A me sembra che sia proprio cambiato il timbro della voce degli italiani che cantano ed è lì che credo vada cercata la prova (sempre che uno ne abbia la voglia) di tutti i mali con cui un certo modo di lasciarsi cogliere impreparati dalla modernità ha fiaccato questo paese. L’inadeguatezza, l’assenza di un briciolo di futuro, il disagio di restare in bilico da adulti, la sfiducia in tutto e tutti, la mancanza di un qualcosa che tenga legate tutte le componenti che sono troppe e che hanno parcellizzato la società fino all’individuo da solo con il suo televisore prima, il suo pc dopo, il suo smartphone adesso. Pensate a quanto siamo lontani dal lavoro, dalla solidarietà altrui, dalla stabilità emotiva nella nostra componente sociale, abituati a interloquire senza interlocutori e persi nel perpetuo presente di cui non vediamo l’estinguersi. Ascoltavo per caso una delle centinaia di aspiranti qualcosa usciti dai talent show, e non mi è ben chiaro se oggi tutti hanno il timbro amaro della resa o se è il gusto di chi giudica o del pubblico a favorire la notorietà di quel tipo di interpreti. Fatto sta che ci si ritrova di più in questa esperienza acustica che ricorda il baratro davanti e la fine di un’alternativa per il ripensamento. Ti giri perché ci hai ripensato e la seconda opportunità proprio non c’è, così come non c’era nemmeno la prima. E non so da voi, ma qui a Milano in questo momento è uscito un raggio di sole, e il paragone con il timbro di chi cantava – tanto tempo fa – la speranza è stato immediato.