Raccolgo e riporto la confessione di A., che ha deciso di uscire dal tunnel. Sono riuscito finalmente a farmi raccontare la sua esperienza e a convincerlo a renderla pubblica, a testimonianza del fatto che voltare pagina è davvero possibile. “Ormai è un anno e mezzo, più o meno, che ho smesso. Non è stato il consiglio di un medico, non è stato l’aut-aut di un parente stretto, non è stato il peggioramento di un malessere, non si sono manifestati sintomi fisici particolari. Si, d’accordo, iniziavo ad accusare un po’ di affaticamento nel tenermi addosso e portare in giro tutto quel peso, e soprattutto sentivo insopportabile il fastidio di andare a letto con quell’assordante ronzio nelle orecchie. Ma non potevo andare avanti così“.
A. ha iniziato a 13 anni. “Facevo terza media, ricordo ancora. Volevo imitare gli amici di mia sorella, più o meno 6-7 anni di differenza, che forse intercettando il mio interesse per quella cosa da grandi mi avevano tirato dentro nel loro giro. Prima sono andato a vedere di cosa si trattava esattamente, spiandoli da fuori. Ed è stato l’errore più grave, perché la curiosità è diventata incontrollabile. Sembrava una cosa divertente, che ti fa sentire grande, anzi, onnipotente, la più sconvolgente delle sostanze stupefacenti in circolo all’epoca“. Non dimentichiamo che erano i primissimi anni 80, quel tipo di atteggiamento era piuttosto cool, perché sinonimo di ribellione.
“Ho deciso così di unirmi a loro. La prima volta addirittura sono passati a prendermi a casa, uno di loro era già maggiorenne e aveva l’auto“. Anni dopo, A. si è reso conto che la dipendenza, in realtà, costava cara. “Come non ho fatto ad accorgermi subito che una cosa così divertente non poteva essere gratis? Prima qualche migliaio di lire al mese, per qualche ora la settimana di oblio. Poi botte da centinaia di migliaia di lire. Non sempre, certo, ma almeno una volta all’anno. Addirittura, quando qualche anno dopo, oramai in piena assuefazione, ho voluto fare il grande salto, ci sono voluti un paio di milioni, soldi che i miei genitori avevano guadagnato con il loro lavoro e che mi hanno prestato, pensando fossero per il mio bene. Ma ormai c’ero dentro fino al collo, non c’era più via di uscita“.
A. si lascia anche scappare qualche dettaglio su quella primissima esperienza. “Eravamo tutti in cerchio, c’era una sorta di rituale da osservare. Guardarsi negli occhi, osservarsi per fare attenzione a cosa facevano gli altri, soprattutto ascoltarsi, non interrompersi a vicenda. E, soprattutto, attenti a non sbagliare, per non sprecare nulla di quello che si stava producendo e dover quindi ricominciare da capo“.
Ma, come in ogni branco, c’era un leader. “Non mi scorderò mai la sua espressione. Era il più grande di tutti, con la barba, gli occhi infuocati. Era quello che si faceva sentire di più, diceva cosa fare e cosa non fare, era l’unico che aveva il potere di interrompere gli altri. Anche la gestualità era diversa. Si dimenava, saltava, si contorceva. Non ti nascondo che mi faceva paura. Ma il suo carisma è stato più forte. Prima di congedarci, quella prima volta, è stato gentile e molto amichevole. Di sicuro per assicurarsi la mia presenza le volte successive, senza dubbio; anche se giovane ero dotato, avrei portato il mio valore aggiunto. Così mi ha chiesto come era andata, cosa ne pensavo, se mi era piaciuto. Lì ho capito che non avrei mai più smesso“.
Ma i percorsi personali mutano, si prendono strade diverse. Cambiano le amicizie, a volte peggiorano perché si va in cerca di sensazioni ancora più forti. “Ad un certo punto ho sentito l’esigenza di provare con altre persone, più vicine alla mia sensibilità, al mio vissuto. Soprattutto coetanei, che parlassero il mio stesso linguaggio. Stavo cambiando, sentivo che sarei riuscito a sopravvivere anche fuori da quella cerchia che mi aveva iniziato. In poche parole, formare il mio branco. Senza sapere che sarei entrato in un trip ancora più devastante, perché man mano che aumentava l’intimità, la rottura di un equilibrio dovuta a chi se ne andava o chi voleva incominciare e inserirsi poteva essere fatale. Da allora, l’ho fatto credo con almeno un centinaio di persone diverse, di tutte le età, di tutti gli orientamenti sessuali, in posti differenti. E man mano, mi accorgevo che ero sempre più spesso il più vecchio, tra me e gli altri che volevano provare aumentava sempre più la differenza di età. E con essa, il gap generazionale: background diversi, culture e interessi sempre più distanti che danneggiavano la bellezza delle vibrazioni che fino allora avevo provato, l’unica cosa davvero gratificante di un vizio così pericoloso“.
Paure? Frustrazioni? “Tantissime, purtroppo. Per chi è dentro, c’è il timore di perdere tempo, di non riuscire a regolarsi, di danneggiare anche l’immagine delle persone con cui lo vuoi fare. Verso l’esterno, invece, c’è la frustrazione dovuta alla consapevolezza di fare la cosa sbagliata, di trascurare affetti, amici, lavoro, di sprecare energie e soldi, soprattutto. Ma se non hai il vizio non riesci a capire. Perché poi provi nuovi stimoli, cerchi differenti direzioni. Cambiano i fattori, come si dice, ma il prodotto resta immutato. L’eccitazione dura poco, i preparativi, poi il momento in cui sei in ballo, l’effetto che al massimo non supera le 2 ore, e che ogni volta sembra sempre più rapido“.
E quando finisce? “Ecco, quello è il momento peggiore. Smonti tutto, stacchi i cavi, rimetti i synth nelle custodie, mentre quei pochi che sono venuti al concerto del tuo gruppo sono già al bar del locale a ubriacarsi. E tu devi caricare tutto in macchina, tornare a casa sudato e puzzolente, rimettere gli strumenti nello sgabuzzino, sdraiarti nel letto con l’adrenalina a mille che non puoi sfogare, e aspettare la prossima prova o, peggio, la prossima data che riuscirai a trovare“.
Ora A. ha finalmente smesso di suonare. A più di 40 anni. Ora finalmente la sua strumentazione è chiusa in cantina, forse si deteriorerà. I synth si smemorizzeranno, qualche contatto salterà a causa dell’umidità. Ma non tornerà mai sui suoi passi. A. ora è disintossicato e pulito. Definitivamente.