due toni sotto

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Su Tuttolibri de La Stampa di oggi c’è un articolo di Giuseppe Culicchia su “Rude Boy”, libro autobiografico del vocalist degli Specials Neville Staple scritto a quattro mani con il giornalista Tony McMahon. Mentre il volume sembra essere interessante, trovo discutibile una parte della collocazione storica di Culicchia, impeccabile nei riferimenti cinematografici con This is England e The Iron Lady, ma che cade nell’errore finale di infilare tutto alla rinfusa nel calderone degli anni ottanta, quando invece già nei primissimi eighties gli Specials avevano già dato e detto tutto e tutti i riferimenti che Culicchia cita, Clash compresi, fanno parte di una stagione precedente. I due  principali album della band 2Tone più blasonata  – più o meno omonimi – sono del 79 e dell’80 e furono pubblicati a compimento della loro attività nei tardi anni 70, e poco dopo l’uscita di More Specials i componenti del gruppo si erano già dispersi in progetti paralleli. Non so che idea ne abbiano quelli tutti giù per terra, ma gli Specials con gli anni 80 come li intendiamo noi c’entrano poco o nulla, e in quelli da cui Manuel Agnelli non è mai uscito vivo e che Culicchia cita in chiusura del suo pezzo lo ska era già ampiamente fuori moda. Qui comunque trovate il pdf.

il levare è un valore aggiunto

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Voi che ascoltate LE rime sparse E il suono (prof perdonami l’uso improprio dei rerum vulgarium fragmenta) e non avete mai tenuto in mano uno strumento musicale in vita vostra se non per un’esecuzione corale per flauto dolce di “Fra’ Martino”, volta al conseguimento della sufficienza in musica in seconda media. A voi, pronti a sputare sentenze privi e privati dell’esperienza empirica dell’esercitare l’esecuzione in gruppo di canzoni popolari. Voi, vi diffido dal pronunziare qualsiasi giudizio sulla presunta pallosità di essere uno strumentista generico e militare in un gruppo dedito ai generi originari della Giamaica, reggae-rock steady-ska-dub. Perché non esiste luogo più comune da sfatare. Tutt’altro.

La premessa d’obbligo è che per suonare un genere qualunque devi esserne convinto, chiaro. E la musica in levare, dai più ritenuta monotona, necessita di motivazioni forti e di dedizione, questo sì, ma nè più nè meno di altri generi affini per essere costruiti su canoni specifici, per esempio il blues o la musica irlandese. Quindi, se vuoi suonare per soldi o per mostrare a te stesso e ad altri la tua raffinatezza o i tuoi virtuosismi, no way. Fai dell’altro, fatti crescere i capelli (se sei ancora in tempo) e metti su una tribute band di Yngwie Malmsteen. Il reggae e i suoi derivati sono finalizzati esclusivamente alla musica d’insieme e al suo ascolto anche dall’interno, l’abilità sta nell’inserirsi e nell’astenersi nell’esecuzione in modo da alternare i volumi di suono, è tutto un metti e leva, leva e metti. I tempi di batteria reggae sono tutt’altro che facili, non c’è metodo De Piscopo che tenga, suonare lento e con la cassa sul due e sul quattro non è nella nostra cultura. E sicuramente, per un profano, chitarristi e tastieristi devono farsi due balle così a ripetere in loop la stessa ritmica per tutta la durata del pezzo. Per non parlare del basso, la cui linea scorre immutata a bordone di  tutto. Bisogna essere amanti del genere, ripeto.

Ma questo metro di giudizio non spiega la qualità di alcuni brani storici, per non parlare dell’evoluzione del reggae, gli ibridi che con il levare sono nati e ciò che l’elettronica ha permesso, dando vita a un universo di sottogeneri. E poi, se siete musicisti, vi impongono un pezzo reggae e proprio non ce la fate, sono sicuro che qualcuno del gruppo ha con sé qualcosa che può aiutarvi a entrare in sintonia con le vibrazioni rasta. Che, come dice il profeta, sono positive.