Non è solo l’industria culturale a essere stata drasticamente messa in un angolo dal digitale e dall’analfabetismo di ritorno causato dalla sovraesposizione ad esso a cui siamo soggetti. Provate a tenere dei soldi in mano e a sostare davanti a una vetrina di un negozio con una cosa che desiderate fortissimamente in bella mostra, e provate a fare lo stesso con la carta di credito, un sito di e-commerce e solo un clic che vi separa dall’acquisto. Provate a pensare ai vostri risparmi in banconote dietro a una piastrella della cucina, come facevano i nostri nonni, contemplando lo spessore delle mazzette, e descrivete invece la vostra sensazione osservando la cifra che ne indica l’entità sulla home page personale della banca virtuale di cui siete clienti. Il valore dei soldi è equivalente? Probabilmente no, e forse è anche cambiata la scala delle priorità e la posizione ricoperta in questa scala dalla merce rispetto alla valuta. A me, per dire, i pacchi di Amazon sembrano sempre dei doni di Babbo Natale anche se li ho pagati un botto. Il passaggio dei dati relativi alla transazione che mi ha permesso di comprare qualcosa non mi dà nessun fastidio fisico rispetto alla voce soddisfatta del negoziante che ha appena concluso l’affare con me e a quello che provo riponendo lo scontrino nel portafoglio, che è sempre bene conservare in caso di pentimento. Ma voi riportate indietro al negoziante soddisfatto le cose che non vi soddisfano dopo qualche giorno perché volete indietro i vostri soldi? Comunque potremmo provare a sperperare tutti i nostri risparmi qui sul web e vedere se poi esiste un’estensione di Chrome che riesce a riempirci la pancia solo con il nostro girovagare in rete.
soldi
fate la carità
StandardOgni volta che noto i vari intrecci delle reti di conoscenze su Facebook, ovvero il mio amico che è amico di tizio che è amico dell’altro che è amico di uno che è anche mio amico, penso “hey Facebook chissà quante volte in questi incroci di gente che si conosce si sarà parlato di me”. Persone con cui ho avuto a che fare in tempi, ambienti e persino luoghi differenti che si trovano a interagire per chissà quale ragione e il discorso capita su di me per cui uno scopre che l’altro mi conosce e dice “hey lo conosco anch’io, ho suonato con lui quando avevo 14 anni” e l’altro “che storia! era nel mio gruppo fino a quando ci siamo sciolti”. O altri due che si scambiano le esperienze trascorse con il sottoscritto del tipo “ma lo conosci? è quello degli aneddoti del futuro” e l’altro “eccome no, lavora insieme al mio amico blogger, vanno a sfondarsi al cinogiappo all-you-can-eat ogni venerdì”. Così ho postato su Facebook uno status tipo “hey amici di Facebook quanto tempo è che non ci vediamo”, sperando di intercettare qualcuna di queste conversazioni, con ex compagni di università che si confrontano con musicisti che hanno collaborato con personalità del mondo digitale che sono passati per una delle città in cui ho vissuto o ho lavorato e che scoprono tutti di avere questa cosa in comune. Bello, vero? Intersezioni di rette che proseguirebbero sino all’infinito se non intersecassero nodi che formano semirette e segmenti che portano a esperienze di cui è rimasto qualcosa e sulle quali ci si può confrontare, dialoghi che nascono e crescono e si alimentano di narrazioni provenienti da posti remoti che altrimenti si sarebbero allontanati come un universo in espansione ma che la casualità dell’Internet regolamentata dai parametri dei social network ha riportato sulle strade del reale, che può essere inteso come “sono pronto a rivedervi tutti e ripercorrere insieme gli istanti comuni propedeutici ad altri istanti comuni con altri protagonisti e che alla fine messi in sequenza generano quel grande montaggio cinematografico che è la timeline della vita”. E invece quando contemplo i vari intrecci delle reti di conoscenze su Facebook e penso “hey Facebook chissà quante volte in questi incroci di gente che si conosce si sarà parlato di me”, la risposta è no, mai, zero, nulla, un insieme vuoto, un pensiero rimasto inespresso senza nemmeno una parola o una faccina di quelle con cui si commentano le cose per carità altrui, quando non si sa cosa dire.
