cui ho seguito l’attività) di mettere insieme un elenco sufficientemente corposo di prodotti di oggettivo valore, se comparati a omologhi lavori indipendenti o no realizzati all’estero. E anche in questo caso non so quanto sia determinante il fatto che altrove il cinema è un’industria mentre da noi è un hobby per figli di papà. Non so se il mio disagio di fronte ai film italiani dipenda dal gap qualitativo tra la recitazione degli attori (e dei loro accenti) e quella dei doppiatori di film stranieri, dalla piccolezza (si dice così) delle storie raccontate, un po’ come avviene per la letteratura, dalla scarsa attendibilità delle facce degli attori, dai registi.
Tutto questo per lanciare un appello: ridatemi speranza. Consigliatemi voi: libri, film e dischi italiani, di cui ne valga la pena.
Fondamentalmente, il motivo per cui non mi piace più come una volta andare ai concerti è il fatto di scoprire che altre ennemila persone hanno i miei stessi gusti e sono lì come me per il gruppo che credevo di nicchia ma che invece lo conoscono cani e porci che suona sul palco. Seguito a ruota da quelli che ballano fuori tempo, e se hai la sfortuna di essere uno come me che va maledettamente a ritmo e sente il groove da dio e ti capita davanti uno/a scoordinato/a che prende battere per levare, il rischio di collisione è assicurato. Non c’è niente di peggio che il contatto tra arti sudati e pelosi di sconosciuti.
Quindi, e credo di averlo già detto non ricordo in quale post, ho in dispetto le persone che passano il tempo a digitalizzare il concerto anziché goderselo come un momento indimenticabile che dopo un paio d’ore finirà, e sì avrai le tue foto sulla digitale o la clip con un audio impresentabile da postare immediatamente su Facebook tramite la tua app preferita, ma devi star lì a inquadrare, e poi è sfocato, e poi qualcuno ti dà uno spintone, e il pezzo è bello che finito e tu non l’hai goduto appieno. Poi ci sono quelli/e dal look impeccabile, tremendamente cool che avranno passato ore a scegliere la maglietta più appropriata. Per esempio, una t-shirt dei Joy Division a un concerto di Sizzla. Originale, no? Può essere anche un’idea verticalizzarsi completamente, vestendocisi a tema secondo il concerto. Per esempio in giacca e cravatta agli Interpol. Ci sono i gruppi di amici che si vestono tutti uguali. Che teneri. Quasi sempre si tratta di band che si recano insieme al concerto dei loro principali ispiratori, non saprei altrimenti spiegare una tale abnegazione.
Come non fare un cenno quindi ai gruppi supporter, scelti spesso alla c***o di cane, ma peggio di loro sono quelli che vanno al concerto solo per i gruppi supporter scelti alla c***o di cane, e che quindi sono ancora più di nicchia di me. Che smacco. Mi rovinano la serata; il giorno dopo, per mettermi al passo, come minimo dovrò scaricarmi l’intera discografia e studiare sodo. Non si finisce mai di imparare.
Non reggo quindi l’area vip, quello spazio vuoto tra transenne che resta deserto fino a pochi minuti prima del concerto. E tutti si chiedono chi sarà il vip o il fortunato possessore del biglietto omaggio che assisterà al concerto in quello splendido isolamento. Per esempio, l’altra sera c’era Omar Pedrini. E pensate che c’è chi lo riconosce ancora; sono contento, mi sta simpatico soprattutto ora che non sta più con elenuar casalegno (in una intervista lessi che il partito più a sinistra che ha votato è forza italia, sarà anche una bella ragazza ma non ce la farei mai).
Infine, per dirla alla Max Collini, sono sempre il più vecchio nel locale, per questo ho provato a farmi accompagnare da mia figlia all’ultimo concerto, quello di cui sopra, un paio di sere fa al Forum di Assago. Non vi dico di quale gruppo si tratta per non allontanare potenziali stimatori di questo blog che sono capitati qui grazie a keyword quali Tv on the Radio, National e altri gruppi realmente di nicchia, pensando di trovarsi a tu per tu con un vero cultore indie. Insomma, i trucchi di SEM e il SEO possono essere applicati anche così. Dicevo, 28 euro di biglietto, in tre 56 perché i bambini sotto gli 8 anni non pagano. Alle 19 mia moglie, mia figlia ed io eravamo già dentro, in posizione tattica: tribune in fondo, proprio di fronte al palco, prima fila davanti alle transenne, a ridosso dell’area vip. Potevamo anche utilizzare la bambina come scusa: “Hey amico togliti di mezzo, non vedi che la bambina non vede? Ma ce l’hai un cuore?”. Oppure “Ti sposti, vero, quando iniziano a suonare?”. E comunque la band in questione piace molto anche a lei.
