ai miei amici

Standard

Cari amici, se leggo le vostre parole inscritte nei fumetti delle chat vi immagino come goccioline di vapore acqueo che non state in nessun posto, in ognuna c’è un po’ del riflesso di come vi ricordo e chissà come siete adesso. Rovinati come me dall’età e dalle voci nella testa che prolificano come roditori e in quanto roditori è bene star loro alla larga che non si sa mai, sapete le malattie. Amici che non ci vediamo più da lustri e decenni, che ci rivolgiamo domande come se fosse naturale che ci interessano ancora le stesse cose di allora e invece già il fatto di doverci mettere comodi per cercare di mettersi a fuoco dovrebbe essere un mutuo segnale che non è così. Amici mi spiace di essere uno di quelli ai margini che c’era sempre qualcosa prima di più urgente, di più remunerativo, di più strumentale e più distante, per allontanarmi. Ancora adesso ho difficoltà a stare fermo, sarei un pessimo adepto per le scuole di yoga, dopo un po’ devo cambiare la gamba d’appoggio e riconfigurare l’equilibrio. Così è stato anche nella vita, almeno fino a un certo punto e poi non so come è andata. So solo che mi ci sono visto riflesso e facevo una splendida figura, almeno lì. Amici miei cari, se non torno è perché sono a disagio, dovremmo ammettere che abbiamo perso, che sarebbe stato più facile da ricordare se fossimo stati più lucidi allora mentre cercavamo di esserlo il meno possibile. Il repertorio, poi, sarebbe lo stesso, per tornare intimi almeno per qualche ora ma non so se ci piacerebbe. Parlare di ora, di quanto ci siamo sconosciuti, ne resteremmo delusi e desiderosi di tornare al presente. Amici miei, ecco: restiamo dove siamo, con reciproci auguri a vedersi per caso e, in quel caso, a portare qualcosa che riassuma tutto il periodo in cui siamo stati dispersi per poi trovarci così, con il nostro vigore stemperato nei social network, nelle foto che è tutto un tirare un sospiro di sollievo che in fondo va bene così, va bene che non ci siamo più incontrati.

faccia lei

Standard

Quello di metterci la faccia è un modo di dire piuttosto ricorrente al nostro tempo fatto di maschere di Anonymous, di avatar cartoonizzati, di profili fake e di furti di identità digitale, il che se ci pensate bene è anche un paradosso. Voglio dire, ai tempi dei popoli uniti che mai sarebbero stati vinti e dei grandi movimenti delle masse, quando sarebbe stato facile anche nascondersi dietro passamontagna e fazzoletti calati sul viso prima di lanciare sanpietrini mica c’era tutta questa smania di non assumersi le proprie responsabilità. Oggi che siamo sommersi della melma dell’individualismo digitale e della grande truffa dei social network che poi sono una corsa all’amplificazione del sé, la smania di protagonismo è facile da corrompersi con l’occasione a mimetizzarsi nelle genti del web, fare l’uomo ladro, anzi, sotto falsa identità o in contumacia. Per questo invece le aziende, le organizzazioni e persino i governi fanno di tutto per affermare la propria umanità, nel senso della materia prima mortale di cui sono costituiti, e ne fanno un’eccellente leva di marketing. Pensate agli amministratori delegati che marcano con un bastone sulla sabbia i confini della banca intorno e su misura, ai produttori di tortellini, agli agenti immobiliari che stampano sui manifesti le loro cravatte e i loro diplomi da geometri e ragionieri, persino gli impiegati delle finanziarie che finiscono in tv con Claudio Bisio.

D’altronde è la faccia a essere forse la parte di noi più vulnerabile, quella che a un certo punto della nostra vita impariamo a colpire proprio con l’obiettivo di fare male al prossimo per annientarlo, temporaneamente o definitivamente. C’è un’età dei ragazzini, che si abbassa sempre di più considerando quello che si vede su italia uno, in cui si passa dai pugni nella pancia e dai calci agli schiaffi sul viso, si comprende il massimo dell’offesa fisica più cattiva di un colpo ai genitali o alla bocca dello stomaco. Sulle guance rimangono i segni, le cinque dita di cui cantava anche Baglioni, il marchio a fuoco dell’oltraggio visibile al pubblico più morboso. Ai tempi delle guerra fisica, quella degli appostamenti, delle trincee e delle imboscate, i graduati insegnavano proprio a mirare al volto o più in generare alla testa, per aumentare le percentuali di mortalità. Difficilmente disponiamo di caschi integrali nella vita civile e comune, al massimo si vede qualche burqa in giro, ma donne e uomini, quando non sono superstiziosi integralisti, amano tenere gli organi di comunicazione liberi. Così è più facile individuare rischi, segnalare stati d’animo, persuadere un interlocutore, elaborare strategie di movimento e, perché no, di fuga.

