Per noi a cui solo una ferrea volontà di non oltrepassarne la soglia – il tutto supportato da indiscutibili limiti economici – impedisce di farci piombare nelle fauci tentacolari dell’accaparramento compulsivo, portare le cose in discarica ha la stessa carica emotiva di un funerale. Le similitudini con un viaggio di accompagnamento conclusivo verso il cimitero ci sono tutte. Certe vetture scure come la mia station wagon che hanno la stessa lunghezza di quelle adibite al trasporto estremo, la necessità di dare un ultimo addio a qualcosa/qualcuno con cui si è condiviso un bel pezzo di vita, anche se impacchettata in cantina. Il dover lasciare alle maglie dell’ignoto cose/persone a cui teniamo tantissimo e, soprattutto, il fatto che l’area ecologica del mio comune si trova nei pressi del cimitero e la strada da percorrere è la stessa. I pensieri mentre guido e non ho nemmeno il coraggio di guardare nello specchietto retrovisore le cose di cui mi sto liberando e delle quali la mia macchina è stipata sono facili da immaginare. Davvero non avrò più bisogno di quei cavi SCSI con cui collegavo lo Zip 100 al mio Power PC? Siamo sicuri che un domani i pezzi della lampada Ikea rotta non mi potranno servire da riciclare in qualche modo? E i portabici che non ho mai montato? Metti che sabato prossimo mi viene voglia usarli per fare la gita che sogno da tempo lungo i sentieri del Ticino. Ma non c’è scampo.
Quando mia moglie impone di sgomberare il garage, non conosce pietà. Siamo alla resa dei conti di tutto quello che mi è stato possibile occultare comportandomi come una specie di Schindler degli oggetti in tutti questi anni. La discarica poi trasmette per intero la tragedia del nostro tempo, ovvero perché produciamo così tanto se poi gli facciamo fare una fine così indecorosa. Il rituale varia da utente a utente: quelli che sono pagati per sgomberare le case altrui non si fanno nessun problema e, anzi, sono pronti a correggerti in lingua originale (solitamente rumeno) quando, per eccesso di zelo, stai per compiere un errore di valutazione. Un mobiletto in legno ma ancora dotato di componenti in metallo andrebbe nel cassone degli ingombranti, ma vengo esortato a non andare troppo per il sottile. Non vi sto poi a dire il funereo rumore della cassa piena di materiale informatico non più funzionante che ho rovesciato nel tumulo dei rifiuti elettrici. A guardia di quel varco per l’oltretomba dell’occidente industrializzato c’è un operatore pagato dalla cittadinanza e forzato a lavorare anche di domenica, alla faccia di Gianni Morandi, e passa il tempo – manco a dirlo – sullo smartphone. Un uomo di mezza età come me ha messo temporaneamente una cyclette anni 80 come blocco per la portiera del suo furgone da cui sta tirando fuori di tutto. Dopo essersi liberato di un materasso mi guarda e, con fare liberatorio, cercando di trovare complicità, mi confida che non c’è niente di più bello che disfarsi delle cose. Ha scelto chiaramente la persona sbagliata. Gli rispondo con un sorriso molto forzato e mi concentro su un cesto di vimini distrutto dai miei gatti che si capovolge nel contenitore in cui l’ho lanciato, rovesciando un set di freccette con le quali ho trascorso un’infinità di giorni festivi in cameretta con mia figlia. A proposito, resti tra noi, ma il suo diario di seconda media sono riuscito a nasconderlo clandestinamente nel cruscotto dell’auto come si fa con i profughi, salvandogli la vita in extremis. Lo spedirò all’estero per consentirgli un destino migliore.