dura lex

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Adoro questa donna. Alta tanto che la si vede anche da lontano, il suo volto che si erge di una spanna, un animale elegante che sovrasta la massa mentre si riversa nel grigio della stazione Cadorna, vomitata da un treno che porta con sé la bruma delle pianure urbanizzate della periferia nord, l’umido che si infiltra nelle giacche autunnali già superflue di impiegati, commesse, manovali, precari e studenti. Conosco poco di lei, frequentatrice quotidiana di vettori ferroviari, lettrice ma, a differenza mia, attenta e pronta nell’osservazione della realtà. È un avvocato, questo lo so, mi è capitato di ascoltare una sua conversazione al telefono. E sembra essere un professionista di quelli che vorresti avere al tuo fianco nel momento del bisogno, un errore giudiziario o un sopruso che grida vendetta.

Adoro il suo incedere con lo sguardo fiero, i passi noti su un territorio che conosce palmo a palmo, il branco intorno che si scansa per non entrare in contatto con la sua traiettoria. Porta uno zainetto per il pc sulla schiena, ed è solita agganciarsi con entrambi i pollici alle spalline. Anche oggi cammina così, come se stesse procedendo lungo un sentiero di montagna in solitudine senza le due ragazzine a pochi passi da lei che, mentre chiacchierano nel loro italiano stentato e discutibile malgrado l’età, alternano sentenze idiote a disgustosi sputi sulla banchina. Forse intendono emulare i loro eroi della domenica sportiva che, sui verdi prati fiorenti di sponsor raccolti per consentirne la trasmissione in diretta sui canali a pagamento, irrorano zolle erbose con fiotti di saliva a intermittenza. Ma qui non siamo in un campo di calcio, non vedete? Ci sono altre persone intorno allo spazio che immeritatamente occupate, decine e decine di vostri simili trascinati da analogo destino verso i tornelli di uscita a conquistare la via verso il quotidiano dovere.

Tanto che uno sputo finisce sulla scarpa di una signora che le sta superando, la cui pelle tradisce inequivocabili origini a sud del mondo. “Ehi, attente!” esclama la vittima, una reazione che non sfugge alla donna che adoro, la quale sembra già prevedere quello che succederà. “Ma sta’ zitta e tornatene in Africa”, risponde la colpevole del misfatto, secernendo una scia di ignorante arroganza. Ed ecco il Gesto, la prontezza che fa la superiorità, la prova del grado evolutivo che impedirà l’estinzione a siffatto genere umano. Con la stessa velocità con cui gli animali catturano la preda con la lingua, diretti all’insetto e rapidi e silenziosi nell’azione vincente, così la donna che adoro sembra fermare il tempo. Quindi sgancia la mano destra dalla spallina dello zaino e scioglie il proprio braccio, un arto lungo e flessuoso, in un movimento potente verso la base della nuca della ragazzina, colpendola pesantemente con il palmo della mano. Tutto questo in meno di un secondo, perché nell’istante immediatamente successivo la ragazzina sbanda in avanti perdendo il cappello e rovesciandosi sopra l’amica, entrambe vacillano ed emettono un gemito di sorpresa mista a dolore, e la donna avvocato ritira a sé il braccio, riponendo mano e pollice nello stesso punto da cui è scoccato il tiro e prosegue il suo passo con immutata eleganza.

Il tutto come se niente fosse, non so nemmeno in quanti ce ne siamo accorti. Le ragazzine maleducate si sono girate, “ehi che cazzo succede?”, la signora africana era troppo distante per essere sospettata del coppino, l’alta vendicatrice troppo regale e composta per essere colpevole di un gesto così basso. Le due tamarre si fermano incredule a raccogliere il cappello, la folla le sommerge incurante. Io ho un sussulto e corro dietro alla donna avvocato che adoro per chiederle un autografo.