Davvero, non sappiamo più cosa utilizzare come mezzo per fare gli auguri. E già trovavo imbarazzante i saluti dei colleghi che scrivevano due o tre aggettivi in un sms e li mandavano con un paio di ditate a tutta la rubrica, tanto che ancora adesso mi arrivano messaggi pieni di banalità da numeri di due o tre rubriche fa, io le persone che non frequento più le cancello dal telefono ma c’è gente per cui gli altri sono talmente irrilevanti che tenerli i mezzo a mille nomi non fa differenza, è solo una manciata di bit in più che tanto hanno la microSD da 32 giga. Ora possiamo mettere la foto tutta sberluccicante di una palla instagrammata su Facebook con scritto il testo di una preghiera e ci va ancora meglio, perché non paghiamo nemmeno il costo dell’invio. Ma il contenuto che inoltriamo è talmente neutro che può raggiungere i nostri genitori quanto il giornalista dell’Espresso che abbiamo aggiunto in una versione agli albori del social network, quando c’era ancora il limite dei cinquemila friends. Possiamo persino lanciare nel vuoto il desiderio di condividere la speranza di buone feste con What’s up tanto quanto Twitter e più siamo beneamati tanti più individui beneficeranno della nostra emanazione. Che culo. Che non è un problema di canali, non stiamo certo a giudicare su come e cosa e quando e dove e perché. Forse è il chi allora che manca. Ho abbracciato il numero giusto di persone, quest’anno, stretto – come quantità e come intensità – ma giusto. Agli altri non è che voglio il male, ci mancherebbe, fosse per me ci sarebbe la serenità su tutto il pianeta. Anzi, pure su Marte e fino all’infinito e oltre. Ma non li conosco, ci sono altri che pensano a loro. E se qualcuno non ha nemmeno un cane con cui condividere uno straccio di fetta di panettone allora il discorso è diverso. Sono qui, a disposizione.
solitudine
è amara in un modo pazzesco
StandardPuoi stare certa che alla fine ci saranno i titoli di coda che ci consentiranno un bel respiro di sollievo, magari con i blooper come usano adesso, di te che provi due o tre volte la scena dell’incidente d’auto prima che venga bene senza stuntman al tuo posto, con la macchina cappottata e tu illesa per miracolo. Poi sai che nei film autobiografici non è che se nella tua vita ripeti metodicamente un errore occorre riproporlo tutte le volte che è successo, no? Quindi la scena dei deliri da alcolista in un un’ora e rotti di storia il regista l’ha prevista solo un paio di volte perché tu in realtà non è che potevi berti tutta quella roba, che ti fa pure la nausea. Insomma alla fine, quando ancora si sente la sigla di chiusura che nemmeno so più che musica ti piace ma facciamo finta che sei rimasta a quando ti compravi i dischi di Bowie, ci metterei qualcosa di suo, un pezzo struggente ma occorre fare attenzione perché le canzoni di Bowie sono state usate a profusione nel cinema. Ed è facile ripensare subito a Cristiana F. Dicevo alla fine della proiezione anche se ci sono quelli fanatici che vogliono leggere persino chi era l’assistente al catering, non ti fare problemi tanto non ti vede nessuno e puoi già andare a togliere il trucco da bipolare nei camerini, quello che ti fa gli occhi da folle, la faccia rossa e sudata, i denti grigi. E davvero poi cambia tutto, hai indietro la tua vita che non è quella del film di cui sei stata protagonista ma è un’altra. Con un lavoro che non è servire 10 ore al giorno in un ristorante in un posto dove sembra che i turisti affamati non smettano mai. Con un corpo che non è quello con tutti quei chili in eccesso che ti porti dietro sempre più faticosamente ma fin da bambina. Magari con un uomo al tuo fianco, una famiglia tutta tua, una testa libera di pensare che c’è un domani in cui al massimo sono previste repliche ma che poi, come ogni spettacolo, finiscono così. Nella sala viene completamente buio, escono tutti e fuori c’è ancora un po’ di luce e non è nemmeno domenica.
