La più grave conseguenza della liberalizzazione dell’uso dei social network durante l’orario di lavoro, fenomeno che ha soppiantato la pausa sigaretta e di cui solo apparentemente è più sano, è che Facebook è diventato terreno di scontro tra chi svolge lavori interessanti e invidiati e chi invece purtroppo no. Se osservate le dinamiche di ogni discussione a più voci noterete le considerazioni della gente comune come me e voi e gli interventi contenutistici e argomentativi molto più appropriati e dettagliati degli esperti della materia in questione. D’altronde ora che tutti possono dire la loro nessuno vuole più stare zitto. Di questi tempi, per farvi un esempio, i grandi dibattiti che si consumano tra i nostri profili hanno come oggetto i vaccini e la visita di Trump in Vaticano. Nel primo caso è tutto un contendersi la ragione tra apocalittici e integrati, tra omeo-nemici del Big Pharma e sostenitori della Lorenzin e delle sue campagne campate in aria, in entrambi casi con link e punti di vista generici tanto quando certi medicinali. Non è difficile, quindi, stanare ricercatori e scienziati che mettono a tacere tutti con la loro esposizione dei fatti, un comportamento che porta a vette inarrivabili il rosicamento di chi è relegato a compiti di data-entry o di scribacchino del digital marketing come me che cerca sull’online la sua rivalsa esistenziale della vita di merda condotta sull’offline dicendo la propria opinione di cui non frega un cazzo a nessuno. Per non parlare del recente incontro tra il presidente americano e il delegato del regno dei cieli sulla terra che ha generato una mole di rivisitazioni iconografiche che non si vedeva dai tempi del bunga bunga. Poi arrivano i social media manager dei marchi che contano e che possono permettersi di fare l’ironia del web con qualunque cosa che i buongiornisti qualunque spariscono, seppelliti da un divario in termini di like secondo solo a quello tra questo blog e il video di Occidentali’s Karma. Chi è costretto a pubblicare a proprio nome notizie pallosissime per l’azienda per cui cura la brand awareness sui social non può che farsi del sangue marcio in quantità industriali con queste starlette di zuckerlandia. Poi ci sono le celebrità ma qui si palesa un vero e proprio salto dimensionale, due universi paralleli uno con una densità abitativa da favela sudamericana e popolato da una moltitudine di reietti del web (club di cui sono tesserato dal 2007) l’altro che nessuno di noi reietti del web ha mai visto ma dicono essere una sorta di Olimpo con demiurghi e divinità della musica, dello sport, della politica e dell’anti-politica, della cultura e della sotto-cultura che centellinano le loro emanazioni di sostanza celeste a noi del piano di sotto. Ma qui il discorso è diverso, probabilmente a quel livello non è più un lavoro, è la loro vita, la loro materia primordiale a essere interessante, la lucentezza che percepiamo nel buio degli scantinati in cui trascorriamo otto ore al giorno e va già bene che il wireless – che probabilmente è una loro concessione – prende e permette di sognare un po’ anche a noi.
società
tecniche di emancipazione dalla classe di appartenenza
StandardIl novecento era bello perché la gente se la cavava senza Internet e perché anche se eri figlio di braccianti ma ti spaccavi la schiena sui libri, magari aiutato dal welfare che non si chiamava così ma, con un nome più novecentesco, era assai più presente (perché comunque giravano più soldi), correvi davvero il rischio da grande di laurearti in medicina e di curare poi i tuoi genitori anziani consumati dal lavoro nei campi, in fabbrica, sulle banchine del porto, ripagandoli così degli sforzi che avevano fatto per te e rendendoli orgogliosi dello status sociale raggiunto.