Non è un caso che la testa, il posto in cui normalmente sta la faccia a meno che non l’abbiate come il culo, sia anche chiamata capo e stia in alto a comandare, sopra a tutto, e anche senza tirare in ballo la storiella di Menenio Agrippa chiunque vorrebbe conservare l’hard disk che c’è dentro con tutto il suo sistema operativo e l’interfaccia con le varie periferiche – occhi, bocca, orecchie e naso – il meglio possibile, affinché tutto il resto funzioni correttamente. Pensate quindi a quanto di prezioso mostriamo al mondo e a noi stessi, la mattina allo specchio con uno spazzolino elettrico o manuale in mano, pronti a dare un volto per l’ennesima volta alla nostra vita.

ho passato la giornata con uno di quelli che alla fine di ogni cosa che dicono mettono un no

Standard

Mi riesce difficile capire se chi mette il no seguito da un punto interrogativo alla fine di ogni frase lo fa per stimolare la conversazione, va a caccia di consenso, getta l’amo per cogliere conferme altrui o semplicemente è fiaccato da una nevrosi particolare, una sorta di negazionismo egoriferito su scala inimmaginabile. Ed è difficile capirlo se con chi fa seguire ogni frase da un no interrogativo non si è abbastanza in confidenza. Possiamo infatti confermare l’altrui negazione con un sì, ma in questo caso non so se vale la regola per cui affermando siamo in accordo con il no e quindi in disaccordo con il postulato o viceversa. Possiamo invece dissentire dicendo anche noi di no, questa volta con un punto esclamativo grosso come una casa, ma in questo caso manifestiamo la volontà di essere in linea con la domanda finale o invece siamo in completo disaccordo per cui il nostro no in realtà è un sì in contrasto con il nostro interlocutore? Un bel casino, vero?

Sta di fatto che io che sono un paladino dell’insicurezza non so proprio come comportarmi. Un paio di giorni fa ho percorso in auto cinquecento chilometri circa con uno così, che oltre a parlare senza sosta – un’amica definisce egregiamente questo genere di persone come “seganervi” – ha messo il no seguito da un punto interrogativo alla fine di ogni fucking cosa che ha detto. Io che dovevo guidare pensavo inizialmente di poter sfruttare la mia posa con il viso rivolto saggiamente verso l’autostrada che percorrevo per non incrociare il suo sguardo in attesa di risposta ma poi, forte di un senso di colpa portatile, di quelli che puoi mettere in auto e al limite se si scaricano li puoi collegare all’accendisigari, mi sono sentito in dovere di sottopormi a questa dinamica proprio per non conferire eccessiva drammaticità ai suoi silenzi in attesa di un mio segnale per proseguire. Non riuscivo a sopportare l’idea che lui rimanesse deluso dalla mia sottovalutazione di quanto stava dicendo.

Così ad ogni no seguito da un punto interrogativo mi sono dovuto inventare tutto un set di assensi anche per non correre il rischio di sembrare ripetitivo nelle risposte. Per cui davo toni di maggiore o minore enfasi ai miei sì, poi ho inserito il movimento del capo, ho inarcato le sopracciglia, ho proferito qualche verso assertivo di quelli più in voga tra gli entusiasti dei rapporti interpersonali, ho usato il mento in modi che voi umani non potete nemmeno immaginare. Ho appurato che anche un semplice semi-sorriso con lieve inclinazione della testa verso di lui funzionava.