elogio dello stipendio
StandardOggi è il ventisette, e visto che la rete è un’incommensurabile macchina spammatrice di tributi e ricordi di anniversari di ogni cosa, nascite morti miracoli eventi pubblicazioni per non parlare di compleanni e ricorrenze personali, anche se è domenica quindi il giorno festivo per eccellenza permettetemi un encomio nei confronti dell’unico vero motivo per cui sopportiamo decenni di misere routine, portiamo a termine attività svilenti, ci prestiamo a conversazioni surreali, lasciamo che gente che non vale nemmeno lo sporco delle nostre unghie dei piedi emetta valutazioni sul nostro operato, ci nutriamo cinque giorni la settimana con cibi discutibili in bar tutt’altro che convenienti e con l’attenzione rivolta verso maxi schermi tv al plasma sintonizzati sulle reti Mediaset, diciamo sempre di sì anche se non lo pensiamo, sorridiamo a interlocutori anche se vorremmo far pesare loro la nostra superiorità intellettuale se non spaccagli la faccia con una testata, regaliamo il meglio dei nostri anni per la riuscita di progetti a persone di cui non ci frega una mazza, spremiamo il nostro estro fino al midollo affinché altri facciano una bella figura fino a quando poi della nostra essenza non rimane più niente quando ci troveremo membra rinsecchite e menti lobotomizzate con un qualcosa in mano che attesterà la fine del nostro servizio, pur non sapendo oggi quando e in che termini ciò avverrà. L’unico vero giorno in cui tutto questo acquista un senso e di cui non ne potremmo più fare a meno in questo crudele meccanismo in cui siamo in miliardi, ciascuno con le proprie mansioni e il proprio valore aggiunto, a decretare il successo di responsabili, capiufficio, manager, amministratori delegati, imprenditori, il momento in cui il nostro conto corrente si gonfia all’improvviso del gettito di denaro che attesta che, anche per i prossimi trenta giorni, riusciremo a mantenere noi stessi e la nostra famiglia. Non mi è mai capitato di leggere elogi dello stipendio in giro perché a tutti noi ci schifa in eguale misura trattare di vil denaro e ammettere che anche se siamo gli artisti più distaccati dalla realtà c’è sempre quel momento che ci ancora alla materia, alla carnalità, alle bollette e alla rata degli elettrodomestici. Il ventisette del mese, per altri il trenta o il trentuno, noi lavoratori dipendenti consumiamo un rito di sommesso ringraziamento per l’economia e il lavoro che tutto sommato funzionano sempre con la stessa regolarità. Così io a questo sistema periodico che non finirà mai di stupirmi e grazie al quale posso pagare il corso di teatro a mia figlia, comprarmi una nuova giacca blu (all’Oviesse, che cosa credete), mettere il gpl nella mia macchina del 2007 e stipare nel frigo tutti i generi alimentari che mi consentono di superare l’insorgenza della fame quotidiana ho deciso di dedicare una giornata di riflessioni che lo so, taglia fuori una buona fetta di lettori che non si riconoscono in questa categoria perché lavorano per conto proprio o invece purtroppo non lavorano proprio, o quelli che stanno dall’altra parte della barricata e hanno seguito la vocazione del rischio d’impresa con i suoi alti e bassi. Io sono orgogliosamente dipendente e seguace numero uno dello stipendio che mi paga anche tutto il necessario affinché io possa celebrarlo qui, e anzi ora vado su Facebook ad aprire una pagina a lui dedicata e voglio vedere a quanti fan riesco a arrivare.
ho trovato un euro
StandardIn genere preferisco il genere femminile, e non solo per il motivo che pensate voi. Ho frequentato scuole femminili, nella famiglia di origine ero in netta minoranza e in quella che mi sono fatto io rappresento solo un terzo. Ho avuto rapporti di amicizia molto profondi e formativi con alcune coetanee, ho rivelato cose inconfessabili a una fidatissima compagna di studi, nell’ambiente lavorativo ho dato sempre la mia preferenza alle colleghe e, manco a dirlo, i miei boss sono due ragazze davvero in gamba. Le vedo sempre al lavoro, quando entro in ufficio sono già lì alla loro postazione e alla sera, finita la giornata lavorativa, difficilmente tornano a casa prima di me.