ti passo a prendere
StandardQuando ti trasferisci da Genova a Milano o, diciamola tutta, dal centro della prima alla periferia della seconda, la vera cosa di cui senti la mancanza non è tanto il mare (vedo già la folla con i forconi e le torce qui sotto) quanto la diversa destinazione d’uso degli spazi comuni. Che detta così non significa nulla, perché quello che intendevo è che qui, a Milano o meglio nella periferia povera in cui mi sono spostato, manca completamente il concetto di “esco a fare due passi”. Ci siamo capiti, vero? Si tratta di un problema che può essere affrontato sotto due punti di vista. Quello della geografia diciamo urbana, in prima istanza, e quello della geografia umana. Ma se siete un po’ avvezzi con entrambe le discipline converrete con me che poi le due cose vanno a coincidere, o per lo meno l’una influenza l’altra.
Ma facciamo un passo indietro. Che cosa intende, il genovese, con la locuzione esco a fare due passi? La passeggiata è una componente fondamentale della giornata di ogni abitante del capoluogo ligure, perché si può ingannare il tempo, rilassarsi all’aperto o anche solo sgranchirsi le gambe e prendersi una pausa gironzolando per la città, per il centro storico, al Porto Antico o in Corso Italia fino a Boccadasse e Vernazzola. O dare un’occhiata alle vetrine in Via Luccoli, ora è tanto che non vado e non so se la crisi degli esercizi commerciali ha sostituito anche lì le insegne storiche con le cineserie che si vedono da queste parti, fare la spesa negozio per negozio a seconda di quello che vuoi preparare per cena. “Vado a fare un giro”, si dice così e poi si prende la porta e via. Questo per dire che c’è la volontà da parte degli abitanti di occupare parti della giornata in questo modo e che, dall’altra parte, c’è una – diciamo – struttura ricettiva dei desideri delle persone piuttosto all’altezza, ovvero spazi comuni destinati anche all’uso efficace dell’ozio, sempre inteso alla latina.
Poi un giorno ti sposti a Milano per una serie di motivi che potete immaginare. Qui è diverso, perché mi sento spesso dire che “esco a fare due passi” non fa parte degli hobby di nessuno, tanto meno dei bighelloni solitari. A nessuno viene in mente di andarsi a fare un giro. Ora non so se sia così per chi vive in centro. Di fatto, qui in periferia sfido chiunque a volersi rilassare in questo modo. Gli spazi comuni sono adibiti a un uso principalmente di spostamento finalizzato: da casa all’ufficio, dall’ufficio all’Esselunga, dall’Esselunga a casa. Perché, a dirla tutta, non è che qui ci siano scorci tali da invogliare alla passeggiata. Forse perché non ci sono punti più alti rispetto ad altri, e la pianura è monotona per chi cerca la contemplazione dei panorami. E poi l’urbanizzazione delle periferie è quasi tutta a misura di mezzi di trasporto privati e commerciali, al massimo le piste ciclabili, ma per chi cammina c’è ben poco. Gli unici che incontri a piedi che non vanno da nessuna parte sono quelli che corrono per fare un po’ di sport, quindi in realtà stanno andando da qualche parte. Cercano di superare loro stessi per poi ritornare a casa. Quelli che invece incontri e stanno camminando rimani meravigliato di vederli lì su un cavalcavia della tangenziale, in bilico su un marciapiede che non usa più nessuno e nessuno, di conseguenza, lo aggiusterà mai. E se hanno detto a qualcuno “vado a fare due passi”, potrebbe anche esserci sotto un motivo serio. Lo dicessero a me mi preoccuperei.