E i risultati non sono tardati, perché una volta stabilito il codice conversazionale, diciamo al quinto o sesto tentativo, il nostro interagire è andato liscio come l’olio. Lui ha parlato per tutto il tempo e io mi sono prodigato per liberare l’attesa in lui e consentirgli di proseguire forte del fatto che la sintonia era ampiamente recepita e ritrasmessa con feedback fin troppo evidenti. Poi non so, magari chi mette il no seguito da un punto interrogativo dopo ogni cosa che dice è abituato invece al fatto che simili nevrosi sono spesso ignorate dai più e il tutto si riduce a un rodato tic comportamentale come soffiare sul ciuffo per liberare la faccia, farsi scrocchiare le dita o muovere di scatto il mento liberandosi il colletto. In questi casi forse non si dovrebbe esagerare con le conferme al prossimo per non dare adito a troppe aspettative, no?

contare il numero di caratteri spazi inclusi

Standard

Ci sono silenzi molto costosi, o meglio c’erano perché i contratti flat se è vero che fanno risparmiare in realtà hanno impoverito la tensione tra i due interlocutori, quell’angoscia romantica di quando uno non sa più cosa dire ed è l’altro che sta chiamando, con la sua bolletta e tutto l’armamentario con filo e cornetta. Sentire sospirare travolto dall’indecisione qualcuno da qualche altra parte del mondo al telefono non ha prezzo, e solo a uno con il cuore di pietra verrebbe in mente di pensare allo scatto successivo, il gettone che va giù, il segnale beep che ciuccia credito alla scheda. Mentre oggi non c’è più nulla, anzi, se perdi tempo a parlare con uno indeciso fai gli interessi della compagnia che ti ha abbonato. Che poi se eri tu che chiamavi e non mettevi giù alla fine, a quell’altro gli rimaneva il telefono bloccato, chissà se le cose funzionano ancora così. Una volta qualcuno a casa mia aveva fatto soffrire un fidanzato troppo geloso che era rimasto, a conversazione finita, a singhiozzare all’altro capo e me n’ero accorto io che dovevo chiamare qualcuno proprio dopo quella conversazione fiume – la cornetta era rovente – e non potevo perché quell’altro chissà dove piangeva inconsolabile e non ne voleva sapere di chiudere. Ma a parte questi casi limite, ci sono risposte che non ce la sentiamo di dare così sui due piedi, te lo insegnano pure a scuola di pensare a come formulare quello che devi dire. Oggi poi che quando telefoniamo ci guardano tutti sai che vergogna non essere preparati sui propri sentimenti. Altro che quei concorrenti dei quiz televisivi che non sanno chi sia Hitler e quando è vissuto. Leggersi dentro ci riesce male, il mondo è pieno di persone affette da questa variante della presbiopia interiore. Restano così quelle pause vuote con il tempo sospeso che logora il filo che c’è ancora ed è quello che regge due persone, non sapremo mai come è andata a finire né se c’era una tariffa particolare a proteggere la facoltà di non rispondere.

la grande bellezza del capitale umano

Standard

Va bene, datevi una calmata, ho capito, ho capito. Conosco i miei limiti e lo so, la mia gestione delle risorse umane è inqualificabile. Sono consapevole del fatto che per mettere insieme uno stipendio dignitoso occorra adattarsi, in taluni casi turarsi il naso, e poi fare quello che ci viene assegnato senza discutere, altrimenti quella è la porta. Ciò non risolve i problemi. Certe mansioni, quelle in cui entrano in gioco fattori individuali che hanno una matrice comportamentale, psicologica, o comunque derivante dal vissuto personale, non è che si imparano. Chi vi dice di aver frequentato dei corsi ad hoc sappiate che ha solo alimentato il fumoso sistema della formazione manageriale. O, come nel mio caso, ci si può anche sforzare a una loro esecuzione scolastica ma il risultato che ne deriva è sempre in quella zona grigia tra la sufficienza e i valori negativi. Non c’è una dinamica causa-effetto che permetta la composizione di una formula matematica. Prendo sei uova, le metto nell’apposito contenitore, passo il tutto al collega successivo nella catena di montaggio che timbra la data di scadenza e così via. Si, lo so, oggi nemmeno queste operazioni si fanno più manualmente, ci sono fior fiore di macchine per il packaging industriale nella costruzione delle quali, peraltro, noi italiani siamo leader nel mondo. No, con gli stati d’animo e i rapporti interpersonali non funziona così. Vi prego quindi di avere pazienza se lascio spazio quando dovrebbe prevalere la mia volontà, se non riesco a non ascoltare quando non ci dovrebbe essere voce in capitolo altrui, se nella scelta dei fornitori prevale l’affinità elettiva al valore professionale, senza contare che mi fido solo se e quando le cose le faccio io perché sono certo che delegando il risultato non sarebbe analogamente appagante, e vi giuro che non è per presunzione ma solo per esperienza. Nel lavoro di team sono uno di quelli che si fissa sul lato estetico, che non si sa spiegare, che si lascia prevaricare, che vorrebbe essere altrove, che disegna facce sempre uguali sul blocco degli appunti mentre parla chi dovrebbe stare zitto. Chiaro che non lo dico a nessuno, non voglio mica rischiare il mio posto, né mi lamento o chiedo di essere sostituito. Vi chiedo solo di essere un po’ più comprensivi, farò tutto il possibile per migliorare.

