la terra promessa vs il mondo diverso

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Vi ricordate la prima cosa che avete fatto con “Internet acceso” davanti, come molti “diventati digitali” dicono ancora? Ok, abbiamo cercato tutti foto di donne nude, quindi ri-formulo la domanda e va bene, come risposta, anche la seconda cosa fatta con il web a disposizione. Io sì. Ho aperto una pagina del motore di ricerca che era più in voga ai tempi e che si chiamava Altavista e ho scritto il mio cognome. Il mio obiettivo non era certo di guglare me stesso medesimo, intanto perché il futuro algoritmo monopolista era per i profani come me uno come tanti altri e dal successo tutt’altro che scontato.

Come molti miei connazionali, anche io ho parenti nel continente americano, parenti per modo di dire perché oggi saranno trisnipoti ormai di antenati emigrati come molti italiani, verso i primi del novecento. Mia nonna mi raccontava di una sua cugina stabilitasi in Uruguay. E questa cosa mi aveva sempre affascinato, così non appena la tecnologia lo ha permesso mi sono messo sulle tracce dei protagonisti di questa diaspora per modo dire, ormai remota. E per confermarvi che si tratta di una fissazione, è stata la stessa prima ricerca che ho eseguito quando ho attivato il mio account Facebook, nel 2007.

Ma agli albori della rete, quando si chiamava ancora villaggio globale, i risultati avevano un sapore ancora più pionieristico, il fascino del 56k e le voci che apparivano con la lentezza giusta per assaporare anche il piacere stesso della suspence. Per farla breve, rintracciai solo un ingegnere elettronico argentino che con mia somma delusione conosceva poco o nulla delle sue origini, del piccolo borgo da cui provengono tutti quelli che si chiamano come me, dei suoi bis o trisnonni che erano sbarcati nel nuovo mondo chissà quando e chissà dove. Io invece mi ero immaginato scene come quella volta in cui, in un supermercato di Genova, un amico mi aveva chiamato per cognome suscitando la curiosità di una inserviente, una donna che mi mise al corrente dell’omonimia tanto si era stupita della casualità di quell’incontro, rivelandomi di essere da poco giunta in Italia da Montevideo per una bizzara emigrazione di ritorno. La cosa mi avrebbe consentito in teoria di chiudere il cerchio aperto da mia nonna e dai suoi racconti.

L’attività di compilazione di un albero genealogico universale dei plus1gmtini di tutto il mondo ha invece iniziato a dare maggiori soddisfazioni qualche tempo dopo, quando Internet ha cominciato ad essere più friendly per l’uomo comune e non solo per periti informatici. Era più facile trovare fotografie di persone vestite e in contesti normali, avete capito cosa intendo. La curiosità è salita di qualche grado perché oltre a trovare le tracce dei discendenti del ramo americano della mia stirpe potevo anche vederne le facce. Questo per la teoria secondo cui c’è un istinto latente in ognuno di noi di trovare il suo sosia, il suo alter ego, un essere umano in carne ed ossa tale e quale a noi che vive ignaro del suo gemello a distanza, che abita e lavora dall’altra parte del mondo. Questo solo perché abbiamo visto un film di fantascienza, ma anche un episodio di “Ai confini della realtà” con materia e antimateria che si incontrano e bang, altro che maya.

Non che chi viva in sudamerica sia di segno opposto al nostro, non vorrei sembrarvi razzista. Dico che anche questo, come chi cerca nuove forme di vita dello spazio, è un modo per sincerarci del fatto che non siamo soli. Ma così, con un altro plus1gmt da qualche parte, significa che non siamo nemmeno unici. Come se non lo sapessi già. Nel mio lavoro, che consiste nel trovare modi intelligenti, simpatici, creativi e originali di dire le cose, è superfluo che ogni volta che mi viene in mente una cosa la cerchi in Internet, perché è sicuro che qualcuno ci è già arrivato prima. Che disdetta essere in così tanti.