cerimonie di chiusura
StandardDomenica pomeriggio d’agosto, devo essere l’unico a casa nel quartiere perché nelle pause tra gli sbuffi del vapore del ferro da stiro – le ultime incombenze prima della partenza per le ferie – fuori non si sente alcun rumore. La tentazione è troppo forte per non mettere un disco a un volume adatto all’occasione. Mentre i pezzi filano via uno dopo l’altro, che poi il bello dell’ascoltare i vinili è il fatto che dopo quattro o cinque canzoni bisogna girare il disco dall’altro lato, ogni tanto esco fuori sul balcone per vedere l’effetto che fa. E non è male, perché la musica invade gli spazi esterni fino all’esaurimento della sua portata e lì sotto, nelle vie adiacenti, un po’ si sente. Il che mi rende orgoglioso perché mi fa sentire il dj del momento. Addirittura spengo la vaporella che a lasciarla accesa inutilizzata consuma e scendo in strada, giro intorno all’isolato e in effetti dato che abito al secondo piano da lì si sente, eccome. Peccato non vi sia anima viva, sotto il solleone c’è solo un tipo strambo vestito da casa che svolge degli inutili test audiometrici sulla potenza del suo impianto hi fi. Ma poi la facciata del disco volge al termine proprio mentre mi decido a rientrare in casa e terminare la valigia, e a quel punto non è vero che subentra il silenzio che mi ero immaginato ci fosse. Da una delle villette più avanti si ode il commento a una gara olimpica, probabilmente una finale perché è l’ultimo giorno e non c’è più tempo per gare eliminatorie. Oro o argento, le possibilità sono limitatissime. Quest’anno mi sono divertito a seguirle in famiglia, mia moglie accesa sostenitrice dei velocisti e del nuoto, mia figlia appassionata di volley e di Bolt come immagino tutti i bambini, un po’ perché è imbattibile e un po’ perché fa ridere con il suo comportamento poco ortodosso. E anche io, che avrei voluto vedere la nazionale USA di basket ma alla Rai non si è vista.
E su quella telecronaca che non capisco cos’è ma che intanto cresce di volume sino ad avvolgere quel fermo immagine irreale che è la città in estate e a catturare la mia attenzione, penso alla prossima edizione dei giochi olimpici. Penso a scadenze come queste che sono così lontane tra loro che poi invece arrivano in un battibaleno e siamo tutti quattro anni più grandi, più adulti, più vecchi. Così appena rientro accendo anche io la tv e mi sento in sintonia con quel vicino di quartiere che non conosco ma che si diverte a seguire lo sport delle grandi occasioni. E faccio i calcoli sull’età che avremo nel 2016 e se Bolt sarà ancora il più veloce a Rio de Janeiro e che clima insopportabile ci sarà per gli atleti del nord Europa. Ma a me la ginnastica artistica – è quello che stanno trasmettendo in diretta – non mi entusiasma e poi mi viene in mente che devo finire di stirare e mi sovviene anche che stavo ascoltando un disco, prima di tutte quelle riflessioni. Spengo la tele, temporeggio ancora un po’ sporgendomi dal balcone, ma non si sente più nulla, forse il vicino si è stufato, troppo sport alla fine stanca, così ha deciso di spegnere la tv e aspetta che qualcuno, nelle vicinanze, metta un po’ di musica.