senti, non sarò mai uno di quegli uomini da “inizio ad aspettarvi in macchina”

Standard

Senti, volevo solo assicurarti che non sarò mai uno di quegli uomini da “inizio ad aspettarvi in macchina”. Quelli che scendono in strada e si mettono a scaldare l’auto come esistessero ancora motori che devono essere scaldati, mentre moglie e figli finiscono di prepararsi. Quelli che si mettono davanti al cancello sulla via, seduti al posto del guidatore con le quattro frecce, vestiti con giacconi invernali sintetici e con le spalle cadenti. Che si mettono a osservare il fumo che esce dalla bocca per il freddo allo stesso modo in cui lo facevano da bambini e azionano il ventilatore per non appannare i vetri, guardano nello specchietto se sono di intralcio al traffico anche se al sabato mattina non c’è nessuno in strada. Poi se il resto della famiglia tarda un po’ perché c’è la bambina che non si è pettinata, il gatto che è rimasto chiuso nell’armadio, la spazzatura che è fuori sul balcone e occorre differenziare i resti della colazione, gli uomini da “inizio ad aspettarvi in macchina” pensano che forse sarebbe stato meglio uscire di casa tutti insieme, ma allora sarebbe stato necessario darsi ancora un po’ da fare e con il giaccone invernale sintetico addosso in casa fa caldo. Infatti gli uomini da “inizio ad aspettarvi in macchina” sono l’involuzione di quelli che se ne stanno già vestiti con la mano sulla maniglia della porta di ingresso, mentre moglie e figli non sono ancora pronti. Chi si deve ancora truccare, chi ne approfitta per fare la pipì, chi ha deciso di cambiarsi le scarpe perché non stanno bene con il montgomery. Ed è per questo che gli uomini da “inizio ad aspettarvi in macchina” pensano di essere più utili portandosi avanti, preparando tutto quello che un volta fuori dall’appartamento servirà per partire, indipendentemente dalla destinazione. Ma quella dell'”inizio ad aspettarvi in macchina” poi assume un diverso significato, quello di auto-giustificarsi mansioni lontane dagli altri solo per evitare la conversazione e poter immergersi nei propri pensieri ed è poi la prima cosa su cui uno riflette in macchina, con il motore acceso e le quattro frecce, fermo ad aspettare che qualcuno scenda. Ecco, ti assicuro che non sarò mai uno di quegli uomini da “inizio ad aspettarvi in macchina”. Intanto perché non indosso giacconi invernali sintetici e con le spalle cadenti. E poi ci pensavo proprio ieri mattina mentre ti aspettavo in macchina, ero sceso per far prima ma poi alla fine siamo arrivati in ritardo come se ci fossimo mossi tutti insieme. Io volevo solo rendermi utile, ma poi, da solo al posto del guidatore e con le quattro frecce, ho pensato a quanto è sciocco sottrarti del tempo che si può passare insieme, anche a differenziare i resti della colazione o ad aspettarti sulla porta già pronto per uscire.

tra le tante contraddizioni di un’età come la nostra: ecco un post generazionale

Standard

E vi confesso che ultimamente mi piace sempre di più giocare al signore di mezza età, a fare quello che si muove con dignità vestito come si deve, o comunque meglio dell’abbigliamento medio di prima, a comportarmi da valido e buon punto di riferimento educativo per i propri figli. E ancora mi piace sempre di più fare la paternale ai più giovani che arrancano spaesati nel campo in cui dovrebbero giocare titolari, a parlare del tempo che ci si metteva a comporre un numero con tanti zeri e nove girando le rotelle dei telefoni da muro di una volta e del David Bowie di Low e del suo lato B, quasi tutto strumentale, ai Social Media Manager e a chi è diventato maggiorenne quando al top della musica underground c’erano gli Smashing Pumpkins.