I primi decenni del nuovo secolo, quello che stiamo vivendo da un po’, da questo punto di vista lasciano piuttosto a desiderare. Il cosiddetto “pensiero unico” si è risolto in una specie di monoblocco che si estende in spessore partendo, al piano sotto, da quelli che non tirano alla fine del mese, fino ad arrivare al confine con il piano sopra abitato dai miliardari che hanno i figli che tirano ma di ben altra roba e che si rovinano di figa, di auto cafonissime e di foto con i calciatori nei locali di lusso. In poche parole, tolti i poveracci e i ricchi evasori con i fuoristrada, qui dove un tempo c’erano almeno cinquanta sfumature di persone che se la cavavano dignitosamente, chi più chi meno, oggi c’è un’unica classe media con un potere d’acquisto che quelli che ci osservano dal secolo scorso si piegano in due dalle risate e con l’insolubile problema che tolti i sistemi sui quali non ci si può certo fare affidamento in cui la fortuna fa da protagonista da qui non scappa nessuno. Qui è peggio di Alcatraz.
L’unica speranza è che comunque i nostri figli siano migliori di noi ma in modo differente. Non potranno essere più benestanti perché i soldi saranno finiti e, ancora prima, i mestieri onesti che li generano. Non potranno essere più eruditi perché per loro conterà sapere dove trovare le informazioni e non impararle. Potranno però fare a meno dei pregiudizi, delle categorie, della paura e dei confini. Superare le lingue, la storia, la geografia e l’economia. Mescolare la musica finalmente con l’architettura, le parole con i colori, la danza con la filosofia, il gioco con l’educazione. Magari anche a studiare e lavorare solo quando serve per stare meglio con se stessi o con gli altri, mica per mangiare e mettersi in forze per lavorare o studiare di nuovo, il giorno dopo. Non so se si stia andando in questa direzione. Provate però a parlarne con chi vi circonda, sono certo che converrete che a essere migliori di noi, che abitiamo questi tempi, ci vuole davvero poco. O, se volete, parlo solo per me.
ecco cosa accadrebbe se Google Streetview fosse fatto di parole e non di foto panoramiche
StandardProprio davanti a Urban Fitness c’è un chiosco che vende frittelle calde. La palestra apre all’alba quando il chiosco è ancora chiuso, gli orari che rispetta sono infatti quelli milanesi. Alle sette c’è già gente che vuole mantenersi in forma per andare in ufficio con quella sensazione della fatica la mattina presto e poi la doccia rovente. Una sequenza che piace anche me ma che metto in pratica solo nei giorni festivi quando vado a correre, solo che poi dopo pranzo mi metto sul divano con un documentario di sottofondo e mi sparo almeno una pennichella di un’ora. Ecco perché in ufficio non credo che ce la farei a tirare fino a sera senza recuperare la fatica fatta prima di mettermi al lavoro. C’è un altro fattore. Dopo la palestra (o la piscina) alle sette del mattino e la doccia come minimo vi meritate una colazione all’inglese o comunque roba più soddisfacente di cornetto e cappuccio. E infatti è un vero peccato che il chiosco che a quanto dice l’insegna scritta a mano vende frittelle calde proprio davanti a Urban Fitness sia chiuso, a quell’ora dell’alba, perché passandoci davanti intravedo un po’ di clienti all’opera. Per me sarebbe un problema uscire da una palestra e trovarmi in prossimità di frittelle all’ora della colazione. Meno male che poco più avanti ci sono i portici che ospitano decine di homeless che trascorrono la notte lì, e non sembrano attratti né dal chiosco delle frittelle né dalla palestra che, vista da fuori, sembra un posto molto esclusivo. Ce ne sono alcuni messi davvero male. Altri invece sembrano sistemati dignitosamente, con delle coperte pulite rimboccate addirittura sotto il fatiscente materassino che li separa dal fondo. Li accomunano le vetrine delle filiali di multinazionali o banche sotto le quali si sono messi ordinatamente in fila per dormire. Uno che sa l’inglese ha lasciato un bicchiere con un biglietto con su scritto, in inglese appunto, aiutatemi a tornare a casa. Il bicchiere manco a dirlo è vuoto, resta un mistero se prima era pieno e qualcuno, approfittando della notte, ha fatto sparire l’elemosina. Via Pisani a Milano raccoglie come vedete più dimensioni, anche da un punto di vista architettonico, tutto ciò ne fa la mia via preferita e non sono il solo: lo spartitraffico tra le due corsie è un set perfetto per le foto di moda perché lo scenario riassume in sé tutte le contraddizioni di questa città.