maschile singolare
StandardNon solo alla fine ci fai l’abitudine ma la trovi una cosa assolutamente normale e molto piacevole, e a pensarci bene lo è davvero. Anche una semplice pizza, scendi a prenderla nel ristorante take-away più vicino per poi tornare in casa e mangiarla davanti a un film, ma la discesa è una vera e propria discesa che poi in senso contrario è una vera e propria salita. Ci sono città così, che sembrano vignette di Mordillo con i ragazzi che giocano a calcio sul cucuzzolo e la palla che quando scende giù è un’impresa recuperarla. E quella è una città con i palazzi in cima e le vie che in alternativa possono essere percorse solo da rampe di scale che tagliano i tornanti e che sono ancora peggio. Ma la pizzeria take-away è semideserta perché è una serata insulsa, tipo un martedì, e il cameriere ti guarda perché gli fai tenerezza e decidi che la mangerai lì, tanto un tavolo per uno c’è sicuramente e in meno di un quarto d’ora la pratica cena è sbrigata. Non è tanto diverso dal cinema, anzi vedere i film da solo è un vantaggio perché stai sicuro che nessuno ti chiede particolari sulla trama come se tu sapessi quello che è successo prima e quello che succederà dopo e i protagonisti fossero tuoi amici e tu conoscessi anche il regista. A luci accese qualcuno che è in coppia si volta a guardarti e poi scambia un’occhiata con il partner che intuisce tutto, tu occupi un posto solo per scelta o sei appena stato lasciato o sei uno che non si vuole legare o magari ti sei preso un anno di ripensamento, l’età avanza e si sta facendo tardi, occorre fare qualcosa della propria vita. E il sabato pomeriggio trascorso a leggere sulle panchine del Porto Antico, è giugno ed è chiaro fino a tardi e tanto non c’è nessuno che ti aspetta e poi c’è la luce dei lampioni, al limite. Uscire apposta a bere qualcosa è infine il passo che chiude il cerchio, non è che si deve andare nei locali per single che piuttosto uno se ne sta a casa, entri nel pub preferito e magari c’è qualcuno che conosci o magari no, che importa, tanto c’è la musica e una birra quando fa caldo è conforto assicurato. E prima, uscendo da casa, hai trovato dieci euro in terra, e hai pensato che è una fortuna e un segno del destino, potrai offrirti una media in più.
dewey
StandardUna bibliotecaria spinge il carrello colmo di volumi e riviste da riordinare secondo il sistema di archiviazione che conoscono solo gli addetti ai lavori. Il corridoio è lungo, per questo esistono i carrelli grazie ai quali gli operatori non sono più costretti a portare tomi pesanti in mano tra gli scaffali. Al suo fianco c’è la sua responsabile, che le sta dicendo che non c’è problema, può scegliere di assentarsi quando preferisce. Alla bibliotecaria così si riempiono gli occhi di lacrime, quel momento in cui sembra formarsi una patina di gelatina sulle pupille e l’abilità sta nel riuscire a controllarne la tracimazione. Un millesimo di debolezza in più e cola tutto, un millesimo di tenacia e la patina resta lì come una lente a contatto che avvolge tutta la superficie in attesa del successivo battito delle palpebre. Ma la bibliotecaria tarda un secondo di troppo nell’abbassare la testa e il riflesso della preziosa lampada al soffitto su quelle lacrime ancora in potenza è decisivo. La sua responsabile si accorge del terremoto interiore che si sta consumando al suo fianco e si ferma e fa fermare anche lei. Ti va di prendere un caffè, le chiede. Ma la bibliotecaria ormai è una veterana della sofferenza e riesce a tenere tutto quel fluido al suo posto. Le è sufficiente ruotare il volto di qualche grado dalla parte opposta di quella che oltre ad essere la sua responsabile vorrebbe essere anche un’amica. Un movimento che viene frainteso e il cammino riparte, entrambe riprendono il loro percorso attraverso il lungo corridoio. No grazie, risponde la bibliotecaria, meglio di no. Lì le strade si dividono, la bibliotecaria si affretta verso uno scaffale laterale e la responsabile rientra nel suo ufficio, in fondo al corridoio.
chi si rivede
StandardA volte non riconosceva i luoghi, molto più spesso erano i luoghi a non riconoscere lei. Andava nel panico e cercava intorno qualcosa di famigliare, qualche elemento riconoscibile per capire dove si trovasse. L’insegna sul capannone, il parcheggio a pagamento, i venditori ambulanti ma solo se fuori non pioveva. Poi si tranquillizzava perché c’era ancora un po’ di tempo, quella dopo sarebbe stata la fermata giusta. Erano i vetri a specchio degli esercizi commerciali desueti che restituivano l’immagine che aveva di sé diversa a seconda dell’umore, variabile a seconda della temperatura, più o meno colorata a seconda di quello che aveva indossato. Due figure in movimento lungo traiettorie incidenti che si avvicinavano con la medesima velocità in cui c’era tutto il tempo di fare il check completo. Stesse scarpe, stesso cappotto, stessa sciarpa, fin su negli occhi. Poi la pettinatura e gli accessori. Infine la postura, la borsetta stretta sotto l’incavo del braccio destro, l’altra mano in tasca. Per fortuna tutto coincideva alla perfezione, poteva ancora contare su sé stessa almeno per le successive ventiquattro ore.
