non sarà una laurea in medicina a preservarti dal destino che attende tutti quanti

Standard

“Dove è scritto che il mondo dovrebbe essere giusto?” è il titolo a non so quante colonne di un articolo di una rivista di categoria abbandonata aperta da qualcuno, su un tavolo della sala d’aspetto. Un paziente in giacca da camera e pantofole gira il cucchiaino nel caffè del distributore automatico e ha già la risposta che non è “È scritto proprio lì su quella pagina che ho davanti”, quindi dà l’ultimo tiro alla sigaretta e schiaccia il mozzicone nel posacenere da pavimento, avete presente quelli che usavano una volta, con il pulsante premendo il quale si apriva una voragine che inghiottiva tutto? Una metafora della morte? Ad ogni modo, per evitare multe salate mettiamo subito le cose in chiaro: è il 1988 e ci sono locali pubblici in cui è ancora tollerato che la gente impesti l’aria con le sigarette, persino in ospedale, dove anzi concentrare la dipendenza da tabacco o i comuni momenti di relax in un unico ambiente è visto come una soluzione efficace per evitare conseguenze peggiori e mantenere un minimo di decoro nelle sale di degenza e negli altri spazi di transito.

L’articolo prosegue con un sottotitolo, una sorta di riflessione che suscita una discussione in una giovanissima coppia lì presente. L’autore, un filosofo settantenne, sostiene che, a giudicare dalla velocità con cui la sua vita è arrivata fino a quel punto, è facile immaginare quanto possano essere a portata di mano per noi cose come i longobardi o gli antichi romani.

Anche i due (mi riferisco alla coppia di prima) ci danno dentro con le Marlboro. Lei è la paziente ed è lì per un piccolo intervento di ordinaria manutenzione, lui è felice di starle accanto nella veste inusuale della degenza, “ma caro mio”, gli dice una signora dai capelli bianchissimi che, in attesa del primario, si gusta la sua Pack alla menta, “preparati perché tra le variabili della buona e della cattiva sorte, ammesso che confermiate col tempo la reciproca scelta come decisiva, c’è anche quella con l’esito più sfavorevole”.

E i presupposti non sembrano dei migliori. Nei pochi istanti in cui il ragazzo poggia la gamba su un tavolino, più per distrazione e per stirarsi che per ribellarsi alle convenzioni, il primario arriva in reparto per le visite, nota il gesto di maleducazione, corre a chiamare la caposala ed entrambi ritornano per ricordare ai due giovani l’ABC di come ci si comporta nel tempio di Ippocrate. Della sfuriata, il paziente in giacca da camera e la signora dai capelli bianchissimi gioiscono perché, a differenza della tesi dell’articolo da cui è nato questo piccolo aneddoto, tutto sommato il mondo è stato più che giusto: sono stati colti in fallo e puniti due giovani, che già l’aver così pochi anni in due è un affronto al modo in cui girano le cose.

fumo solo per darmi arie nei polmoni

Standard

Giorgio compra le John Player Special solo perché hanno il pacchetto nero e non stona quando lo estrae dalla tasca interna della giacca nera. È chiaro che non si tratta di una questione di brand. Quello, come altri, campeggia su certe auto da Formula Uno e lo si ritrova come sponsor di manifestazioni che lo snobismo di chi ascolta i Bauhaus considera su un altro pianeta. Io, per dire, della stessa marca ho un ombrello e uno di quei fazzoletti che la moda del mille-novecento-settanta-boh imponeva annodati stretti al collo. Per dire, ne ho uno uguale rosso della Coca Cola. La chiave di questa scelta anti-salutista non dev’essere nemmeno individuata nel tabacco. Le John Player Special fanno oggettivamente schifo ma nessuno, così schiavo degli abbinamenti cromatici, rinuncerebbe mai a far notare agli altri l’attenzione che ha posto anche in un dettaglio come quello.

Le Winston con il pacchetto morbido vengono invece da quella canzone dei Genesis in cui cigarettes fa rima con majorettes, ma diciamocelo, questa è più difficile che gli altri la colgano soprattutto ora in cui intanto Peter Gabriel si fa i fatti suoi e loro, rimasti in tre, si dedicano a certe ballate melense che non sto a raccontarvi. Ma non è solo la musica a determinare la marca di una potenziale condanna a morte, anche se il tempo degli annunci funebri sulla confezione è ancora lontano e in tv, a partire da Tribuna Politica per arrivare a qualsiasi intervista al TG, tutti si fanno riprendere con la sigaretta accesa in mano.

