Ai più capita di sfrecciare con l’alta velocità su e giù per la penisola o di percorrerla a molti meno chilometri all’ora e osservare dall’autostrada posti che non diresti mai che a qualcuno gli è venuto in mente di costruire un nucleo abitativo lì, poi due poi tre e poi il comune e il panettiere e la chiesa e quindi avere dignità di codice di avviamento postale. Il gioco è chiedersi che cosa fanno le persone che ci vivono, che lavoro fanno gli adulti, dove vanno a scuola i bambini, come passano il tempo gli anziani e se tutti, a loro volta, si mettono a contare le macchine che passano o portano i figli a vedere i treni costosi e che mai si fermeranno in quel posto che non è una città, non c’è nemmeno la stazione e a malapena c’è un distributore di benzina nelle vicinanze. Di sera poi il fascino delle luci accese, le case e le esistenze degli altri che si svelano per una manciata di decimi di secondi a testimoniare che c’è vita anche su quel pianeta, c’è acqua e forse anche amore nelle stanze, nelle auto parcheggiate sotto in attesa della mattina dopo e pensa, non lo diresti, ma non c’è nemmeno bisogno del box singolo. Si tratta di una visione della realtà distorta che risale a ben prima della diatriba canora tra Gaber che ci faceva sognare le vetrine accese delle città contro Nino Ferrer, il primo negazionista della teoria dell’urbanizzazione anche se i più conoscevano la versione originale di quel motivetto, una lista di cose da rigattiere da fare invidia agli autori dei programmi di Fazio e Saviano che Ferrer dichiarava di vendere.
Il problema è tutto di chi si muove da Milano e già fatica ad ammettere l’esistenza di un secondo polo metropolitano più a sud. Così ci si impegna nel rispetto dei romani a considerare questo nuovo asse ferroviario, che nel nome di Mennea sembra aver addirittura infranto la barriera dei 150 minuti, un tempo record a cui nessuno crede ma che salutiamo comunque con sincero ottimismo. E con una rapidità così vertiginosa però cade un mito, il viaggio in treno che sarà poco più interessante di guardare da un finestrino dell’aeroplano quando ci sono le nuvole e si perde il senso dell’orientamento. A poco varranno, nella tratta rettilinea delle pianure emiliane, i tentativi con l’auto nella corsia di sorpasso che si snoda parallela alla tratta dei freccia rossa di correre tanto quanto i viaggiatori stipati in questa sorta di capsule da viaggi di fantascienza. Fino a Bologna, certo, che dal lì tutto rallenta. Prima o poi, da qualunque punto la prendi, l’Italia ti mette nella condizione di fare i conti con l’Appennino. Sotto, sopra, con i tornanti o in una galleria, è necessario passare dall’altra parte ed è lì che si gioca la partita vera. Perché per uno che abita a Milano ascoltare gli insegnamenti in qualità della vita da uno che vive in Toscana ha lo stesso effetto che andare a raccontare ai pastori delle repubbliche caucasiche che qui in occidente stiamo passando dal mouse al touch screen. Gli piace vincere facile a loro, quelli della Toscana intendo, che da ovunque in quattro e quattr’otto possono andare a Firenze, o Lucca o a Pisa. Vivono in città ma anche un po’ in collina e senza problemi di tangenziali vanno indifferentemente al mare o in montagna, a vedere arte antica o moderna, aggiungi qualche ora e sono al nord o al sud. E poi ti dicono che non sanno come facciamo noi a Milano che la metropolitana chiude presto e siamo costretti alla macchina ma ci sono le code, ci sono i gratta e sosta, c’è l’area C perché nessuno dei colleghi abita in centro. Tutti devono rientrare nei quartieri delle cerchie intorno, l’area suburbana che non ha inizio né fine ma ha solo una grande certezza, quella di essere equidistante dai locali, dalla vita notturna, dal fermento culturale. Indifferentemente dalla posizione e dai punti cardinali è sempre scomoda e malservita. E sapete come fanno questi toscani a sapere tutte queste cose su Milano? Ci sono venuti a lavorare, magari anche solo per qualche anno e poi alcuni di loro fortunati sono tornati a Firenze, Lucca o Pisa. Alcuni, eh.