Non vi dico la difficoltà di tenere una bambina per 2 ore in attesa a un concerto, peggio che un viaggio in macchina e le domande rivolte ogni 100 metri “Papà, siamo arrivati?”. Qui è lo stesso: “Papà quando iniziano?”. “Tra 50 minuti”. “Papà quando iniziano?”. “Tra 49 minuti”. E così via. Il conto alla rovescia finalmente si interrompe. Si spengono le luci, il pubblico è in delirio, scattano tutti in piedi. Per fortuna che siamo in posizione strategica. Parte il primo pezzo. Tutto inizia a vibrare, la mia cassa toracica e, suppongo, anche quella di mia figlia. I bassi hanno una frequenza inumana, l’acustica del Forum che ricordavo scadente ma non così inqualificabile rimescola i suoni in una bolla appiccicosa che si attacca su tutto. I vestiti, la pelle e soprattutto l’umore. Io e mia moglie convergiamo gli sguardi sulla bambina, che si preme le mani slle orecchie e sta piangendo, spaventata.
Il concerto è finito, a metà del primo pezzo. Usciamo dal Forum, fuori fa freddo, gli addetti alla sicurezza ci fanno passare e ci guardano severi. Non è un posto adatto per bambini. Probabilmente nemmeno per adulti genitori.
Avere un gruppo rock, in Italia, è quasi più complicato che organizzarsi in un partito politico. (Apro una parentesi: rock in senso lato, diciamo dai Negramaro – esclusi – in giù. Focalizziamoci più sul termine “gruppo” che sul genere. Chiudo la parentesi). Non mi credete? Ah no? La prima similitudine che mi viene in mente, a proposito, riguarda la fatica con cui si dilapidano energie nel trovare leader carismatici per riportare i cittadini alle urne, quando sarebbe molto più semplice e immediato (nonché intellettualmente onesto) proporre un programma, tot punti e obiettivi da raggiungere, e poi chi se ne importa di chi c’è in parlamento a seguirne il compimento. Invece no. Dobbiamo fare primarie, trovare quello che sa comunicare bene, quello che piace tanto alla casalinga di Voghera quanto al cassaintegrato di Pomigliano eccetera eccetera. Un ticket, come si dice, o un un team di attuazione sarebbe difficile da sintetizzare per essere portato efficacemente al pubblico elettorale italiano.
Nel rock non avviene la stessa cosa? Chi siede da almeno due decenni sugli scranni più alti dell’olimpo del rock nazionale, se non due uomini forti – mi riferisco a Vasco e Ligabue -, mentre ai gruppi rimangono solo le briciole? Che poi, detto tra noi, altro non sono che due tradizionalissimi cantautori, ora attempati, che hanno condito i loro brani con riff di chitarra elettrica. Voglio dire, non è che ci siamo così tanto evoluti dal songwriting specifico nostro, ammesso di considerare l’evoluzione un processo positivo. E quando parlo di gruppo rock non è che mi riferisco ai Pooh, per carità. Ora, non dico i Beatles, ma almeno un omologo di band come, che so, i REM, giusto i primi che mi vengono in mente. Niente. I gruppi rock, in Italia, si formano, magari iniziano ad avere successo e poi il cantante lascia la band per la più fruttuosa carriera solista, magari infilandoci – per arrotondare – l’attività di giudice nei reality musicali. Oppure, vedi che fai tutto tu, testi e musica e arrangiamenti, e allora che senso ha tenerti zavorre di strumentisti fissi quando, a chiamata, puoi risparmiare con i turnisti che più si addicono al momento, liberandoti così anche dai vincoli compositivi. Anche i duo si separano perché litigano, figuriamoci band di quattro o più elementi.