Poi è successo che nel giro di qualche settimana ho dato per la prima volta qualche chance a un amico, se non altro perché è l’opposto di me, dice senza troppi giri di parole quello che pensa a tutti e ha una grinta che io me la posso scordare. Come se non bastasse, mi sono trovato a condividere numerosi punti in comune con un paio di altri conoscenti maschi su un social network, e potete immaginare quale. Uno di loro finisce un libro che io ho appena iniziato e l’altro ha tra i suoi preferiti un romanzo che ho consigliato al primo che a sua volta condivide con il secondo gli stessi miei gusti.
Ecco, sempre a proposito di narrativa, di norma cerco posti a sedere sui mezzi pubblici in prossimità di altri lettori per non essere disturbato dalle conversazioni altrui. Inutile dire che la maggioranza della popolazione leggente è donna, non ho dati certi ma credetemi che è più facile incontrare femmine con l’e-reader o un tomo in mano mentre uomini giovani e meno giovani è più frequente vederli intenti in qualche giochino idiota sullo smartphone. Sull’onda dell’entusiasmo della recente riscoperta del genere maschile, oggi invece ho trovato da sedere di fronte a un ragazzo assorto in una storia fantasy. Va bene, ho pensato, non si può pretendere la perfezione. Nel sedile di fronte al suo, quello a fianco al mio, che era vuoto, ho notato però subito una moneta da un euro. Curioso che il mio dirimpettaio non l’avesse vista, fino a poco prima era lì seduto da solo e poteva ben intascarsela, e invece niente.
Tempo tre fermate e il passeggero si è preparato ed è uscito, lasciandomi nella tentazione di intascare la moneta. Se qualcuno si fosse messo vicino a me, alla successiva fermata, avrebbe sicuramente notato l’euro e senza tanti complimenti lo avrebbe giustamente preso. Quindi quel privilegio era giusto toccasse a me, visto che era già una fortuna che quello di prima non se lo fosse arraffato. Chissà se è stato poco attento o, semplicemente, non ha voluto fare la figura del misero, come ho fatto io poco dopo. Scherzo, non mi ha visto mica nessuno. Ho fatto giusto in tempo perché poi è salita una ragazza che conosco di vista, altissima e con un paio di scarpe che se fossi una donna le comprerei subito. Una specie di anfibi però tagliuzzati tipo i sandali estivi, da mettere con calze vistose in modo che la linea originale renda al massimo. Ecco, nessun uomo, almeno di quelli che conosco io, metterebbe mai degli stivali così. Comunque se siete arrivati sino qui per l’euro che avete perso, sappiate che ora ce l’ho io, è in buone mani, se lo volete indietro fatemi sapere.
trentamila lire l’uno
StandardMarco mi aveva chiamato persino in ufficio per chiedermi i soldi. “Non credi che il lavoro debba essere pagato?”, mi aveva sbraitato dall’altra parte della cornetta. E io che cercavo di calmarlo dandomi allo stesso tempo un contegno dinanzi alla mia responsabile, quella che era fidanzata con uno dei soci ma una volta l’avevo beccata mentre mi osservava in zona cerniera dei pantaloni perché indossavo un paio di jeans piuttosto aderenti e avevo capito come doveva sentirsi lei, con quel seno spropositato in un ambiente professionale ingegneristico e quasi tutto maschile. Era lei che mi aveva passato la telefonata. “È per te” mi aveva detto, un po’ seccata per via del fatto che non stava bene ricevere chiamate personali in orario di lavoro. I telefoni erano solo sulle scrivanie dei ruoli importanti, così mi ero ritrovato in piedi, al centro dell’open space, attirando l’attenzione di tutti. D’altra parte nemmeno io potevo immaginare che Marco mi avrebbe rintracciato lì, al massimo mi chiamavano i miei o la Betta, in quel periodo avevamo già chiuso per la terza volta ma ogni tanto capitava che ci sentivamo. Era una dei pochi a sapere dove lavoravo. A dirla tutta era una dei pochi con cui avevo contatti.
Così ero rimasto sorpreso a sentire la voce di Marco, e mentre gli dicevo cose come “va bene, ma per cortesia non chiamarmi più qui” mi guardavo in giro ostentando sicurezza e vedevo che qualche collega aveva capito l’antifona. Quello nuovo con i capelli così rossi da sembrare una carota che me lo sentivo con il fiato sul collo pronto a soffiarmi i progetti, che faceva il finto leale chiedendomi in prestito cd di musica elettronica che conoscevo solo io. Gli avevo proposto in vendita un expander che non usavo più, visto che la mia carriera da musicista era chiusa per sempre, e lui si era comportato con quel tipo di finta correttezza per dirmi che il prezzo era fuori mercato e che aveva visto uno stesso modello usato a trecentomila lire in meno, ma senza dirmi che non era più interessato, per far sì che mi sentissi in colpa di avergli proposto un affare sconveniente e per costringermi a riaprire la trattativa al ribasso.
