se ci spostiamo tutti dalla stessa parte

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La coincidenza che poi giustifica il filo conduttore di tutto questo nasce dal fatto che c’è una ragazza che sta ascoltando e seguendo su un tablet Android il video di “Big mouth strikes again”, un titolo di canzone il cui predicato verbale tradotto può significare, oltre a “colpire” che è l’accezione corretta, anche quello che si è appena consumato. E forse è ciò che lo sciopero rappresenta in sé ad essere consumato a prescindere, la protesta collettiva di cui tutti questi corpi compressi nel primo convoglio utile al rientro dal lavoro costituiscono la prova tangibile. E per chi fa finta di non capire è sufficiente porre attenzione ai dialoghi in cui, data l’elevata densità di frequentazione, non è difficile immergersi. “Ci sono lavori che quando uno sceglie di fare dovrebbe firmare un codice deontologico tale per cui non possa esimersi da prestazioni e comportamenti”, sta dicendo giusto per fare un esempio un impiegato elegante e colto, a giudicare dal dizionario che sfoggia nell’esposizione della sua teoria, e il suo uditorio temporaneo e temporaneamente più dilatato del solito sembra gratificarne la forma. “E questo non solo al momento della firma di un contratto, ma già da quando si accinge a seguire un corso di formazione o un piano di studi che lo porterà a essere quello che fa”.

Che poi tutto intorno c’è pieno di ragazzi che rientrano dopo una giornata di lezioni al Politecnico, hanno in mano cose misteriose che i profani si chiedono incuriositi il perché di plastici o disegni su formati di tele alte come i loro autori stessi, modellini e cartelline che in quella ressa sono a rischio compressione e crollo più che su una faglia sismica. E il sistema di annunci automatici in condizioni dichiaratamente cagionevoli conferma il regime di instabilità tecnologica cui siamo soggetti, emettendo versi di difficile interpretazione. Tik mmmmmmmmm vzzzzzzz prossima fermata. Pausa. Mmmmmmmmmm Bovisa Politecnico. Vzzzzzzzzzz mmmmmmm tik. Ma l’uomo di prima, che non ha tempo da perdere con le applicazioni tecniche altrui, sceglie come esempio a sostegno della sua tesi il medico chirurgo, che non può certo astenersi dal servizio. Di punto in bianco, lui e i suoi colleghi decidere di non operare più! Non esiste proprio. “Quelli che fanno i lavori che sanno fare solo loro. Dovrebbero giurare di non fare mai uno sciopero, perché mancando il loro apporto professionale si blocca tutto e il loro potere contrattuale è troppo elevato per essere oggetto di trattativa. Io e i miei colleghi non possiamo permettercelo, e non è giusto”.

Per ora però vincono gli esperimenti empirici degli studenti, scommetto che c’è chi è interessato a sentir pronunciare dalle loro voci argentine i nomi di quei corsi in cui gli aspiranti architetti imparano a giocare con i materiali per renderli abitabili. Tecnologia degli elementi costruttivi. Caratteri di edilizia storica. Fisica tecnica ambientale. Analisi del territorio e degli insediamenti. Mi viene in mente che una volta – ero ragazzo – avevo abbordato una tizia dell’artistico chiedendole in cosa consistesse il modellato, e giuro che all’inizio la mia era solo curiosità per una materia che non avevo mai sentito. Tutto ciò mentre stiamo arrivando alla conclusione del ragionamento, a cui l’uomo giunge con un sillogismo che, a differenza dei fogli da disegno sottobraccio dei ragazzi, non fa una piega. “Quelli che insieme sono una lobby, una corporazione. Se si fermano gli operatori del trasporto pubblico è chiaro che fanno un danno, come lo farebbero le forze dell’ordine, o i dottori e gli infermieri, tutte quelle professioni la cui mancanza manda in tilt l’intero sistema. E chi si presta a non fornire il suo servizio essenziale dovrebbe essere passibile di pene gravi”. Qualcuno la fa, la battuta di dire “corporali”. Molti pronunciano la parola sottovoce. Ma siamo certi che comunque tutti la pensiamo senza vergogna.

Per fortuna alla prima fermata il convoglio si svuota, molti di quei giovani aspiranti archi-star scendono con i loro piani per il futuro. Resta in piedi di fronte alle porte una coppia, lei tiene in mano una borsa di nylon colorata da cui spunta una spugna con il manico, il tipico strumento che serve per lavare i vetri e che avrà anche un nome ma evidentemente non fa parte del mio vocabolario. Veste ciabatte bianche e la classica divisa sgargiante che, potete dire quello che volete, ma almeno le consente alta visibilità e un maggiore contrasto con il grigio intorno agli incroci più trafficati.  Si accompagna a un uomo molto più alto che potrebbe essere il  marito, il fratello maggiore, il padre, chiunque. Si tiene a debita distanza sorseggiando un caffè preso a una macchinetta, non guarda mai la sua collega, non può permetterselo, ma ogni tanto osserva il contenuto del suo bicchiere di carta. È fine giornata per tutti.