Vi confesso che mi piace sempre di più giocare a osservarmi strozzato nella mia sciarpa annodata sopra il colletto rigido della camicia celeste conducente di autobus come solo i milanesi sanno fare. Solo loro anzi noi ne abbiamo il diritto considerate la avversità meteo almeno sulla carta e sui libri di geografia. Considerato anche quanto stiamo in giro per lavoro o quanto altri stanno in piedi sulle gradinate di San Siro – io no, non amo il calcio e se lo amassi sarei comunque genoano – ad aspettare al freddo che una delle due squadre del cuore entri in campo dagli spogliatoi per dare inizio allo spettacolo. Poi a controllare le mie polacchine color cuoio che non passano inosservate, e a pensare che quando le ho prese ero perplesso che, prima o poi, sarebbe giunto il momento di separarsi dalle snickers da cento euro.

Così mi piace sempre di più giocare a camminare brizzolato con le mani in tasca e mi do persino le arie di quello che, anche se è più o meno a metà di quanto gli sia stato concesso per abitare il pianeta, ha avuto la fortuna di essere nato addirittura negli anni sessanta, di aver beneficiato della prodigalità dello stato sociale, dell’approssimazione in eccesso della sanità pubblica, della benevolenza degli enti locali e dei loro regali di Natale ai figli dei dipendenti della pubblica amministrazione, dei programmi del Dipartimento Scuola Educazione e delle sigle di musica progressive delle trasmissioni ad alto livello culturale e pedagogico della tv nazionale. Sono solo uno dei tanti che ha dilapidato le risorse destinate alla comunità e ai posteri, ma che ora ha ancora troppo (almeno lo spero) da vivere per non rimanere indenne agli effetti della bancarotta.

Per questo posso scegliere da che parte stare, tra i salvati o i sommersi, tra gli apocalittici o gli integrati, tra i senior o i precari, tra quelli della mia età o i trentenni forever. Ma ora non più. Ho fatto la mia scelta. Da qualche tempo mi piace giocare al signore di mezza età e, vi confesso, sono anche piuttosto in gamba.

se sei fuori dal tempo basta un click

Standard

Se osservate bene questa foto del mio pianoforte, e dovete avere molta lungimiranza e fantasia perché in realtà la foto non esiste ma il pianoforte si e prima o poi una foto la farò e la posterò, potrete notare che il metronomo nero non è assolutamente in tinta con il marrone scuro del mobile dello strumento. Forse il primo pianoforte che ho avuto, a noleggio e agli albori dei miei studi pianistici, era nero e il metronomo è stato acquistato di conseguenza, ma non ricordo e non ci metterei la mano sul fuoco. I miei, che hanno disposto e provveduto economicamente anche alla mia educazione musicale, non badavano granché a dettagli estetici come quello.

Ma questa è solo l’unica lacuna di quello che ritengo sia l’elemento cardine di tutta la musica e, in senso traslato, di tutta la vita. Il sistema di scansione regolare del tempo – quell’odioso, rassicurante e marziale tìn tac tac tac tìn tac tac tac a velocità regolabile che dovrebbe accompagnare ogni pezzo eseguito durante le sessioni di studio del pianoforte – e soprattutto l’abituarsi a suonare con esso qualunque cosa – classica, rock, jazz, canzonette, improvvisazioni a cazzo, il gatto che zompetta sopra la tastiera eccetera – farà di voi non solo dei valenti e rigorosi musicisti, ma anche persone migliori (guardate me!) capaci di scandire ritmicamente ogni gesto, di camminare senza intralciare l’andatura altrui, di ballare in armonia ai concerti evitando di dare testate e gomitate inopportune al prossimo, di programmare al meglio il vostro futuro imminente misurando le distanze e il tempo impiegato per raggiungerle (anche solo metaforicamente) nonché di tagliare e riciclare parti di brani in formato digitale con apposito software di audio editing e farne ciò che preferite. Una serie di vantaggi mica male. Se non mi credete, provate ad ascoltare musicisti cresciuti studiando senza e ad accompagnarvi con loro. Tecnicamente ineccepibili ma alla seconda strofa li avrete già persi. E non sono solo io a dirlo.