state al vostro posto, eviterete così di rimanere delusi
StandardCi guardiamo per assicurarci chi sia davvero il prossimo. Anche se tutti abbiamo ben presente l’ordine di ingresso un eccesso di cortesia non guasta ma ci sarebbe da ridere se qualcuno, a quel punto, rivendicasse il proprio diritto di passare prima degli altri senza meritarselo. Sotto a chi tocca però è un modo di dire sopravvalutato perché, come dice una certa corrente di pensiero, mica siamo noi a scegliere ma siamo noi a essere scelti dalle cose, dalle persone, dagli eventi belli e quelli brutti. La metafora giusta della vita è quella dello speed dating. Hai una manciata di secondi per convincere chi hai davanti che, anche se non sei perfetto, sei comunque perfetto per lui o lei (era pure una canzone di Grace Jones, pensate un po’) ed è inutile che ti figuri che quella con i capelli rossi che fa l’architetto è la tipa giusta per te. Lei ha già espresso la sua preferenza per un altro e tu ti devi accontentare di quella così-così perché non vuoi ammettere che anche tu, agli occhi degli altri, sei uno così-così. E non è detto che non abbia fatto la differenza la categoria in cui ti collochi rispetto a un determinato trend. La sapete, vero, la ripartizione dei meriti in relazione a una qualsiasi moda? Ci sono quelli che la lanciano e che però sono in un mondo tutto loro, inarrivabile, un olimpo di personalità alfa al quale si accede o per chiamata diretta o per clientelismo o perché sei un figo vero o perché hai procurato piacere a chi ha le chiavi o perché ti hanno regalato i biglietti o perché c’era già tuo padre e, prima, il padre di tuo padre. Poi ci sono i precursori che sono i cani da tartufo di quello che sarà di moda. Aderiscono a uno di questi fenomeni socio-culturali per primi e appena ne percepiscono la diffusione popolare hanno già abbandonato la nave. Ci sono poi i modaioli che sono quelli che partecipano quando il fenomeno è di massa. Ci sono quindi gli sfigati che se ne accorgono solo alla fine e che, attenzione, è diverso da chi invece lo riporta in auge in tempi non sospetti e non mi riferisco necessariamente all’abbigliamento. Questa teoria vale per tutto e ve lo dimostrerò con un banale esempio sulla musica che è comunque il mio cavallo di battaglia. Alberto, che è l’ingegnere chitarrista che applica appunto il suo essere ingegnere anche al suo essere chitarrista, quando ormai il grunge non se lo filava più nessuno voleva mettere su una cover band di pezzi grunge. Per iniziare aveva chiesto a quelli del suo gruppo di prepararsi “Black hole sun” dei Soundgarden ma già alla prima prova avevano capito tutti che la cosa non poteva funzionare. Allora Alberto, come se fosse una cosa normale, aveva deciso che si sarebbe suonato acid jazz che, in quanto a obsolescenza, non era da meno del sound di Seattle. Ecco, se Alberto ci riprovasse ora verrebbe percepito anziché come uno che arriva tardi come un appassionato di modernariato o di cose retro, non so se mi sono spiegato. Da notare che quello che Alberto aveva contattato per mettersi dietro alla batteria era quel tizio che quando era uscita “Blue monday” dei New Order era rimasto interdetto dall’uso spregiudicato della cassa della batteria elettronica all’inizio. Ma come?, diceva, i sedicesimi con la cassa non si possono mica suonare a meno di non usare il doppio pedale e i New Order non fanno certo metal. E tu vagli a spiegare che la drum machine non è che per forza deve essere programmata seguendo un’esecuzione umana. Se no, che gusto ci sarebbe a utilizzare strumenti musicali elettronici?