Anche Jenny stava seguendo quella mia conversazione scomoda. Jenny non si capiva bene se fosse pagata o se fossero i suoi genitori a pagare lo studio per darle da fare qualcosa. L’ultimo giorno prima delle vacanze di Natale l’avevano accompagnata in ufficio per portare in dono ai tre soci una pianta stagionale, un panettone di pasticceria e una bottiglia costosa. I tre soci si erano sentiti fortemente imbarazzati da questo sottile tentativo di corruzione emotiva. Far leva sulla gratitudine umana per ottenere in cambio un contratto a tempo indeterminato. Roba d’altri tempi.
Marco invece, la persona che mi stava giustamente intimando di saldare un debito anche se in un momento inopportuno, era stato per qualche mese il mio insegnante di jazz. Avevo interrotto le lezioni proprio a causa dell’impossibilità di pagarlo, era successo quasi un anno prima che trovassi quel lavoro con uno stipendio decente. Avevo lasciato sprofondare lentamente nell’oblio il nostro rapporto professionale e l’insolvenza derivante, forte di quell’implicito patto tra artisti in cui ci si paga quando si può perché comunque siamo tutti nella stessa barca che, prima o poi, affonda senza risparmiare nessuno. Lui però aveva studiato in America, forse per questo differiva da tutti gli altri e non intendeva certo lasciare conti aperti, tantomeno a suo svantaggio. In tasca avevo tre pezzi da cinquanta che avevo appena prelevato al bancomat, che più o meno coincidevano con le ultime lezioni che erano rimaste scoperte. Peraltro casa sua era a un tiro di schioppo dall’ufficio, e per tranquillizzarlo gli avevo dato appuntamento poco prima di pranzo per consegnarli la somma dovuta.
Ma più per sottrarmi da quell’occhio di bue imprevisto, mi ero convinto di chiudere quella storia di denaro ripensando a quanto mi imbestialivo quando facevo lo stesso mestiere di Marco o giù di lì e mi trovavo a lottare contro quelli che non pagavano. Un capo orchestra che divideva il cachet in ritardo di un giorno e tutti ci preoccupavamo già di come avere la nostra parte di quella che sarebbe stata l’ultima serata. Slittare di ventiquattr’ore ci avrebbe costretto a rivederci una volta in più del dovuto. Un’altra volta, invece, io che sono tutto fuorché una persona violenta, avevo persino minacciato di tornare con un po’ di gente a incendiare il locale se non avessimo ricevuto quanto pattuito. Il gestore ci stava dicendo che secondo lui non avevamo reso secondo quanto si aspettava. Io ribattevo facendogli notare che lui non avrebbe accettato che qualcuno, poco soddisfatto di un panino o di un piatto di penne, riducesse il conto a seconda di quello che poteva essere il gradimento della cena consumata. Ma alla fine non l’avevamo spuntata, aveva capito che la mia intimidazione era tutto un bluff.
Insomma, per farla breve nemmeno una mezz’ora dopo la telefonata in ufficio ho restituito quello che spettava al mio ex insegnante, un gesto che mi ha rimesso in pari con la sua stima e con la mia coscienza. Credo di aver chiuso così tutte le pendenze aperte tranne una. Avevo chiesto a un amico di acquistare per conto mio un paio di biglietti per un concerto dei Cure. E c’ero andato proprio con quella Betta con cui qualche volta, malgrado un passato sentimentale tormentato, anni dopo la tournée di Disintegration avevamo trovato un modo inaspettatamente civile di condividere la pausa pranzo con un panino sui gradoni di Palazzo Ducale. Ma a quel tizio, quello che mi ha comprato i biglietti del concerto, non so perché ma non gli ho mai restituito i soldi. Ecco, a parte questo caso, spero di non aver contratto nessun debito con voi. Ma, se pensate di sì e volete approfittarne, prima voglio vedere la ricevuta.
tra le pagine di maggior valore ma non da un punto di vista letterario
StandardIn realtà abbiamo un nascondiglio segreto, talmente segreto che poi ci dimentichiamo che li abbiamo messi lì. Non sto certo parlando di cifre da capogiro, come quegli anziani che tengono la pensione sotto la mattonella e poi quando i figli o i nipoti li chiudono nei ricoveri perché non sono più indipendenti, vendono la casa senza sapere nulla e il proprietario successivo stende il parquet direttamente sul pavimento perché è molto più economico ormai scegliere quel tipo lì anziché fare i lavori e spaccare tutto. Così le svariate migliaia di euro verranno rinvenute magari dopo un secolo, quando saranno altro che fuori corso perché nel frattempo non ci saranno più i soldi, non ci sarà nemmeno più l’economia, magari non ci sarà più nulla.
