Sarebbe meraviglioso non avere tutte queste lacune in materie come storia dell’arte, perché poi vai a ritroso e ti ricordi di quando se ne approfittavano tutti di quella che era la cenerentola delle materie, bistrattata quasi peggio che educazione civica o musica, con insegnanti sempre i più bohemienne che non ci voleva nulla per strappargli una sufficienza risicata. Che ignoranti. Noi, dico. Io per primo. Metti una classe di adolescenti in una visita guidata a un museo e ti rendi conto di quanto sia tempo perso. E se già allora ascoltare in piedi la guida era solo lo scotto da pagare per qualche giorno di emancipazione e di concessioni, posso immaginare ora con gli auricolari piantati nelle orecchie e gli status da aggiornare con adeguata costanza. In entrambi i casi poi solo chi sente una profonda inclinazione per la pittura ha la costanza di ripartire da capo, con le incisioni rupestri fino a Cattelan o giù di lì. Tutti gli altri, me in testa, si sono arrabattati con gli approfondimenti fai da te. Qualche personale, le mostre più blasonate, il sentito dire o le lezioni gratuite in tv di gente del calibro di Daverio. Ma nulla di tutto questo ci mette nella condizione di distinguere chi, sostando dinanzi a un’opera di arte moderna o contemporanea, commenta a cazzo oppure no ma comunque sempre a voce alta, impattando sull’esperienza del visitatore che magari ci capirà anche poco ma preferisce viversi la metafisica altrui in santa pace. E se al cinema il silenzio è un dovere, non vero perché no al cospetto di quest’arte altrettanto visiva. Perché che importa se non ne so nulla, ma di fronte a un’oggettiva scomposizione della realtà, la sua soggettiva ricomposizione ci sta tutta. Rimettere insieme pezzi dell’interpretazione di una giornata qualunque in Piazza del Duomo e farne un’istantanea a proprio consumo. Giocare con gli -ismi degli altri ti fa sentire un disegnatore cad che sposta vertici con il mouse e mette in pericolo la stabilità di progetti la cui efficacia è data per scontato. Così è facile irrompere con interventi definitivi, tipo “questo l’ho già visto al Mart” o “questo alla Galleria d’Arte Moderna di Roma” o, il poker d’assi, “questo era al Guggenheim di New York in una mostra sul Novecento europeo”. Perché il resto, tutto appartenente a collezioni private, lascia sbigottiti. Voglio dire, c’è qualcuno che ha “La stazione di Milano” in salotto. Si sveglia di notte per fare pipì, passa nel soggiorno, accende la luce e può dare un’occhiata a “Penelope“. Ecco, sapere che c’è chi ha nel suo conto corrente il settordicimila per cento della ricchezza mondiale non mi altera quanto chi custodisce entro una proprietà privata cose che dovrebbero essere di patrimonio comune e visibili liberamente a tutti, in qualunque momento. Evitando così di costringere la gente come me a mettersi in casa le riproduzioni di Magritte e Chagall perché già dentro alle cornici acquistate all’Ikea. Mi piacerebbe usare il corretto termine per questa figura retorica, che non è il paradosso ma non mi ricordo, probabilmente oltre alla Storia dell’Arte mi mancano anche dei pezzi di Italiano. Nel mio piccolo ho appeso in salotto un dipinto di un pittore sconosciuto se non per essere stato un disegnatore di Diabolik che ho ereditato da mia zia, che è stata l’unica in famiglia ad avere un po’ di gusto in questo senso. Era lei che mi ha raccontato di un artista genovese che in estate soggiornava nella casa di campagna in cui era cresciuta, e che ha ritratto molti soggetti prendendo ispirazione da quell’ambiente bucolico e rurale. Le mucche nella stalla. I contadini nei campi sotto il sole, e lui all’ombra a dipingere con tela e tavolozza sotto il grande noce. L’arte e la vita di tutti i giorni, l’artista e gli individui normali. Quelli che pongono domande come quella in evidenza nel titolo di questo post (giuro che l’ho percepita con queste mie smisurate orecchie) abituati a sentire parlare di Carrà e di Morandi solo per le loro partecipazioni a Canzonissima, e che quindi è meglio che i quadri se ne stiano nelle ville con i dobermann, quelle di chi ha gli strumenti per goderseli.
Comunque, la mostra di Carrà alla Fondazione Ferrero di Alba è davvero imperdibile, anzi sbrigatevi perché chiude il 27 gennaio. E, soprattutto, è gratis.