Non solo. I gruppi rock devono fare i conti anche il forte handicap linguistico. L’italiano sta al rock come il tedesco sta alle ninne-nanne. Ecco, forse da questo punto di vista solo i tedeschi stanno messi peggio di noi. Perché gli inglesi hanno quella bella lingua sintetica, verbi monosillabici e una marea di preposizioni per significati all’infinito, parole tronche contro i nostri mostri bisdruccioli. Questo costituisce un annoso problema per i gruppi di base, quelli underground. Cantare in inglese o in italiano? Usare la logica del “the cat is on the table” così nessuno riesce a capire che non ho nulla da comunicare, o azzardare la stesura di liriche quindi mettendo me stesso in gioco sotto due punti di vista, quello di musicista e quello di paroliere? Ragazzi, il rock è anche questo. E poi, c’è bisogno di cambiare accordo ogni battuta? E di pronunciare le consonanti per forza come Bowie? No, non ci siamo. Fare rock è davvero difficile, e farlo in gruppo, anche se divertente, alla lunga è frustrante.
Arrivo al punto (era ora!), il pippotto che avete letto fin qui non è fine a se stesso. C’è un ma. Che è un gruppo, italiano, di cinque elementi, in attività dal 1996 o giù di lì. Una band alla quale sono affezionato, li ho visti nascere, crescere, ho assistito a uno dei loro primi concerti (se non il primo in assoluto, almeno fuori dalla loro città di origine). Si sono formati dallo spin off di uno dei principali collettivi reggae italiani, oserei dire l’unico: il chitarrista, che è poi la mente della band in questione, decise di voltare pagina. Un istrionico cantante con cui suonavo, ai tempi, si stava facendo produrre alcuni brani dal chitarrista di cui sopra, affiancato in studio da un geniale tastierista malato di synth e di macchine automatiche. Oltreché di idee e creatività. L’istrionico cantante mi mise al corrente del nuovo progetto del chitarrista di cui sopra con il geniale tastierista, e già il nome mi incuriosì. Da allora, da quando ho iniziato a seguirli, hanno pubblicato 6 dischi e hanno fatto una marea di concerti: pur avendo un sound ricercato con un intensivo quanto appropriato uso dell’elettronica, il live resta la loro dimensione più immediata, grazie al frontman, simpatico-carino-intelligente-piùomenointonato, e all’impatto sul pubblico. Il pubblico è un altro elemento fondamentale della loro storia, e non solo perché comprano o scaricano la loro musica. Il rapporto coi fan, nato sotto il palco, è stato per tutti questi anni coltivato sul web, un diario di bordo curato con una costanza encomiabile, roba che nemmeno Beppe Grillo. Si tratta di uno spazio dove poi, alla fine e come su tutti i blog (tranne questo) si interviene a parlare di tutto. Non mancano le critiche, e se avete ascoltato l’ultimo loro CD, uscito qualche giorno fa, ai malumori di un pubblico abituato ad essere sempre servito e riverito hanno dedicato pure un brano. Il pubblico, dicevo. Mi ha sempre colpito la trasversalità degli ascoltatori che hanno, un obiettivo raggiunto grazie alla potenziale ubiquità delle loro canzoni, che possono passare a Sanremo come su Radio Popolare, a radio Italia come su radio Deejay. Un po’ rock, un po’ club culture, un pizzico di reggae, canzone d’autore, echi degli anni ’80, big beat, pop, insomma, un po’ di tutto. I ruoli stessi nella formazione, poi, sono uno spaccato di eterogeneità: c’è il figo, l’intellettuale, il leader, quello un po’ tamarro e il nerd. E i testi, pur non immediati come quelli di Vasco e Liga, sono accessibili e fluidi, diretti ma poetici, un mix di linguaggio di strada e citazioni colte.
Ma, lo sapete meglio di me, il mercato del rock, in Italia è quello che è, e le due presenze ingombranti a cui ho fatto riferimento lo occupano ormai da troppo. I numeri della band in questione, in termini di vendita di dischi e biglietti, non sono paragonabili a quelli di Vasco e Liga. Fino ad oggi sono stati ampiamente sottovalutati, considerati di nicchia (una nicchia da un sold-out e mezzo al Forum di Assago), osteggiati dai duri e puri perché commerciali e allo stesso tempo bollati come alternativi e scomodi dai giovani assuefatti dal morbo veltroniano, altre volte identificati nei gruppi demagorock da concertone del Primo Maggio, più comunemente ritenuti troppo difficili da associare ad una categoria di itunes da chi mastica il pop più melenso. In un paese di loquaci critici musicali e recensori iconoclasti secondo quantità e convenienza, i Subsonica avranno una vera e meritata fama solo intorno ai 55/60 anni. Ma non c’è da preoccuparsi: guardate Little Tony, è ancora il ragazzo col ciuffo di una volta.
p.s. non credete a chi sostiene che Eden non vale una cicca: è un gran bel disco, fidatevi.