C’è pieno di amici che fumano MS o le Bis o le Diana perché costano sensibilmente meno, e da questo particolare capisci che non è più un vezzo per sembrare più grandi ma siamo già nell’ambito del vizio che poi non ti scolli più di dosso, figurati dai bronchi. Comunque tranquilli, alle Nazionali che rappresentano il fondo e che fumano solo i muratori nessuno c’è ancora arrivato. Le ragazze preferiscono invece quelle sottili come le Fine 120 o le Cartier, d’altronde sono state studiate apposta per loro e tutta la questione del diametro genera non poche volgari ilarità e doppi sensi nelle battute tra i maschi. Ci sono quelle che invece ostentano le sigarette alla menta, le Pack e le Marlboro verdi che si trovano solo in Costa Azzurra e si acquistano quando vanno in treno nelle discoteche di Juan Les Pins che mettono new wave. Io ho provato a fumarle ma il contrasto tra respiro caldo e sapore rinfrescante mi ha fatto vomitare al terzo o quarto tiro.

Le Camel e le Lucky Strike le comprano solo quelli che vogliono fare i duri, i metallari e quelli che fumano poche sigarette e tante canne, ma non vi nascondo che il logo delle Lucky che ricorda il bersaglio tricolore dei Mods è quello che mi piace di più. Infine c’è la nicchia che si gonfia la bocca in tabaccherie di cose come le Dunhill rosse o le Peter Stuyvesant solo perché si sente la pubblicità alla radio con quel jingle che non te lo togli più dalla testa. Fine della storia.

Oggi, e parlo dell’oggi vero, del 2015 insomma, chi fuma è trattato – giustamente o no – come un appestato, vedo ragazzetti in terza media con la sigaretta in bocca mentre vanno a scuola e spero davvero che mia figlia non prenda mai il vizio. È sempre più diffusa l’usanza di usare il tabacco sfuso, chi la segue ti dice perché così risparmia e fuma di meno per via dello sbattimento di farsi la sigaretta anziché trovarla pronta. Non so, qualche anno fa in un brevissimo rigurgito di ripresa del vizio facevo anche io così, e devo dire che, senza filtro, è l’unico modo per gustarsi appieno il tabacco, se ha senso farlo. Perché anche io ho iniziato in terza media – era l’estate del 79 – e ho smesso nel 94 durante una manifestazione contro il primo governo Berlusconi. Camminavo tra le bandiere rosse e ho preso il pacchetto ancora pieno e l’ho gettato via. C’erano già tante cose che facevano male al morale che ho deciso che, almeno il corpo, era meglio preservarlo sano.

diritto di smog

Standard

Si fumava in camera da letto, anche prima di addormentarsi, magari in inverno e con la finestra chiusa. Qualche pagina di libro o la recensione di un disco sulla rivista preferita accompagnata dall’ultima sigaretta del giorno, da spegnere nel posacenere a fianco con la réclame di una nota marca di pastis e il mozzicone che rimaneva lì, molto spesso insieme agli altri, fino alla mattina dopo, come minimo. Così ci si coricava nella nebbia, persino le tende si impregnavano delle esalazioni del tabacco spesso irrimediabilmente, tanto al primo lavaggio si decideva per cambiarle del tutto, non sempre il giallo nicotina si abbina con il resto dei mobili e il colore delle pareti. Si collezionavano addirittura pacchetti di sigarette vuoti con i quali si creavano le più ardite costruzioni da esporre in bella mostra. Altre volte li si svuotavano alla ricerca di rimasugli di tabacco nei momenti in cui di sigarette in casa non ce n’era nemmeno una. Sembra una pratica inutile e ridicola, ma se replicata su centinaia di confezioni vuote alla fine qualche tiro ci scappava sempre.

E si fumava in bagno, leggendo il giornale, facile indovinare facendo cosa, buttando il mozzicone con lo sciacquone e ogni volta ricordando la leggenda metropolitana dello stolto che aveva fatto lo stesso gettando prima batuffoli di cotone imbevuti di alcol. Si fumava nei club e ai concerti, ed è per questo che era sempre consigliato un abbigliamento da mettere a lavare poi il giorno successivo. La puzza di fumo che impregnava i vestiti era proverbiale anche sui treni quando addirittura la percentuale di spazi per i fumatori e i non fumatori era più o meno uguale, tanto che anche i pendolari non fumatori puzzavano tanto quanto gli altri. Ci si accendeva la prima sigaretta del primo pacchetto sul locale delle sette e trenta, il secondo lo si inaugurava a metà pomeriggio, aspettando il treno del ritorno dopo l’ultima lezione in facoltà. Ma si fumava anche in ufficio, ambienti in cui il nervosismo portava a un consumo in eccesso e, in prossimità dei computer usati dalle fumatrici, la quota rosa di cicche spente si distingueva per il rossetto sul filtro. C’erano anche aziende in cui qualcuno si rollava sigarette “rinforzate”, nella mia carriera ho collaborato con almeno un paio.

