Non mi accorgo subito del pezzo, in genere riconosco le canzoni dalla prima battuta e questa vi posso assicurare che si tratta di una dote che farà di me un volto noto della tv nazional-popolare quando un giorno si decideranno a rifare il Musichiere, ma come potete ben immaginare saperle proprio tutte è quasi impossibile. Ho i miei punti di forza, le mie aree di eccellenza, rimango tutt’ora convinto di essere la persona più competente in ambito musicale che io conosca, ma stavolta ho toppato.
La delusione è duplice perché la signora in coda davanti a me sta ballando a tempo con il suo cane in braccio. Che poi definirlo cane si fa fatica. Se ne è stato per un bel po’ accoccolato vicino al collo della padrona e con il muso invisibile, nascosto nell’ammasso di pelo, immobile da sembrare un collo di pelliccia. Quando inconsapevolmente viene sballottato a ritmo di musica rivela tutta la sua pucciosità, anche se io non la colgo perché non ho un buon rapporto con gli animali ma diverse commesse e gli altri che sono lì in attesa di pagare i capi di abbigliamento in saldo scelti si superano in moine, versi, vezzeggiativi e smancerie che mi fanno rimpiangere i tempi di guerra in cui nessun tipo di bestia veniva risparmiato per sopravvivere alla fame, altro che la crisi in cui versa il nostro occidente industrializzato che, a quanto vedo intorno a me, non sembra voler rinunciare a un ricambio del guardaroba.
Comunque, per non essere da meno e non sembrare insensibile, mi lancio in un tentativo di socializzazione chiedendo alla donna tutta orgogliosa del suo cucciolo a quale razza canina appartenga quel minuscolo esemplare di toporagno che tiene in braccio, a mio giudizio inguardabile e insulso nella sua piccolezza. Se un giorno prenderò un cane, e questo consideratelo un periodo ipotetico dell’impossibilità anche se forse i tempi verbali non corrispondono alla regola, quel giorno prenderò un San Bernardo o un cane di taglia gigantesca, perché così devono essere i cani. Perché altrimenti, se mi fanno paura le dimensioni, continuerò con i gatti.
La signora, lusingata dalle attenzioni di un uomo distinto come il sottoscritto, si rivela proprietaria di un volpino di Pomerania, mica cazzi, un volpino di Pomerania che nella mia ignoranza non ho mai sentito nominare in vita mia e che solo prima di accingermi a scrivere queste righe ho scoperto che Google lo riporta come primo suggerimento non appena si imposta la ricerca con il termine chiave “volpino”. Non solo. Come seconda informazione si trovano anche dettagli sul prezzo, dai € 1300 in su. Non so voi, ma se avessi un cane così in casa passerei il tempo a cercare di non calpestarlo, sai che danno.
Comunque, mentre immagazzino una delle principali nozioni utili della giornata, la canzone di cui non mi sono accorto subito ha svelato la sua identità, e cioè “Dolce Vita” di Ryan Paris, al che non posso che essere severo con me stesso. Avrei dovuto aspettarmelo, dopo “People from Ibiza”, i soliti Via Verdi di “Diamond” e un altro paio di oscenità italo-disco che mi riportano subito ai tempi dei sofferti primi pomeriggi in discoteca: io che bramavo qualcosa dei Depeche Mode o dei New Order per distinguermi un po’ dagli amici tamarri che invece, con la loro competenza da Dee-Jay Television, beccavano molto più di me.
Così, mentre la mia attenzione dal mini-cane si sposta in basso sui leggings fantasia che la signora, obiettivamente, non si può proprio permettere data l’età e la stazza, penso che gli anni ottanta hanno davvero rotto il cazzo. E credo di averlo scritto mille altre volte in questo blog, lo so, ma faccio prima a ripeterlo anziché cercare i post in cui ho disperso le mia invettive contro il periodo che si è consumato a contorno della mia adolescenza. Gli ottanta hanno davvero rotto il cazzo e, soprattutto, musicalmente non ne posso più.
Non c’è centro commerciale in cui vada, non c’è stazione radio su cui mi sintonizzi in cui almeno una volta non venga programmato e diffuso uno di questi brani inutili che sono la mia maledizione. Mi rompevano il cazzo quando sono stati composti, mi hanno rotto il cazzo quando erano già superati ma c’era chi li ascoltava ancora, mi hanno rotto il cazzo quando è iniziato il revival degli anni ottanta e la moda connessa, e ora, trent’anni e rotti dopo, continuano a rompermi il cazzo. E forse l’immobilismo culturale, sociale, politico che è la nostra rovina oggi deriva proprio da qui, da un manipolo di perfidi selezionatori musicali che vogliono far sentire la gente ancora negli anni ottanta perché lo leggiamo anche su tutti i giornali che consumi e sviluppo non sono cambiati da allora.
E la sfortuna vuole che la coda, con quel toporagno canino che cerca di catturare la mia tenerezza ma sono certo utilizzerei in ben altro modo e la sua padrona che si muove a ritmo con la Dolce Vita di Ryan Paris, dura un bel po’. I clienti in fila alle casse sono tanti, le cassiere sono solo due e malgrado la ressa ne approfittano per indurre le persone – come accadrà a me dopo – a fare la tessera fedeltà.
Ma a me la voglia di ballare non aumenta per nulla. Mi viene in mente però l’ennesimo adattamento della celebre barzelletta del bunga bunga, quella che ha dato il nome all’ancora più celebre passatempo preferito del nostro ex ex presidente del consiglio. Immagino me vestito da esploratore legato a un albero da un branco di selvaggi armati di frecce avvelenate che vogliono farmi la festa, e il loro capo mi chiede, con il tono da stereotipo di uomo non civilizzato delle barzellette da colonialismo italiano anni venti, “Hei tu! Vuoi morire o andare per saldi?”. Io, con la voce rotta dal terrore, rispondo: “Morire… morire…”. Lui, soddisfatto, mi mette al corrente della sua decisione: “Va bene, però prima un po’ di saldi”.