sosta
StandardStamattina fa freddo, meglio tenere il finestrino aperto solo due dita, il minimo indispensabile per fare uscire il fumo della sigaretta. Che già fumare a quest’ora, chiuso nell’auto accesa per riscaldare l’abitacolo ma ferma nel parcheggio sotto il portone, significa omaggiare il resto del pianeta di una dose doppia di smog. I due scarichi gassosi si mischiano fuori alla nebbia e insieme avviluppano l’utilitaria malconcia, nascondendo alla vista dei passanti come me la passeggera seduta dietro, che poi è la figlia dell’inquinatore consapevole. Nata con un deficit intellettivo di una percentuale abbondante oltre la metà in una famiglia che, messi insieme, non riesce a colmare l’altra, da sempre sfrutta l’ausilio delle strutture di sostegno e ora, mentre tutti i suoi coetanei sono quasi adulti, aspetta come ogni giorno nella sua dimensione infantile scomoda in un fisico indeciso sulla categoria a cui appartenere il furgone dei volontari che portano un nutrito gruppo di meccanismi difettosi ai rispettivi impieghi, reali e fittizi. Il padre, al posto di guida, tra una tirata e un’altra non muove un muscolo della faccia, l’espressione probabilmente bloccata da sempre come un calco nel gesso da quando ha ricevuto la notifica che la vita normale, da quel momento, mai più sarebbe stata. Ma non è un buon motivo per affumicare una persona anche se non è del tutto registrata e anche se lei, dietro, sembra non curarsi della cortina che si addensa dentro e fuori l’abitacolo. Per la ragazza non fa differenza nemmeno quello, finché il furgone affianca l’auto, il padre ne esce e trasborda quell’enigma che occupa una stanza del suo appartamento su un vettore più adatto, accudita da mani più esperte, in una dimensione più a misura di disagio. Lei si getta sul sedile a fianco dell’autista, che alla fine è il più rassegnato di tutti. Il padre risale in macchina e questa volta mette la prima e parte, in perfetta sincronia con i saluti della figlia, che non restituisce.
Il posto macchina ora è libero, nemmeno un minuto e ci si fionda una fiammante city car multicolore, una di quelle auto che sembrano progettate da un pasticciere. Dentro c’è l’impiegata dello studio del geometra ubicato di fronte, tira il freno a mano ma nemmeno lei non spegne il motore. Dallo specchietto retrovisore nota che l’ufficio ha ancora le serrande chiuse, ne approfitta per accendersi una sigaretta, lasciar sfumare la canzone di Vasco Rossi – che è appena all’inizio, riconosco la strofa – e cancellare dallo smartphone un po’ di messaggi obsoleti. A differenza di chi ha stanziato in quel punto poco prima non apre il finestrino, lascia che il calore non tracimi e nemmeno il fumo, chi se ne importa. Nello studio lavorano in due, lei e il geometra che è sempre fuori a controllare i condomini che amministra. Non ha colleghi, in ufficio è sola quasi tutto il tempo. Vive in un paese sulla stessa circonferenza esterna alla metropoli, tanto che è impossibile recarsi in ufficio con i mezzi a meno di non dover passare per il centro e poi tornare su per un raggio diverso. In auto è a pochi minuti da casa, invece, che diventano più di venti nelle ore di punta e che trascorre in compagnia della radio. Da periferia a periferia. Sul cruscotto e sul divanetto posteriore un’orgia di animali di peluche di ogni ordine e grado, sdraiati in posizioni innaturali, sicuramente impregnati di nicotina e di silenzio, come la loro proprietaria umana. Che apre la portiera e getta la sigaretta sull’asfalto e la richiude, il geometra non è ancora arrivato è c’è il tempo per mettersi il rossetto.