La butto lì, ma credo che il fastidio che proviamo nel trovarci faccia a faccia con gente che non si conosce quando mangiamo sia frutto di un retaggio culturale diffusosi negli ultimi tempi, oggi in cui ci dà fastidio in generale avere vicino altre persone tout court e la solidarietà è solo un optional che siamo pronti a offrire solo agli animali domestici. Una volta non era così. Ti sedevi nelle bettole su quei tavolacci che si vedono nei film in costume senza badare a chi avevi vicino. Per riportarci a una umanità più coi piedi per terra però esistono ristoranti o taverne dove l’assegnazione casuale del posto costituisce un elemento folcloristico. A volte genuino: era il caso di Maria, i genovesi sanno di cosa parlo, una autentica trattoria di una volta talmente a buon prezzo (ma comunque dall’ottimo menu) che nei tavoli comuni al livello della cucina potevi farti un minestrone a fianco dei più caratteristici senzatetto e sbandati locali. A volte un po’ meno: è il caso dei locali in cui tale prerogativa suona come una pratica eccentrica per gente che tutta la settimana non si cura di investire pedoni con il SUV e poi, per provare l’ebbrezza del paese di una volta, quello delle michette e dei gotti di vino che favoriscono il cameratismo (in tutti i sensi, anche quello nazifascista) e uniscono destini, si lascia coinvolgere in iniziative pensate con la stessa impostazione con cui si creano i parchi safari, quelli con le tigri e gli elefanti trapiantati in provincia di Varese o di Bergamo per dare all’occidente opulento un pizzico di esperienza esotica, o le rievocazioni storiche.
Fatto sta che qui a Milano hanno aperto un posto molto bello, riadattando una vecchia fabbrica di periferia con un bel cortile dove si balla anche, che è una specie di Disneyland sociale e culturale che ti consente di vivere un po’ dello spirito della Milano che non c’è più e in cui ti mettono a mangiare in tavolate nelle quali puoi capitare con chiunque. Il problema è che, oltre all’ambientazione davvero suggestiva e al cibo tutto sommato buono (con prezzi da Milano dell’Expo), dovrebbero farti provare l’esperienza di stare a fianco, in quei lunghi tavoloni apparecchiati, anche con persone della Milano che non c’è più. Perché, ed è capitato proprio a me qualche sera fa, se ti capita qualche commensale della Milano che già vedi tutti i giorni in centro, al lavoro, sui mezzi pubblici, nelle auto che ti incalzano nel traffico in tangenziale, quando sei in coda per pagare al bar in pausa pranzo o in un negozio nei giorni dei saldi, sui social network nelle pagine a tema con tutte quelle citazioni del milanese imbruttito, ma anche nei circoli locali del PD oramai prerogativa di quelle sagome dei renzisti, l’unica cosa che vorresti fare è metterli in fuga, quegli spiriti. Quello che suggerisco ai coraggiosi giovani che hanno voluto riproporre lo “Spirit de Milan” è quindi di mettere a disposizione dei clienti, oltre alla gradevole e simpatica cameriera in costume anni 50 che parla un perfetto milanese da master alla IULM, anche qualche comparsa che fa finta di essere un milanese simpatico ai tavoli, con cui se sei costretto a fare quattro chiacchiere si possano evitare le solite cose su zingari, rom, stranieri, Pisapia che è un incapace e compagnia bella. Sperando che quello non sia poi il vero Spirito di Milano. In questo caso, come si direbbe allo Spirit de Milan, mi parli pu.