Dovremmo fare tutti quanti come Giorgio Moroder. Giorgio Moroder voleva fare un album con il suono dei 50, dei 60 e dei 70 e quindi ottenere il suono del futuro, almeno questo è ciò che asserisce nel tributo che i Daft Punk gli hanno dedicato nell’ultimo celeberrimo album. Giorgio Moroder voleva inventare il suono del futuro, e pur non avendo idea di cosa fare e di come ottenerlo decise che avrebbe usato un click, che per i non addetti ai lavori è un impulso sonoro che, registrato su una traccia di un registratore a più piste, è in grado di far suonare a tempo non solo i musicisti in carne ed ossa che lo utilizzano come un tradizionale metronomo, ma anche di trasmettere il tempo da tenere a sequenze preregistrate su sintetizzatori analogici. In questo modo non solo batteria, basso, chitarra e tastiere possono suonare a tempo e non necessariamente simultaneamente, ma anche arpeggiatori, parti ritmiche, drum machine eseguono parti perfettamente sincronizzate con tutto il resto. Oggi ci sono i sequencer e i computer, e se un tempo le cose funzionavano diversamente il risultato non cambia. Quando ascoltate una canzone del vostro gruppo preferito, tutto fila miracolosamente a tempo perché da qualche parte, nascosta sotto tutti gli altri strumenti, in studio è stata usata come prima cosa una traccia di metronomo.

Ma non lasciatevi spaventare da questo mini-manuale operatore, peraltro molto approssimativo. Il bello di suonare o registrare o fare qualunque cosa di musicale con il click è che un brano alla fine puoi montarlo, smontarlo e paciugarlo come vuoi. Ci si può intervenire facilmente con qualunque strumento o effetto sonoro prima, dopo, durante fino a stravolgere il risultato.

Ora pensate la genialità di questo sistema e provate ad applicarlo a voi stessi. Se tutto è a tempo, tutto è assolutamente intercambiabile. Possiamo entrare e uscire a piacimento dalle situazioni e rimanere perfettamente allineati a ciò che accade, sia che siamo dentro che se per qualche motivo ci siamo chiamati fuori. Abbiamo infatti comunque la certezza della sequenza di ciò che succede suddivisa in moduli della stessa durata e possiamo tornare a reimpadronirci del flusso degli eventi a nostro piacimento. Per non parlare della assoluta percezione di fattori quali la durata, la velocità e ciò che succede lungo le altre tracce che stanno suonando contemporaneamente alla nostra, sincronizzate al millesimo di secondo. Non solo. Disseminare la propria vita di punti fissi facili da ripercorrere e trovare, un po’ come accadeva per i sassolini bianchi di Pollicino, perché collocati intelligentemente a tempo – l’intelligenza sta proprio nello scegliere una velocità adeguata alla propria indole – ci permette di disporre di una mappatura della nostra esistenza con tanto di introduzione e finale che, si spera, sia il più possibile ad libitum.

che cos’è tutta questa confusione?