station to station

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Gli uomini, a differenza di noi, pensano solo quando sono sotto stress. Lo dice una donna a una sua amica, entrambe al mio fianco, che sino a poco fa si lamentava del fatto che il suo fidanzato, che da queste parti si dice moroso, non ne vuole sapere di sposarla senza l’urgenza di una gravidanza. Si tratta di una tematica che ha invaso la mia attenzione spostandola dalla storia di cui ero spettatore, anzi lettore, fino a pochi istanti prima. E non me ne voglia la mia casuale compagna di viaggio se l’interesse è di molto inferiore e sono capitato su quelle parole forzatamente, visto anzi sentito il volume alto della conversazione. Aggiungerei che penserebbero di più, gli uomini, se non fossero distratti da discussioni un po’ così. E a dirla tutta sui due piedi, visto che di posti a sedere non se ne vede nemmeno mezzo, anche io troverei scuse su scuse per non sposarla.

In più, malgrado lo spazio a disposizione – per darvi un’idea sono costretto a reggere il mio libro a pochi centimetri dagli occhi con tanti saluti alla mia presbiopia – la donna gesticola per evidenziare con scie invisibili quel concetto. Le due mani parallele ravvicinate a rappresentare un’idea di chiusura, di scarsa lungimiranza, un contenitore tridimensionale che, sebbene tutto da immaginare, mette claustrofobia. Ma io lo vedo che si tratta di uno sfogo del momento, gli scioperi dei trasporti creano disagio e catalizzano la rabbia degli utenti nel privato più di ogni altra cosa. Famigliari, colleghi in ufficio, sempre che in ufficio ci si arrivi, e soprattutto compagni di sventura. La solidarietà di classe è un concetto morto definitamente con Hobsbawm qualche giorno fa, il filo che esce dagli smartphone e si inabissa nelle orecchie degli individui poi prosegue verticalmente invisibile verso altri output ubicati chissà dove. Dietro una tv, un decoder, un personal computer pronto a dare battaglia al mondo con commenti sgrammaticati su social media. Non c’è quindi un legame orizzontale, quella prospettiva di occhi e di orgogli che muoveva il quarto stato verso la riscossa sociale nella celebre iconografia dei primi del novecento. Oggi sarebbe ancora più semplice con un collegamento wireless o bluetooth per la condivisione dei moti. Ma non funziona più. La gente è solo gente quando è a casa propria.

Poi però mi attira l’attenzione una signora che, seduta, registra una serie di attività in programma a penna su un’agenda. Non sono uno di quelli che sbirciano, neh. Però leggo che il giorno prima, per due volte, una la mattina e una il pomeriggio, ha avuto qualcosa a che fare con Giulio Coniglio, il celebre roditore antropomorfo disegnato da Nicoletta Costa. Mi chiedo perché uno debba scrivere proprio così, Giulio Coniglio, su un’agenda come se si trattasse di un doppio appuntamento da marcare e ricordare. Quale sarà il vero significato? Una comunicazione in codice? Deve essere un segnale, non c’è dubbio.

Poco dopo tutti fuori, almeno fino qui siamo arrivati. Ci sono alcune stazioni in cui la coincidenza non è prevista. I convogli che vanno in una direzione partendo da lì non sono tenuti ad aspettare obbligatoriamente gli altri convogli in arrivo dalla direttrice opposta. Cioè, se il treno è in orario, i passeggeri riescono a prendere quello che gli consente di proseguire. Ma i ritardi sono frequenti, non è una novità, e in quel caso è lecito prendersela con il sistema che istituzionalizza questi disguidi a scapito degli utenti. E in un periodo come questo, in cui la gente è esasperata e si lancia sotto le saracinesche per non perdere l’ultimo metrò, dove magari ci fosse una ressa analoga per un film di Truffaut, secondo me è meglio muoversi con lauto anticipo, una procedura che io adopero normalmente perché con i mezzi pubblici non si può mai sapere. Per questo mi stupisco poi dell’insoddisfazione verso il servizio ricevuto, il linciaggio morale e fisico di autisti, macchinisti, controllori e personale vario. Si chiama sciopero. Serve per comunicare un malcontento. Siete avvertiti. Se avete un appuntamento all’ora x, agite di conseguenza con tutte le misure precauzionali prevedendo tutto quello che vi può succedere.

E accade anche che il tono metallico degli annunci dall’altoparlante rimandi da una parte all’altra della stazione. Bisogna tirar su zaini, ventiquattrore e in alcuni casi trolley e risalire le scale, mobili e immobili, e spostarsi ad almeno cinque binari di distanza. Che è anche questa una metafora perché se il convoglio definitivo ti ha atteso ti viene da ringraziare chi ha avuto la testardaggine di farlo nella vita e nei tuoi confronti, anche se magari prima non ti voleva sposare perché non c’era un nascituro di mezzo o perché vivi in un mondo tutto tuo, fatto di personaggi inventati per la letteratura infantile e prendi appuntamenti con amici immaginari. Perché poi l’esperienza fa crescere. Tutti e senza distinzione.