un chitarrista povero è comunque più fortunato di un tastierista al verde

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Ho visto il video di un nuovo singolo dei Simple Minds e l’effetto che fa Jim Kerr è grosso modo lo stesso di Roby Facchinetti con la tinta, anche se ci ballano ben quattordici anni di differenza, ma mentre i Pooh sono comunque sempre stati un gruppo da gente che si sente vecchia dentro, il quintetto new wave scozzese no. E se eravate a conoscenza del tour live 5×5 che hanno portato in giro per l’Europa un paio d’anni fa converrete con me che suonare cinque brani per ognuno dei loro cinque primi dischi non è certo roba da casa di riposo. Non so se avete presente Life in a Day, Real to Real Cacophony, Empires and Dance, Sons and Fascination/Sister Feelings Call e New Gold Dream (81, 82, 83, 84) che dal 1979 al 1982 hanno completato con suoni mai sentiti il vuoto del post-punk new wave dark disponibile ai tempi. Comunque ho scoperto solo ieri che di quel tour è stato pubblicato un doppio album live che è superlativo, piuttosto in linea con le atmosfere originali e tutt’altro che pacchiano e sfarzoso, come invece ha detto quel mio ex per fortuna collega a proposito della Cappella Sistina, pensate un po’ con mi tocca condividere la mia vita professionale. La grave lacuna del disco e della tournée in questione è l’assenza di Mike McNeil alle tastiere, storico fondatore della formazione, ben rimpiazzato da un valente turnista ma rimpianta piattaforma elettronica del gruppo nonché fonte di frustrazione ai tempi d’oro degli emuli di quei suoni come il sottoscritto. Riprodurre i timbri dei loro brani degli esordi era tutt’altro che semplice con una strumentazione approssimativa come la mia, per esempio, e alla fine un po’ per colpa dei registri di strings troppo violinosi o dei synth eccessivamente piatti le loro cover venivano di merda ed era meglio soprassedere o passare ad altro. Non vorrei banalizzare ma se sei un chitarrista virtuoso con qualunque sei corde elettrificata fai la tua sporca figura. Per chi suona le tastiere il suono impatta all’ottanta per cento sulla resa complessiva, e puoi essere anche Chick Corea ma ti prendi dei fischi dal pubblico raffinato dell’art rock. Invece dicevamo del nuovo video dei Simple Minds che, obiettivamente, è una canzone che fa cagarone forte, pur mantenendo una sua dignità che si vede che dietro c’è una band che ha fatto la storia. Voglio dire, questo pezzo qui sotto è del 1978 e mi pare che anche solo per la maggior parte di ciò che abbiamo ascoltato e di ciò che preferiamo ora ai Simple Minds gli si debba un sincero e forte tributo artistico e umano.

senza voce

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Ogni tanto i gruppi te li piazzano nella tracklist del loro ultimo album e un po’ ti trovi spiazzato le prime volte perché non capisci il senso di inserire un brano senza la voce quando il cantante spesso è tutto in una band. Mi riferisco ai pezzi strumentali. A volte ti lasciano quel sapore agrodolce di un’esperienza interrotta, l’impressione è quella che manchi qualcosa o addirittura si tratti di riempitivi per completare lo spazio a disposizione soprattutto un tempo, quando era necessario riempire i solchi del vinile. Poi gli strumentali sono diventati vera materia prima per i campionatori e i produttori di musica elettronica e rap, si potevano sfruttare parti già pronte all’uso per digitalizzarle, scomporle e ricicciarle per nuove canzoni. Ma gli originali i gruppi poi non li suonavano nemmeno dal vivo, o magari li utilizzavano come sigla di apertura. Ce ne sono molti ed è un’impresa ricordarli tutti. A me piace molto questo “Someone up there likes you” dei Simple Minds tratto da “New gold dream”. Atmosfere da pioggia in macchina, con i finestrini chiusi naturalmente, un bel giro di basso di bordone e poi un cambio-refrain per riempirsi di beatitudine e crogiolarsi in malinconia ad libitum.

un segno dei tempi

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Facile il gioco di parole per l’anniversario che si celebra domani, ben 25 anni dall’uscita dell’omonimo doppio LP di Prince, omonimo del titolo di questo post. Non sono il solo a dire che si tratta del migliore album di Prince, altri esagerando un po’ lo hanno eletto a miglior disco della decade, non scherziamo ma comunque si piazza in una posizione piuttosto alta. Il singolo che dà nome all’album è sicuramente un pezzo che mantiene inalterata la sua attualità e lo trovate qui sotto, seguito da una cover dei Simple Minds già in caduta libera che riportiamo alla luce dopo anni di arbitrario oscurantismo. In effetti non regge il confronto. Che tempi.