Standard

Dev’essere quello strano torpore che genera l’intimità tra due persone della nostra specie a far sì che, quando nella vita succedono quelle cose per cui uno va da una parte e l’altro va dall’altra, subentra l’imbarazzo di lasciare incustodito uno spazio che una volta, magari anche solo per pochi istanti, è stato comune. Lasciate perdere Google Maps. Mi riferisco a un luogo metafisico, che è quello in cui ci si scambiano cose come le secrezioni dei propri corpi ma anche come gli scontrini di brunch consumati insieme sui tavolini di trattorie del lungomare ai primi bagliori primaverili, in veste di turisti del weekend venuti da lontano ad anticipare i mesi caldi, sotto gli sguardi sorpresi degli autoctoni che vivono ancora la diffidenza della stagione precedente certi che darà ancora filo da torcere. Prima delle pareti in muratura, che solo i più fortunati riescono ad aggiudicarsi con anni di mutui e finanziamenti, ci sono questi ambienti più provvisori del cartongesso dove però nessuno vieta di sistemare la proprie cose a disposizione di una speranza di vita insieme. Ma sbagliate a pensare che sia altrettanto facile sgomberarli come gli ultimi giorni di un temporary store, quando non si bada nemmeno più a chi entra e chi esce e con che cosa sottobraccio. Probabilmente quello che ci resta appiccicato delle persone con cui ci mettiamo comodi, anche solo qualche minuto in questa profondità ignota, è un residuo della stessa materia con cui un tempo i nostri predecessori si inventavano le cosmogonie, e che non ha nulla in comune con la mera divisione della scorta di prove della volontà di un progetto condiviso che si accumulano con il tempo. Le tendine a vetro del bagno cucite da una suocera esperta, i prodotti dell’industria culturale scelti oculatamente per rientrare nel budget del buono della Feltrinelli ottenuto come regalo aziendale per un Natale appena trascorso, le guide di viaggio in paesi poco distanti dal proprio, effimere quanto i postumi di una nevicata fuori stagione, in una geografia di un mondo che, con il suo vortice rotatorio, non lascia nulla per definito e tanto meno eterno. Poi un giorno magari ci si trova allo stesso tavolo, anche dopo poco tempo, ma con nuovi co-inquilini della propria anima o come preferite chiamarla, in momenti in cui non sono certo che tutti siano in grado di provare che non c’è nemmeno una particella di sé rimasta da riprendersi, custodita in qualche punto lì nei dintorni.

ecco perché si dice “fare le corna” come scongiuro

Standard

Il mio migliore amico di allora mi ha appena ricordato di quando si era giocato la benevolenza di un potenziale suocero dopo avergli detto “buona pesca” senza sapere, non essendo del mestiere, che un augurio di questo tipo ai pescatori è vietatissimo, in quanto latore di eventi nefasti che vanno da un semplice ma oltremodo frustrante rientrare in porto a mani vuote fino alle peggio sciagure da mare aperto, tempeste incluse.

Il potenziale suocero aveva lanciato uno sguardo carico d’odio alla figlia traducibile in “che cazzo dice questa leggera di fidanzato che ti sei scelto” e lei si era subito sentita in dovere di dare al suo futuro ex amato spiegazioni di quel gelo famigliare. Son cose che non si dicono perché portano iella. Ma lui l’aveva visto abbigliato con una giacca tecnica – un parka da lupo di mare verde mod che gli invidiava tantissimo – imbracciare l’attrezzatura necessaria a coltivare (per modo di dire, essendo l’acqua e non la terra il suo elemento primario ) l’hobby da weekend lontano dalla moglie e con un’espressione così carica di aspettative che raggiungerlo con il buon auspicio di far fruttare i propri sforzi gli sembrava il minimo. Si sbaglia anche così, quando si pensa di agire nel giusto.

E per sottolineare il fatto che tra le persone di intelligenza e buona cultura nessuno è superstizioso, è bene ricordare che il “buona pesca” in realtà gli si era ritorno contro. Se il potenziale suocero non aveva aumentato di una unità ittica il suo bottino medio da pescatore principiante, lei aveva appunto mollato il mio migliore amico di allora qualche settimana dopo come spesso accade per gli amori tra ventenni, che le prime settimane sembrano dover durare in eterno e poi alla prima verifica dimostrano tutti i loro limiti, soprattutto se uno dei due finisce a letto con un altro.

Ma a lui piacevano le ragazze molto alte come lei, il che peggiora la condizione di sedotto e abbandonato. Una ragazza molto alta la vedi ovunque svettare sugli altri, e quando si accompagna a un partner che non sei tu – di norma della stessa metratura – soprattutto dopo che lo sei stato tu è molto frequente e facile individuarla da distante, aumentando così le possibilità di struggimento da gelosia. Poi da vicino lei ostentava nella calca quei suoi capelli chiari, lisci e lunghi così difficili da raccogliere tanto erano sottili, metafora di un comportamento standard come se fosse naturale chiudere storie e aprirne altre, come muoversi tra stanze comunicanti, in cui l’unica accortezza è quella di non far sbattere la porta dopo aver spalancato la finestra per far sparire quella puzza di chiuso. Così la osservava allontanarsi e basta, gli sembrava poco opportuno salutarla con un augurio di buon qualcosa. Ma solo per scaramanzia.