Le facoltà umanistiche, per come sono concepite adesso e per come funzionano, non possono andare avanti. Ovvero: possono, potranno andare avanti, non c’è cosa che non possa durare. Ma non devono. La società italiana – quella che paga le spese dell’università – non ha nessun bisogno di avere migliaia e migliaia di mediocri laureati in filosofia, sociologia o storia dell’arte: ha bisogno di averne pochi, ma ottimi. Gli studenti non devono continuare a illudersi che, dopo cinque o sette o nove anni di studi svogliati e dispersivi, usciranno con una laurea che gli permetterà di fare i giornalisti o i professori universitari o gli ‘scienziati della comunicazione’, perché non sarà così. Molti finiranno disoccupati a vita; molti cominceranno a fare a trentacinque anni un lavoro che avrebbero dovuto cominciare a fare a venticinque: dieci anni sprecati. E i docenti, se sono persone serie (e sono la gran parte), non meritano di dover avallare questo raggiro ai danni della società e degli studenti.
L’Italia non ha bisogno di molti laureati in discipline umanistiche. Ha bisogno di una buona cultura diffusa, ma questo è tutt’altro discorso: e l’aiuto che le facoltà umanistiche possono dare in questo senso consiste soprattutto nel formare insegnanti eccellenti e intellettuali dotati di senso critico, non nel laureare in Lettere l’intera nazione. Questo non è ‘portare la cultura al popolo’, è prenderlo in giro. L’idea che tutti debbano avere libero accesso alle meraviglie dell’umanesimo è figlia di un equivoco: si parla di quello che è un lavoro nei termini in cui si potrebbe parlare di una passione disinteressata, di una libera attività dello spirito, confondendo due piani che devono invece restare distinti: quello della piena realizzazione del sé (che non compete all’università) e quello della professione che attraverso lo studio universitario si viene abilitati a intraprendere.
Un illuminante intervento di Claudio Giunta, via l’utilissimo segnapagine di Sempre un po’ a disagio.