Tra gli ambienti privati uno dei luoghi preferiti dai tabagisti era senz’altro l’abitacolo dell’automobile, e non c’era arbre magique che tenesse. C’erano quelli che riempivano di mozziconi tutti gli spazi adibiti, ricordo addirittura un tizio che si rifiutò di spostare l’auto di un mio amico che gli ostruiva il parcheggio. Entrò nel bar e disse che l’avrebbe spostata lui senza disturbarlo, ma aveva aperto la portiera e aveva visto la montagna di sigarette spente e dal forte odore di fumo, lui che non fumava, si era sentito male. E anche se oggi ci sembra un’abitudine assurda, si fumava e tanto anche nei bar e nei ristoranti, dopo il caffè o a metà pasto e fa sorridere che se non ci fossero stati incendi e tragedie ci sarebbe anche sembrato normale fumare senza sosta al cinema e a teatro. Si faceva colazione tutti insieme con il cappuccio e il cornetto al tavolino, e poi in molti pronti a suggellare il rito del completamento dell’opera, l’ingrediente segreto a sancire la digestione parziale o totale. Me ne offri una, hai d’accendere, queste erano le cose che si sentiva dire più spesso. Ma seduto a fianco c’era sempre chi manifestava insofferenza più o meno palesemente, e il fumatore poteva anche indispettirsi – quella era la vera cultura antiproibizionista – e  rispondere che non era vietato e che comunque esercitava il suo diritto di smog. Diritto di smog un cazzo.

digli di smettere

Standard

Fa sorridere rivedere interviste o talk show di qualche anno fa in tv, durante le quali l’intervistatore e l’intervistato si scambiano domande e risposte con la sigaretta accesa in mano. Ormai l’entrare in luoghi pubblici e non sentire puzza di fumo è la normalità, ma l’ostracismo verso i tabagisti dai vagoni ferroviari, club, sale d’aspetto e uffici è storia recente. E quello che sembra un comportamento normale, il risparmiarsi il cambio forzato quotidiano di abiti a causa della convivenza o la semplice vicinanza di fumatori accaniti, un tempo era tutt’altro che scontato. Sembra incredibile aver passato secoli in cui si è permesso a chi non aveva il vizio, se non a coloro per i quali era pure dannoso, di subire le esalazioni di una combustione. E non solo rientrando a notte fonda dopo un concerto, durante il quale il tabacco talvolta mescolato ad altro saturavano l’ambiente chiuso e gli aromi dell’uno e dell’altro vegetale bruciato impregnavano capelli e magliette sudate. Una semplice andata e ritorno in treno poteva essere decisiva.

Per non parlare dell’ufficio. Solo dieci anni fa condividevo l’ambiente di lavoro con gente che mi appestava con un paio di pacchetti di Marlboro al giorno a testa. Il mio dirimpettaio rollava invece di continuo, ma quella era la cosa meno fastidiosa, perché, traboccante di personalità da ogni poro e umile quanto un opinion leader del centrodestra, mi spaccava la minchia con la sua techno autoprodotta in loop a un volume fintamente moderato. Una specie di folletto con i capelli strinati e l’accento del sud, al mio fianco, riempiva invece il posacenere di mozziconi macchiati dalle abbondanti dosi di rossetto porpora con cui tentava di caratterizzare al meglio la sua bruttezza interiore (ed esteriore).

E le auto? Tentare di migliorare l’esperienza di viaggio dei passeggeri con gli arbre magique, l’invenzione del secolo (scorso) il cui olezzo – il flavour classico alla vaniglia, tanto per dirne una – ti si impregnava peggio delle nazionali senza filtro.

Sono stato fumatore, da molto sono un ex, ogni tanto scrocco un pizzico di Old Holborn quando incontro qualcuno che ha una busta e le cartine con sé, questo solo per dire che cerco di essere comprensivo con chi non si libera dal vizio. Ma oggi come allora, ho l’impressione che se c’è un filo di fumo appeso a un mozzicone pronto a librarsi verso l’alto, ecco che prende la direzione delle mie narici attirato da chissà cosa, un po’ come il senso per gli uccelli dei protagonisti del film di Hitchcock. Sarà vittimismo, o il condizionamento della cultura imperante verso chi si arroga il diritto di smog difendendosi con un “il polmone è mio e me lo gestisco io”, senza pensare che la prevenzione è la miglior cura soprattutto contro la spesa sanitaria pubblica. Ma sono sempre io a dover fare qualche passo più in là per evitare di offrire incresciosi spettacoli – conati di vomito compreso – alle 8 del mattino sul binario. Potrei però portare con me una borsa di compost e sedermi in braccio al fumatore, una volta a bordo del treno, giusto per ricambiare il favore.