Ieri a un colloquio qui in agenzia si è presentato un ragazzo che conoscevo e frequentavo saltuariamente almeno vent’anni fa, ora uomo adulto e poco più giovane di me. Il caso ha voluto che ci fossi io dall’altra parte del tavolo insieme a una collega (più in virtù del fatto che sono tutti in ferie che alla mia seniority), e che ci fosse lui di fronte. Non mi ha riconosciuto, però. Vuoi il tempo, vuoi la barba, vuoi il fatto che concentrarsi troppo su sé stessi – cosa che non biasimo se non nelle conseguenze – impedisce di fare propri molti dei dettagli esterni e quando tra i dettagli trascurabili e trascurati dal prossimo ci siamo noi, un po’ la nostra autostima ne risente. E non è un problema di personalità che impressiona o no la pellicola sentimentale altrui. Sono convinto che catturare l’attenzione dipenda solo in parte dal soggetto, mentre subentri spesso la sensibilità dell’oggetto.
Era da qualche giorno che mi rigiravo in mano il suo curriculum e il nome e la foto, oltre alla città di nascita, mi sembravano famigliari. Così quando me lo sono trovato davanti e lui, senza capire chi fossi, è partito con la presentazione standard in ordine cronologico dal liceo all’altro ieri, ho lentamente riordinato tutti i collegamenti e ricostruito una mappatura di esperienze davvero remote perché provate con un corpo e una mente così differenti da quelli che ho in dotazione ora. Lui e i suoi amici artistoidi tiratardi mantenuti e quel modo di vedere il futuro che si è palesato come presente davanti a me, scorrendo la lista delle sue esperienze professionali e raccontate in diretta con un po’ di incespicamenti, il tutto a decretare un fallimento umano se confrontato con il manifesto artistico di allora fatto di provocazioni del calibro di “se non ho successo mi sveno” per uno statuto di norme più che altro estetiche che si vede che con il tempo è stato soggetto a cambiamenti, vista la sua presenza in carne, ossa e liquidi venosi e arteriosi a un metro da me, tutt’altro che avvolto dall’aura della fama. Anzi, messo piuttosto malino.
E io che invece mi ricordo tutto e nei minimi particolari – cose minuscole come la compagna di corso che avvalendosi delle sue canottiere striminzite mi ha estorto il libro di Storia Medievale per dare un esame senza mai restituirmelo o la quantità di mix dei Depeche Mode che una mia ex ha tenuto immeritatamente per sé al momento della separazione dei beni a conclusione del nostro rapporto, quindi fate attenzione a come vi comportate nei miei confronti – sono stato tentato di svelare la mia identità. E lo avrei fatto se man mano che la sua inadeguatezza al profilo qui ricercato, che si andava confermando parola dopo parola, sguardo dopo sguardo, non avesse reso uno spostamento del piano relazionale su un livello più profondo molto pericoloso. Non volevo introdurre elementi tali da rendere poi difficile l’ammissione dell’incompatibilità che si stava profilando. D’altronde sono fatto così, mi sobbarco il lato umano quando invece è importante non lasciarsi coinvolgere. Per esempio poco prima si era presentato un ragazzone che ha dovuto abbandonare gli studi al Politecnico al primo anno per motivi economici e diceva di essere pronto ad accettare qualunque cosa. Se dipendesse da me l’avrei preso subito perché mi ha fatto tenerezza, ma non è così che si conduce un’azienda, non sta a me dispensare ammortizzatori sociali.
E a fatica ce l’ho fatta: sono giunto indenne al “grazie ti avviseremo anche in caso negativo” senza svelare la mia identità, tutti noi presenti a quell’incontro eravamo consapevoli che nulla era andato bene e che non ci saremo rivisti mai più. Così ho pensato a come si è prima, come si diventa dopo, come si cresce durante. E pur avendo dimostrato che è possibile mettere a tacere questa parte di noi solo perché si sta lavorando e si indossa un abito temporaneo professionale, ho pensato che no, l’addetto alle risorse umane non è proprio un mestiere che fa per me.