non me la raccontate giusta
StandardInutilmente affaticati, d’altronde nessuno si sognerebbe mai di ammettere che il lavoro può essere annoverato tra i sistemi dell’annullamento individuale alla pari dell’alcol, del colesterolo e delle droghe pesanti, troviamo modalità light per illuderci dell’esistenza di realtà parallele di trasgressione, proprio oggi in cui qualunque novità esercitata compulsivamente alla lunga rompe i maroni e quindi uno stimolo verso un’evasione definitiva dev’essere proprio una roba che ci lascia senza parole. Abbiamo visto tutto, no? La frequentazione estrema con i sodali nei social network, l’accessibilità interdisciplinare dei contenuti in rete e persino la pornografia gratis anche all’ora di pranzo, per dire. Credo sia per questo che comunque ci viene voglia di raccontare i sogni, anche se è un po’ la morte dello storytelling. Una dimensione in cui tutto è possibile e ci condiziona a tal punto da credere alle teorie più assurde. Ho sentito persino dire che chi leggiamo essersi suicidato prima di compiere il gesto desse l’impressione ai parenti più vicini di essere morto già altre volte e di sapere quello che faceva. Io mi sfogavo con cose più banali, per esempio, come scorrere il cursore delle onde medie per captare le voci dall’oltretomba o pensare intensamente che mi asciugassero i brufoli sulla fronte in modo da tornare a scuola con una faccia meno soggetta all’ilarità dei pari. Nulla si verificava, manco a dirlo. Ci sono desideri a raggio più corto e chi ha la mentalità imprenditoriale riesce persino a tirarci su un bel gruzzoletto. Sentite qui: una mia amica vorrebbe mettere su un ristorantino in cui servire solo piatti che si intonano con i colori dei vestiti degli avventori. Mica male, vero? Ti presenti con una camicetta bordò e ti fai servire un risotto al radicchio, il pullover marron per un primo con i funghi o il gulash, io ne vado matto. Arriva il cameriere e mette in tavola persino il pane bianco o di segale a seconda degli abiti che indossi e poi ti consiglia. Un posto in cui i nude look sono vietatissimi, ovviamente. Ma alla fine nessuno ci prova veramente, tutte queste velleità sono post it appiccicati con lo sputo, come si dice dalle mie parti per indicare un qualcosa destinato a cadere nell’oblio con una metafora che fa un po’ schifo. Ci restano convinzioni quotidiane più alla nostra portata, come l’illusione che gli alimenti industriali possano essere conservati fuori dalla loro confezione in contenitori generici alla pari di quelli che preparavano le nonne. Ma quanto cazzo si cucinava un tempo? Eliminare ogni traccia di modernità dalla nostra cucina, uniformando la disposizione dei prodotti acquistati al 30% di sconto per tipologia e non per brand, ci trasporta in una dimensione alla quale non apparteniamo più e in cui la soddisfazione del riciclo preventivo di involucri e packaging appaga la coscienza al massimo fino al successivo ritiro programmato dell’immondizia.
spazio 1999
StandardTutti si chiedono come sarà la vita nel duemila. Quali attori saranno sulla cresta dell’onda e se ci nutriremo di pillole e di cibi liofilizzati come vaticinano i registi della fantascienza. Se ci saranno alieni a insegnarci come eleggere i nostri rappresentanti o se sarà giusto o no espellere quelli che non stanno ai patti nei movimenti di riscossa popolare, magari con sistemi inutilmente innovativi. Sta di fatto che nessuno crede che le grandi questioni che affliggono l’umanità potranno essere risolte. Non aspettatevi quindi che il trentun dicembre del novantanove sarà l’ultimo giorno utile per le miserie, le lotte fratricide e le guerre, i disastri ambientali, gli incidenti sul lavoro, il terrorismo, la maleducazione o il cattivo gusto di certa gente. I nostri antenati, all’alba del ventesimo secolo, anche loro erano pieni di speranze e non potevano certo immaginare che stesse per cominciare un periodo così contraddittorio, denso di grandi scoperte ma anche di tragedie. Il microchip e l’olocausto.