Invece trovare il fenotipo tale e quale a te anche solo a due passi da casa tua, non necessariamente in una seconda terra come il film Another Earth (che se non lo avete visto ve lo straconsiglio) è molto più interessante perché intanto la ricerca è sempre nulla, così se ravvisate qualche vostro particolare in altri può essere davvero la svolta della vita, la forte emozione che stavate rincorrendo. Perché in quel borgo in cui una volta tutti avevano il mio stesso cognome, capita di vedere volti con gli stessi lineamenti che potreste trovare in me. Tutti particolari molto attraenti, inutile sottolinearlo. Una volta una mia amica mi aveva ritagliato un trafiletto di cronaca locale  in cui l’uomo fotografato poteva essere un mio zio, tanto mi somigliava.

Poi un giorno, qualche anno dopo Altavista ma secoli più in là dal punto di vista del progresso tecnologico, ho trovato su Facebook una con il mio stesso cognome che vive negli USA e che ha così tanti tratti somatici in comune che potrei spacciare per mia figlia segreta, se un giorno la diaspora dei plus1gmtini terminerà e ci sarà il loro rientro nella terra promessa, che è quel borgo in cui peraltro non ho più nemmeno la casa di famiglia, a causa di una truffa che parenti molto più stretti di quella tris-tris-tris-cugina hanno ordito alle mie spalle. Ecco, di quelli lì, con cui non solo condivido lo stesso cognome ma addirittura gli stessi genitori, ne farei anche a meno, li scambierei volentieri con quelli americani, e sono certo che di loro non cercherò traccia nemmeno nel Google che ci sarà tra vent’anni.

briattore

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Questo mio contributo, forse uno dei meno utili di tutta la raccolta, uscirà a caso in un una domenica d’estate, in pieno mood da Studio Aperto, magari una domenica pomeriggio, mentre la Rai manda in onda le repliche della signora in giallo. Tanto le avete viste già tutte migliaia di volte, meglio leggere qui. Buon divertimento, qualunque ora e qualunque tempo ci sia fuori.

Svolgimento. C’è un bar, a Torino, a fianco di un locale in cui ho suonato qualche anno fa, non chiedetemi il nome perché non ricordo assolutamente, ma magari tutti insieme riusciamo a ricostruire il fatto e a dare una dignità giornalistica (?!?) a questo post, almeno nell’esattezza dei dettagli. Questo bar ha una particolarità. Entro per mangiare un panino e bere una birra prima del concerto con gli altri membri della band, e il tizio al di là del bancone ha preso le ordinazioni e mi ha trasmesso l’impressione di una faccia già vista. Ci sediamo in un tavolino, lì inizio a guardarmi intorno, prima gli altri avventori, pochi, seduti agli altri tavolini per lo più con il bicchiere di vino davanti. Quindi, probabilmente per fuggire dalla tensione pre-esibizione e dagli argomenti del bassista che avevamo ai tempi, continuo lo scanning sulle pareti e noto immediatamente una serie di foto in cui spiccano immortalate alcune celebrità, gente del calibro di Umberto Smaila, per intenderci. Poi qualche soubrette, se non ricordo male Anna Falchi. Non le riconosco tutte, non sono avvezzo al jet set. Vedo però Naomi Campbell, a braccetto di Flavio Briatore. Mi avvicino, e anche Smaila e Anna Falchi si accompagnano a Briatore, da lontano mi era sfuggito. Ma è davvero Briatore? No, è la persona che sta preparando il mio panino. Vedo allora la targa, primo premio al concorso di una tv locale e il conferimento dello status di sosia ufficiale di Flavio Briatore. Torno al mio posto. Il panino era davvero gustoso.