“Rock’n’Roll è partecipazione” (G.Gaber).
La mia amica S. deve scrivere un pezzo su Sanremo, qualcosa che metta insieme, come è ovvio, musica, costume, gossip e così via. S. è la stessa fan di Morrissey che nel 1987 o giù di lì, ora controllo meglio (1), partì alla volta della cittadina rivierasca per intercettare il suo idolo, ospite straniero di quella edizione del Festival. E di episodi di quel genere me ne ricordo diversi. F. che sosteneva di aver soccorso David Gahan fattissimo o in preda a una sbornia colossale mentre vomitava per i caruggi di Sanremo (2), qualche anno prima. Ricordo anche M., un tizio buffissimo che era convinto di somigliare a John Taylor, che conciato in perfetto stile duraniano faceva incuriosire giornalisti e ragazzine isteriche sul lungomare durante i giorni del festival (3). Sui Duran Duran a Sanremo qualcuno scrisse pure un libro, faccio finta di non ricordare titolo e autrice per non essere accusato di dedicare la mia memoria solo ai ricordi più futili. Al diavolo il dovere di cronaca. Metto solo un link e la cosa finisce qui.
Ma torniamo a S. e al suo articolo. Le ho consigliato, in alternativa, di puntare più alla sostanza, se sostanza e Festival di Sanremo possono coesistere nella stessa frase, raccogliendo in una sorta di superclassifica (roba da supertelegattone) i prodotti più più originali che sono stati lanciati da quel palcoscenico. S., che dagli Smiths è passata nel corso del tempo a fenomeni sempre più estremi di musica alternativa, per darvi in pasto alcune perle di competenza vi butto lì gli Einsturzende Neubauten o roba alla Sigur Ros, mi guarda e storce la bocca. Ma sì, le ho detto, poi metti un lancio tipo “Sanremo 2011, ecco chi vincerà il Festival” (già, proprio come il mio), aggiungi un po’ di tag accattivanti (come quelle qui sotto), magari posti il link sulla pagina Facebook della tua testata, e il gioco è fatto. “Sì, ma non ho ancora capito a quali contenuti ti riferisci“. Già, S. è un animale da nicchie. Con calma, procediamo con ordine.
Pur lasciando perdere conduttori – a cui e di cui non si deve parlare – e coordinatrici di palco (per non usare il termine vallette), a memoria d’uomo (la mia, siete in una botte di ferro) ci sono decine di casi da riesumare. Mi riferisco a brani eliminati dopo la prima serata, ultimi posti, o anche brani e artisti di successo che è ingiusto snobbare solo perché presentati in quel calderone obsoleto e completamente avulso dalla realtà artistica e musicale italiana che è Sanremo. S. ha così scommesso che non ce l’avrei fatta a mettere insieme almeno 10 esempi, canzoni che lei potrà raccogliere nel suo articolo. “Tsk“, le ho detto. “Sei pronta? Accendi il registratore, andrò in ordine sparso“. Si va in scena. Visto il mio background (e la mia età), il periodo preso in rassegna va dal 1975, prima edizione di cui mi ricordi, al 2001, ultima edizione che ho seguito, più qualche eccezione vissuta di riflesso. “Considera però l’anno di uscita e il contesto, naturalmente“. L’innovazione è sempre relativa.
1. di Ruggeri – Muzio: Contessa. Cantano: i Decibel (1980)
Lo so. Ho iniziato con un brano classico e scontato. Ma non si era mai sentito un pezzo così e mai visto un look simile, in Italia. Da leggere, sul sito dei Decibel, la genesi del pezzo.
2. di Cocciante – Santandrea: La fenice. Canta: Santandrea (1984)
Una sorta di Giovanni Lindo Ferretti (chissà perché mi viene sempre da scrivere Giuliano Lindo Ferrara, mah.. sarò tratto d’inganno dalle iniziali?) in versione operetta, su base plasticosa italo-disco-wave anni ’80. Dimenticato presto, non da me, ricettacolo di pochezze. Ritornerà alla ribalta qualche anno dopo con il nome completo di battesimo (Rodolfo), autore e interprete della celebre “ho un’arancia nella pancia”.
