C’è uno spot di Spotify free, uno di quelli che interrompono la riproduzione acriticamente tanto che, per esempio, ti ritrovi un assaggio dell’ennesimo hit di salsa dell’estate 2015 tra “The happiest days of our lives” e “Another brick in the wall”, che può essere riassunto nel concetto “lo so che ti danno fastidio i nostri annunci pubblicitari, ma d’altronde siamo una società che deve raggranellare introiti e per questo che ti rendiamo l’esperienza d’ascolto un po’ più complessa ricordandoti che, soprattutto se sei un esercizio commerciale, puoi evitare di far capire ai tuoi clienti che sei un barbone che già non paghi la SIAE e in più non cacci nemmeno quei pochi euro al mese per diffondere senza fastidi la musica che vuoi tu”.
E credo che questo spot sia stato creato apposta per quei negozianti che fanno i furbacchioni collegando un laptop all’impianto hi-fi della loro boutique per sfruttare l’apparente gratuità della musica in streaming senza passare alla versione Premium. La cosa paradossale è infatti ritrovarsi ad ascoltare lo spot di cui sopra proprio in uno di quei negozi di abbigliamento che fanno i fighi con le commesse fighe e quando c’è il pienone dei giorni di saldi, e i proprietari non si rendono conto del messaggio tra le righe che appunto è la messa alla berlina della loro italianità pronta a balzare in difesa dell’intelligenza votata a trovare la migliore soluzione al prezzo più conveniente, se poi è gratis ancora meglio. Il dramma è che né gli esercenti, né le addette alla vendita e tantomeno la clientela che si affanna tra le percentuali degli sconti bada a un aspetto così secondario come la colonna sonora del loro shopping in una modalità di erogazione così estranea a una qualunque regolamentazione dei diritti d’autore. Nessuno quindi si accorge che il negozio utilizza un servizio free che, in quel contesto, dovrebbe essere a pagamento proprio perché se malcapitatamente un giorno passasse uno che conosce la differenza tra le due versioni free e premium e poi decidesse di svelare sul suo organo di delazione preferito che il tal esercente è un barbone che non caccia i soldi per l’upgrade alla versione premium, ne deriverebbe un esemplare caso di figura di merda. Ah, non vi ho detto che la versione free la uso anch’io, se no come farei a sapere che tra “The happiest days of our lives” e “Another brick in the wall” può capitare di sentire un brandello dell tormentone salsa dell’estate 2015? Sentite qui che merda, e provate a immaginarla in mezzo a due brani dei Pink Floyd.