visto in tv

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Mi è capitato solo tre volte nella vita. La prima, ero in giacca, camicia e cravatta fresco fresco di un trenta in grammatica latina o giù di lì, in fase post-adrenalina da esame superato alla stazione di Genova Principe. Ero in attesa del localissimo per tornare a casa e vantarmi del successo accademico con mamma e papà. Ingannavo l’attesa sfogliando distrattamente l’ultimo numero di Rockerilla, nella hall pre-ristrutturazione, probabilmente infastidito dalla voce metallica che, un tempo, era il costante sottofondo di chi aspettava pazientemente notizie sul binario di arrivo del proprio treno. La voce metallica, sì, chi abita a Genova sa di cosa sto parlando. Ma questo non ha importanza, ero lì tenuto d’occhio come al solito dalla Polizia Ferroviaria in borghese, agenti che si riconoscevano lontano un miglio per via del marsupio e delle camicie improbabili, io ero il sospetto a causa del mio capello lungo e ordinatamente trasandato, quando mi si avvicina il maschio di una coppia sulla cinquantina in attesa come me, e con fare discreto, guardandomi negli occhi attraverso un paio di lenti bifocali, mi approccia chiedendo: “Scusi se la disturbo, ne stavo parlando con mia moglie, ma lei per caso è Luca Barbareschi?“. Era il 92, non so che programma televisivo facesse il futuro parlamentare berlusfiniano. Mi schernii incredulo, l’agente Polfer seguì la scena pensando che il curioso fan fosse in realtà un cliente della partita di droga che il suo fiuto investigativo immaginava nascosta chissà dove nei meandri del mio corpo.

La seconda, non in ordine cronologico ma solo narrativo utile a lasciare il posto finale a quella che leggerete tra poco come climax di questo post, dicevo la seconda è di qualche anno fa. Era il tempo della prima stagione di X-Factor, e un gruppetto di studentesse del liceo di fronte al portone del mio ufficio, vuoi la distanza – loro erano alla finestra del secondo piano e io per strada -, vuoi per alcuni elementi effettivamente analoghi quali basette, mosca, capello sale e pepe, forma del viso, insomma una di loro mi chiamò da lassù: “Morgan!“. Io mi voltai, più incuriosito per vedere dove fosse l’ex leader dei Bluvertigo e magari incontrarlo da vicino, che vittima consapevole di un equivoco da post-lettrici di Ragazza In. Fatto sta che le liceali presero la mia reazione come la prova della mia identità ed emisero un gridolino di giubilo, presto smorzato più dalla delusione che dai modi sbrigativi di una bidella curiosa quanto loro.

La terza, invece, è un episodio simpatico, vi sfido a provare il contrario. Su un inserto di Repubblica che si chiamava Musica, correva l’anno 1996, uscirono un paio di foto della band in cui esercitavo il mestiere di addetto a synth e campionatori, all’interno di uno speciale sulla nuova musica italiana dei tempi. E l’influenza del nostro manager fu tale che una di queste, a presentazione del servizio che era il principale di quel numero, fu stampata in copertina dell’inserto. Naturalmente ne comprai una dozzina di copie, una delle quali tenni aperta, in bella mostra, la mattina stessa recandomi in treno in sala prove. Il messaggio era chiaro: guardate tutti, quello lì non è che mi somiglia, sono proprio io. Si, sono in prima pagina di Musica di Repubblica. Ehm. Probabilmente la foto era davvero piccola, fare notare la coincidenza ai passeggeri intorno era troppo per la mia riservatezza. Nemmeno lo studente a fianco che mi chiese se poteva dare un’occhiata se ne accorse. Solo mio cugino, qualche giorno dopo, mi chiamò per congratularsi. Beh, dai, avrei potuto mentire e inventare un finale diverso, almeno questo me lo riconoscerete no? E va bene. Mi è capitato solo due volte nella vita. E mezza.

oui, je souis Nicolas Sarkozy

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Spero prima o poi che facciano la stessa cosa con Luca Barbareschi, anche io mi merito un’occasione così. Una volta di tanti anni fa, in stazione, in giacca e cravatta e con il capello grunge, mi fermò una coppia di anziani fans che mi chiesero se fossi davvero io. Tsk.