3. di Abate: Cose Veloci. Canta: Garbo (1985)
Lo so (ancora). Su guggol digiti Garbo e Sanremo e ti viene fuori come risultato Radioclima, binomio certificato anche dai cultori e puristi. Una pietra miliare, certo, ma io preferisco questo brano dal piglio alla LLoyd Cole, più evoluto e maturo anche se meno wave e berlinese (nel senso del periodo di Bowie). Come per Radioclima, la critica gli ha riservato il fondo della classifica. Tsk.
4. di Fossati – Guglielminetti: Un’emozione da poco. Canta: Anna Oxa (1978)
“Anna Oxa conciata come una punk londinese”, dice un noto motivetto degli Offlaga Disco Pax. E chi non se la ricorda? Peccato l’involuzione e la discesa verso i meandri dello specifico sanremese, unico palco che l’ha vista davvero protagonista. Qui, era il 78, ci si aveva l’abitudine di bucarsi le guance con le spille da balia e di bucarsi le vene con altro. Il punk, quello estetico e modaiolo di Malcolm Mc Laren viene sdoganato anche nella più tradizionalista della tradizione canora italiana, in prima serata, sul Primo Canale. Ricordo di aver aspettato l’esibizione di Anna Oxa a Disco Ring la domenica successiva, e di essere stato premiato con lo stesso inizio di esibizione, spalle al pubblico. Questa sì che è trasgressione.
5. di Bissi – Battiato – Pio: Per elisa. Canta: Alice (1981)
Battiato in versione femminile. Fu amore a prima vista, soprattutto perché, studiando pianoforte, colsi la citazione colta. Non trovo il video di tratto da Sanremo, spero vi accontentiate di questo.
6. di Romano – Casacci – Di Leo: Tutti i miei sbagli. Cantano: i Subsonica (2000)
6 bis. di Castoldi – Urbani: L’assenzio. Cantano: i Bluvertigo (2001)
Il meglio dell’indie-rock anni ’90 sbarca al Festival, un’operazione di mercato riuscita che ha permesso a entrambe le band di proporsi a un pubblico diverso (e più ampio). L’innovazione non è tanto nelle due canzoni, piuttosto tendenti alla grande distribuzione rispetto agli standard dei momenti artistici migliori di entrambi i gruppi, quanto nell’accostamento con il resto della manifestazione. Samuel che balla come se fosse in un club, Morgan che indossa il basso con la dovuta calma. Momenti irripetibili, merito degli Amici e di altri Fattori (X) oggi più affini al gusto imperante tra i giovani.
7. di Marrale – Golzi, Vacanze romane. Cantano: i Matia Bazar (1983)
La svolta di uno dei gruppi più interessanti della canzone italiana culmina con questa esibizione. Un pezzo su cui si è già detto tutto e, tentando qualcosa, correrei il rischio di plagiare altri scritti. Lascio solo il link a una pagina dedicata a Mauro Sabbione, il tastierista che prese il posto di Piero Cassano e che contribuì in assoluto al periodo migliore della band. Questo, appunto. Mauro Sabbione (che peraltro sei mio amico su Facebook), se per caso leggi questo post, sappi che sei stato il mio principale tastierista ispiratore, insieme a Mick MacNeil e a Carlo Speranza.
8 di Gaetano: Gianna. Canta: Rino Gaetano (1978)
La popolarità di Rino Gaetano e di questo pezzo si è manifestata con un crescendo continuo, complici il periodo in cui venne composta, la perpetua attualità delle liriche di Gaetano, la sua riscoperta in pieno revival dei ’70, il karaoke, la nostalgia per la tv in bianco e nero (anche se le trasmissioni erano già a colori, ma solo per i più ricchi), la sua tragica scomparsa. La sua esibizione resta uno degli episodi migliori in assoluto nella storia del Festival.