un tour semplice semplice

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Ne parlavo giusto qualche giorno fa, ed ecco che i Simple Minds tornano con un tour, una formula piuttosto originale e succulenta per i palati vintage in cui proporranno cinque brani per ognuno dei primi cinque album (chiamato appunto 5×5 live), ovvero Life in a day, Empires and dance, Real to real cacophony, Sons and fascination e Sister feelings call, a meno che non intendano questi ultimi due come unico album doppio e includano anche New gold dream nel quintetto base. L’unica esperienza di reunion viste dal vivo che ho avuto è quella dei Police a Torino qualche anno fa, e malgrado le perplessità di partenza devo ammettere che il concerto è stato superlativo. Ma stiamo parlando di una band che può permettersi di iniziare una esibizione live con un pezzo come Message in a bottle, immaginate il resto. Dubito che Jim Kerr sia in forma come Sting, e devo ancora sincerarmi che Mick MacNeil sia rientrato in formazione dietro ai synth. Insomma, potrebbe avere anche un senso, o no?

non ci siamo dimenticati di voi, no no no no

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Ora vi dico l’esatto punto in cui ho pensato di non proseguire nella lettura, anche se interrompere un libro a metà lo considero un delitto, voglio dire, sarebbe come ammettere di avere perso tutto il tempo prima per arrivare fino lì. Il libro in questione è uno di quelli considerati un must letterario, diciamo un “Achtung Baby” della narrativa, dove gli U2 sono Nick Hornby e il titolo è “Alta fedeltà”, un romanzo gradevole quanto sopravvalutato, di quelli così trasversali che se non l’hai letto rischi sempre di passare da illetterato se sei con una persona colta, mainstream se sei con un alternativo, babbione se stai parlando con uno molto trendy. Non hai letto Alta fedeltà, ti chiedono sgomenti. Ma almeno hai visto il film? Beh, molti anni fa lo lessi anche io. E il paragone con gli U2 deriva dal fatto che raramente si sale su un’auto e il proprietario non ha nel porta cd almeno un album degli U2, fateci caso. Ma tornando al romanzo in questione, vi dicevo che a un certo punto ho pensato di mollarlo lì perché ho raccolto l’ardita provocazione di una delle sue numerose classifiche, e se siete assidui frequentatori di questo spazio virtuale potete indovinare a quale mi riferisco.

Il numero uno dei primi cinque gruppi o musicisti che bisognerebbe fucilare il giorno in cui arrivasse la rivoluzione musicale è occupato dai Simple Minds. Per inciso, prima di addentrarmi nel nocciolo della questione: se non erro, al terzo posto compaiono proprio Bono Vox e soci e al quinto i Genesis, anche se secondo me Hornby si riferisce ai Genesis senza Gabriel, anzi probabilmente non sa nemmeno che Gabriel cantava nei Genesis, altrimenti avrebbe fatto un doveroso distinguo. Ma, tornando al vertice, anche per i Simple Minds occorre un doveroso distinguo, il cui spartiacque consiste nella defezione del bassista Derek Forbes dopo il singolone che consacrò il gruppo scozzese come band da Live Aid, e mi riferisco a “Don’t you”. Ma vogliamo considerare la vita precedente dei Simple Minds? È il caso di snocciolare uno per uno tutti gli album usciti prima di New gold dream e decantarne le virtù? Vogliamo parlare di Real to real cacophony e di Empire and dance? Certo, l’ampolloso timbro di Jim Kerr è piuttosto stridente con le voci che oggi vanno per la maggiore, posso capire che la loro musica possa essere scambiata come un richiamo dall’oltretomba. Figuriamoci ai tempi del libro di Hornby, in piena era grungia. Ma la discografia tra i 70 e gli 80 dei Simple Minds è di tutto rispetto, algida e scura come il post punk di quei tempi ma suonata molto meglio, intendo dal punto di vista tecnico rispetto a molti gruppi dell’epoca. E se al primo posto della classifica dei dischi preferiti Hornby mette Marvin Gaye, la loro antitesi estetica, allora tutto torna, perché i Simple Minds sono quelli qui sotto. Diffidate delle imitazioni.