Ciascuno di noi però spera che il solo fatto che esista un futuro, almeno questo auguriamocelo, permetta di riporre nel domani ogni desiderio di rivalsa o di progresso, perché è così che funziona. Le cose, come le lancette, vanno per forza in avanti e nessuno sarebbe disposto a rinunciare a conquiste quali la libertà dalle schiavitù vere o metaforiche, il presidenzialismo e il sistema democratico o la sanità pubblica solo per un capriccio, per una moda, per un cambiamento fine a se stesso.
Proviamo a immaginare un giorno qualsiasi del duemila, tiriamo a sorte aprendo un libro dove capita. Sommando il numero delle pagine con lo stesso meccanismo con cui certe prof di matematica alla fine simulano la casualità per interrogare sempre gli stessi scansafatiche capelloni, ecco che è venuto l’undici maggio duemila e tredici. Facciamo un gioco. Dove vi immaginate l’undici maggio duemila e tredici? Come sarete e con chi sarete in quello che sarà un giorno qualunque, come oggi e come tutti gli altri undici maggi della storia (lo so che i mesi non si mettono al plurale ma lasciatemi sperimentare un po’ di avanguardie che forse sono anticipi dei trend del duemila) da quando le cose funzionano come sappiamo, con il sole che sorge, la terra che ruota e così via.
Ecco, io mi immagino quel giorno, seduto sugli spalti della palestra di una scuola elementare, c’è mia figlia – che nascerà probabilmente nel 2004 – che gioca un torneo di pallavolo, è ancora piccola e la formula è quella dei più incontri tra formazioni di tre giocatrici. So che devo prepararmi psicologicamente, tra tempi di attesa e gioco l’unica forza al trovare interesse nello spettacolo è l’abnegazione genitoriale, questo non lo dico solo io.
Sono seduto sugli spalti e non so se essere più sbigottito dalle scarpe indossate dalle persone che sono intorno a me o dal fatto che il genere umano abbia trovato un sistema elettronico attraverso il quale incanalare parte della sua rabbia ignorante e dargli voce, tanto che giornalisti e intellettuali vi sfuggono come una volta gli aristocratici si tenevano alla larga dalle bettole e dalle piazze. Questo è ciò che dicono i quotidiani di quel giorno che deve ancora venire.
Ho con me un coso a cui, dal passato, chiaramente non riesco a dare un nome né a descriverne nel dettaglio la composizione ma so che, con quel coso, posso fare delle fotografie e condividerle all’istante con migliaia di persone. Così per evitare di insultare l’allenatore e prendermela con il sistema che ha organizzato in modo pessimo quel mini-torneo a dimostrazione che la cura per tutto ciò che riguarda i bambini è latente in ogni periodo storico – un tempo a sei anni si costringevano i minori a scavare in miniera, oggi chi è preposto all’educazione dei tuoi figli pur pagato si ricorda a malapena il loro nome – ho il presentimento che con quel coso mi metterò a fare foto alle scarpe che le mamme delle compagne e delle avversarie della squadra di mia figlia indossano e le pubblicherò su una specie di bacheca virtuale, alla mercé di una comunità di stronzi come il sottoscritto che vedono la deriva sociale soprattutto negli inutili ghirigori tatuati che le stesse mamme sfoggiano sui piedi. Ma chissà, forse l’undici maggio duemila e tredici non sarà così, noi quattro gatti del PD saremo su Marte a misurare le dinamiche sociali degli extraterrestri – che ci sembreranno tamarri tanto quanto gli italiani – con la nostra presunta superiorità morale ed estetica, che alla lunga però stufa soprattutto in assenza di gravità.