Mia moglie che ama i The National quanto me, anzi forse di più perché il fascino di Matt Berninger conferisce quel qualcosa che il genere femminile riesce a cogliere a differenza di noi maschi che invece siamo soliti schermirci con un’inutile pellicola omofoba, nemmeno se subire il sex appeal di un uomo fosse la fine del mondo, dicevo che mia moglie ha lasciato che i tempi dispari dei due brani con cui si apre il loro nuovo album “Trouble will find me” influenzassero il suo giudizio su tutto il resto del disco, non entusiasta come per il precedente – comunque oggettivamente inarrivabile – “High violet”. Inutile che vi dica che il titolo di questo post è volutamente sessista nel senso che anche se non ci riesco sempre cerco di conquistarvi con la mia ironia e la mia modestia, nel senso che mia moglie non ha pregiudizi musicali e si lascia consigliare di tutto. Però il sette quarti la mette a disagio per il superficiale senso di mancanza di equilibrio nelle parti, quella non chiusura dovuta all’assenza di un elemento conclusivo a sancire il ritorno all’inizio. E non è l’unica. Frutto della cultura di background di noi occidentali, questa è la scusa più plausibile e con un fondo di verità valido per un’esperienza come quella dell’ascolto, tra le più immediate nel processo di assimilazione della nostra mente e del nostro corpo. Ti arriva il segnale e tu lo percepisci per come sei fatto dentro, e se sei cresciuto in quattro quarti o, al massimo, con i valzer dei nonni, già ti vedo che inciampi e sbatti le ginocchia contro i battiti perché cercavi quello di chiusura della battuta e hai preso dentro lo spigolo dell’uno che non avevi visto ripresentarsi. Io sono convinto che, nei casi come il nostro in cui la disparità non ci è congeniale, subentrino due fattori, due spunti di riflessione. Intanto c’è l’abilità del musicista nel mascherare lo sbilanciamento ritmico evitando di sottolineare la mancanza dell’ultimo battito ma cercando di amalgamare il tutto in modo che l’ascoltatore non sia indotto a soffermarsi su ogni singola battuta ma colga la successione di pattern dispari come un blocco unico da prendere così, una sequenza di loop anomali che danno vita però a una trama regolare. Ci sono casi in cui i pezzi in sette possono essere addirittura ballabili, pensate a Disco Labirinto dei Subsonica. C’è poi il vizio di fondo della danza su ritmi pari perché derivante dalla composizione binaria dei nostri arti e della percezione simmetrica del nostro corpo. Facciamo un gesto a destra e inevitabilmente rispondiamo con uno speculare a sinistra. Un passo e quello dopo. Così ciò che non è ballabile di pancia non rientra nei nostri gusti, dobbiamo fermarci per capire l’andamento. E se osserviamo questo fenomeno da un punto di vista di chi suona, il rischio è lasciare il sette quarti di unico dominio del rock progressivo, quando invece altrove va a costituire matrici diffuse di musica popolare. Non so, pensate al caos del riff di “Luglio, agosto, settembre nero” invece come ormai ci è entrato nel sangue tanto che lo eseguono persino i supergruppi del Primo Maggio. O pensate ancora alla lunga parte strumentale di “Cinema show” dei Genesis, come sembra una composizione regolare dopo decenni di ascolti ed esecuzioni (per modo di dire, a farla bene occorre essere davvero preparati, io ci riuscivo solo a metà). E i brani di apertura del nuovo lavoro dei The National sono la massima espressione dei tempi dispari nella modernità, a dimostrazione che il songwriting può avvalersi anche di metriche traballanti pur sembrando in linea con tutto il resto della produzione di un gruppo come il loro. E sono certo che mia moglie, dopo qualche ascolto, la penserà come me.