Per esempio quando ero bambino e l’appartamento in cui vivevamo sembrava uscito da un racconto dell’Italia del dopoguerra, ma solo perché era un appartamento rimasto tale e quale nel corso degli anni, c’era una maestosa cappa sopra i fuochi con un parte murata. Stiamo parlando di una casa di città riscaldata con stufa a carbone, una sola e in cucina, senza boiler, senza telefono, senza vasca da bagno e doccia e bidet, e non è che fossimo zozzi, solo che per lavarci facevamo scaldare sui fuochi o sulla stufa a carbone l’acqua per riempire le tinozze di zinco. Questo nei primi anni settanta, eh, non sto parlando del quarantacinque. E quella maestosa cappa in parte murata un bel giorno si è aperta ed è crollata, lasciando cadere oltre a più di mezzo secolo di fuliggine un sacco di lettere, cartoline, documenti e chissà che altro c’era, nascosto lì chissà quando e da chissà chi. Questo per dire che invece di soldi non ce n’erano – forse qualche francobollo di valore, ma non ricordo – e se anche ce ne fossero stati avrebbero solo avuto importanza da un mero punto di vista numismatico.
Ma nella società del denaro elettronico, contanti come sapete ne circolano meno – questo raccontiamocelo giusto per darci un tono, che ancora ieri l’altro ho visto un tizio all’Esselunga con una felpa di quelle con il marsupio incorporato da cui ha estratto un rotolo di carta moneta di tutti i colori che sarà stato di almeno mille euro – e anche a me scoccia girare con i soldi in tasca. Capita però di fare un bancomat, e quella volta lì lo fai da duecento euro giusto per non rimanere al verde nel giro di una settimana e doverlo rifare, che c’è un limite alle operazioni. Quindi finisce che qualche bigliettone anche noi ci preoccupiamo di occultarlo in casa, da qualche parte.
E per complicare l’attività dei ladruncoli che capita di trovarseli intra moenia, abbiamo scelto di conservarli tra le pagine di un libro impilato tra i numerosi (ma nemmeno tanto) che compongono la nostra dote di cultura famigliare. Uno di quelli da quei titoli così importanti che è quasi sufficiente averlo lì senza nemmeno leggerlo, tanto la sua presenza è in grado di influenzare la vita degli esseri umani che si muovono nel raggio di qualche metro e il giudizio degli ospiti che ti vengono a trovare e la mettono subito sulla competizione inclinando il capo per leggere meglio sul dorso dei volumi. E il ladruncolo, per trovare lì il nostro tesoretto, dovrebbe avere una buona dose di ironia, senso dell’umorismo, acume e nozioni di letteratura.
Così oggi per mettere via una banconota da cinquanta, mentre con mia moglie ci guardavamo con quella faccia come a dirci ma guarda quanto siamo fighi a mettere i contanti proprio qui in mezzo, ho avuto la piacevole sorpresa di trovare, proprio tra i passaggi di quel libro più pregni di importanza, una settantina di euro, frutto probabilmente del precedente prelievo al bancomat tanto che mia moglie, ridendo, ha ammesso di essersi preoccupata del fatto che era rimasta senza soldi un po’ troppo presto rispetto alla media. Il bello di questo tipo di sorprese, oltre al fatto in sé che si tratta di piacevoli imprevisti, è che ti sembra di aver trovato dei soldi e non pensi invece che non è vero, non ti sei arricchito né per l’ammontare del valore né perché si tratta di denaro già considerato come speso. Come tutte le volte che ci troviamo un conguaglio o il rimborso del 730, lei mi dice che sbaglio a gioire perché comunque sono euro che avevamo già pagato e, molto semplicemente, te li stanno restituendo. Sarà, ma io sono contento lo stesso.