9. di Avogadro, Borghetti, Fanigliulo, Pace: A me mi piace vivere alla grande. Canta: Franco Fanigliulo (1979)
Non vorrei passare per radical chic (di questi tempi, poi) ma questa è una chicca, a cui sono molto affezionato, nonché brano vincitore morale dell’edizione 1979. Tacciato anche di vilipendio alla religione, con un bell’errore voluto di grammatica nel titolo, il brano, apparentemente un tripudio di fricchettonaggine all’italiana dell’epoca, risulta essere una piacevole eccezione nel piattume con cui si riempiva il Festival in un periodo in cui la musica e la canzone erano davvero altrove (leggi nelle piazze. Forse il periodo, quello che ho appena scritto, era troppo lungo?). Come anomalo era Franco Fanigliulo, scomparso purtroppo prematuramente.
10. di Rossi: Vado al massimo. Canta: Vasco Rossi (1982)
Non mi è simpatico Vasco, per nulla. Ma vi assicuro che la sua esibizione, quella che avete appena visto, è stata una bella botta.
(1) Gli Smiths parteciparono come ospiti a Sanremo Rock, una manifestazione collaterale al festival, proprio nel 1987. Suonarono, in un ostentato playback, 4 brani tra cui Ask (gli altri 3 facilmente reperibili nei suggerimenti su youtube)
(2) I Depeche Mode furono ospiti nel 1986 con Stripped (e se non erro anche nel 1990 con Enjoy the silence, ma l’edizione a cui si riferisce l’autore è la prima)
(3) Era il 1985, non aggiungo altro. Qualcuno sa il perché.
(4) Se invece cercate qualche melodia più mainstream, il Post ha raccolto le 10 migliori canzoni di Roberto Vecchioni. Vado a sentirle.
Ho deciso che porterò mia figlia, ormai settenne, al concerto dei SubSonicA, il 13 aprile al Forum di Assago. Fatta eccezione per un live di Caparezza all’aperto nel 2007, e un frammento di una esibizione degli Offlaga Disco Pax al Carroponte di Sesto San Giovanni la scorsa estate (al terzo pezzo già si era dispersa in emulazioni di jocolerie varie. Ho dovuto anche inventarmi una risposta plausibile alla domanda “Papà, ma perché parla anziché cantare?”), questo sarà il suo primo concerto vero.
Vero perché, a furia di ascolti, conosce molti pezzi, si ricorda i testi a memoria – di certo più di papà e mamma – e si dimena su alcuni refrain fortemente (secondo la sua sensibilità) emotivi, come il solo di synth di Strade. Quindi per la prima volta non sarà una bimba coinvolta suo malgrado in un evento da grandi, ma una fan consenziente ad ascoltare, spero per intero, un live dei suoi/miei beniamini. Di certo non andremo sotto il palco. Non tanto per la sua età, quanto per quella dei genitori.
Con questo post inauguro una nuova categoria, lo “Spazio Pour Parler”, già usato in decine – centinaia direi – di conversazioni reali nel corso di momenti conviviali e tempi morti di pendolarismo, incentrate su argomenti inutili tendenti al dannoso. Esiste – e qualcuno lo può confermare – persino un jingle a introdurlo. Allora…
Spazio Pour Parler! – prima puntata
Il problema è che tutti fanno elenchi cavalcando l’onda di “Vieni via con me”, a me non ne è ancora venuto uno brillante, da blog, per intenderci. Mi limito quindi a giocare la mia carta-elenco con questa inutile lista di “lavori che farei”. In ordine sparso.
# il tastierista dei Subsonica
# il traduttore dei romanzi di Paul Auster
# il copywriter delle campagne di comunicazione del Partito Democratico, a livello nazionale
# il copywriter delle campagne di comunicazione di Nichi Vendola
# il responsabile comunicazione di una giunta di centro-sinistra di un Comune dalle profonde radici PCI
# il tastierista dei National (lasciando quindi i gemelli Dessner liberi di suonare i loro strumenti a corda)
# il traduttore dei romanzi di Percival Everett
# il maestro elementare in un comprensorio sperimentale alla fine degli anni ’70
# il traduttore dei romanzi di A. M. Homes
# il copywriter alla Armando Testa
# l’insegnante di Italiano, Latino, Storia e Geografia in un Liceo Scientifico
# il tastierista degli Interpol
# l’insegnante di materie letterarie in una scuola media
# il responsabile comunicazione del Partito Democratico, a livello locale
# lo scrittore di nicchia (tipo Percival Everett, che a conoscerlo, almeno su Anobii, siamo non più di cento in Italia)
# il sound designer
# il blogger di grido (tipo quelli che postano articoli su Il Post)