consolare gli afflitti

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Così penso di chiedergli perché sta piangendo non tanto per impicciarmi degli affari suoi ma perché sembra essere diventato un dovere quello di intervenire sempre e comunque con gli amici che manifestano qualche difficoltà, anche a rischio di agire a sproposito ed è una cosa con cui alcuni, me per primo, devono ancora prendere le misure. Con Jose è andata così. Tutti a chiedergli che bisogno c’è di prendere i tranquillanti e berci dopo, quando ha due fidanzate entrambe strafiche, un lavoro pesante ma sicuro e redditizio, una macchina a meno di non sfasciarla una volta in cui è strafatto come ora, una casa a meno di essere sbattuto fuori per lo stesso motivo e soprattutto tanti amici che gli fanno i professori di buone maniere come noi ora ed è a quel punto che ingoia altri due tavor e li butta giù con una golata di amaro Montenegro. Ora vedi uno piangere e accendi la sirena e ti fai in quattro no? Insomma, mi tira fuori una fototessera di una mai vista con un’acconciatura smaccatamente maschile ma per il resto passabile e mi dice che è da qualche giorno che sta con questa new romantic e non è mai stato così felice. A un’occhiata piú attenta riconosco trattarsi di quella che tutti chiamano la cucustrilla, una crasi azzeccata e sin troppo vezzeggiativa tra cocorita e pipistrella, quella che si accozza sempre allo stellone, che è soprannominato così per via delle punte in cui si cementa i capelli con la lacca. Sarebbe da guastargli tutto con un po’ di sano cinismo da fine gennaio e ricordargli tutte le altre volte in cui mi sono sorbito le sue invettive misogine ma chi se ne frega, domani o dopo gli busserà alla porta un ex che rivendicherà uno strascico con cui competere o addirittura da prendere a pugni, questa cosa comunque del gruppo e dell’amicizia per cui bisogna mettere al riparo gli sprovveduti e chi si caccia nei guai deve finire. Mi viene d’istinto però voltare la fototessera e sul retro noto la data di ieri scritta a penna e mi accorgo che oggi è oggi, ed è l’ultimo giorno utile per una cosa importante, una scadenza per la quale so già che non avrò alcuna proroga. Non c’è nessuno a farmi da agenda, e penso che questa si che sarebbe una funzione utile che dovrebbero ricoprire le persone che ti circondano.

(r)estate da soli

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No, non è un reportage di Studio Aperto, almeno non nelle intenzioni. Ma quando leggo di qualcuno afflitto da singletudine con l’aggravante del completo isolamento perché fresco fresco di scaricamento e quindi provato dallo status di eremita imposto dall’aver trascurato tutte le altre relazioni amicali in quanto completamente concentrato nella storia testé finita male, ecco io vorrei dirgli che invece nelle sue condizioni ci sono tantissime cose da fare e di contare fino a dieci prima di gettarsi a capofitto sul sito di avventure nel mondo o di passare al setaccio i contatti Facebook alla ricerca di un facile ripiego. Di un/una ex o di qualunque tipo di usato – anche sicuro – ci si pente nel giro di qualche ora in condizioni normali, o al massimo la mattina successiva dopo una bisboccia. Ma trascorrere addirittura le vacanze. Suvvia. Un po’ di amor proprio.

Ci sono tanti modi per trascorrere le ferie da soli. Potete organizzarvi un viaggio un po’ diverso dal solito, vi sconsiglio l’albergo perché non c’è niente di più triste, ma provate invece come fanno nel nord-europa. Non vi è mai capitato di incontrare persone da sole in tenda? Ricordo una giapponese che girava le coste della Sardegna in bici in affitto e uno zaino con un equipaggiamento minimale, un paio di short, una maglietta di ricambio, due costumi da bagno, materassino da yoga, igloo da un posto e poco più. Oppure compratevi un biglietto per una linea di pullmann internazionale e fatevi un viaggio in qualche cittadina di provincia europea. O ancora potreste trascorrere un po’ di tempo con i vostri genitori, a loro non può fare che piacere. Almeno credo.

Se decidete di rimanere in città ci sono tante cose da fare, a meno che non abitiate in uno di quei posti dove in agosto fuggono tutti. Musei, ville, cinema, tour in bici. A me piace visitare pedalando i quartieri quelli un po’ depressi, che in estate danno il peggio di sé. Cose che non posso che fare da solo, mia moglie è refrattaria a proposte di questo tipo. Bello anche andare a leggere un romanzo all’aperto, se non si muore dal caldo. Basta una panchina all’ombra e il gioco è fatto. Ma non c’è niente come starsene in casa, nella propria casa, e godersi una parentesi di solitudine. Almeno io ho fatto così l’ultima volta che mi è successo, una quindicina di estati fa. Avevo allestito tutto il mio set da tastierista collegato al pc, mi ero procurato intere collezioni di film (non porno, giuro) e telefilm che avevo perso in tv, libri in abbondanza, cibo e bevande in quantità da attacco nucleare. Ho passato così una decina di giorni a cavallo di ferragosto, uscendo solo per avere ristoro con il buio e staccare un po’. Se hai speso molto per costruire una vita con altri, a esperienza conclusa non c’è niente di meglio che dedicare risorse a ritrovare te stesso.

rincorrersi con i sentimenti: tecniche di sincronizzazione dell’amore

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Ma ora parliamo di dinamiche amorose. Siete sicuri di averle provate tutte? Se la risposta è affermativa, un po’ vi invidio perché a me è successo di andare avanti per anni con lo stesso modello, come se avessi acquistato un abbonamento di quelli che ti danno la certezza di risparmiare ma poi, a far sempre uguale, alla fine rompe i maroni ma non puoi cambiare, pena la perdita di quanto hai investito. Bella metafora, eh? Comunque ci sta anche che andasse così, sentite qui. Mi piaceva una ragazza, poi mi piaceva sempre di più fino a quando ne intravedevo l’aura luminosa intorno. Il momento della completa devozione e dell’annullamento con completo smarrimento della dignità coincideva quasi sempre con un segnale o un manifesto gesto a sancire l’impossibilità di passare di grado verso una fase di sentimenti corrisposti. Un punto di non ritorno che precipita il malcapitato, in questo caso me, negli abissi della crisi durante la quale, toccato il fondo – una fase in cui ci si dedica ad attività mirate all’autodistruzione parziale – cresce un nuovo stato di carapace difensivo utile a diminuire il livello di profondità della caduta la volta successiva e si attiva un’opera di damnatio memoriae dell’amata che, nel mio caso, ha sempre condotto a risultati sorprendenti.

Trascorso un tempo variabile a seconda dei danni dell’infezione da lenire, tornavo a vedere persone, cose e ambienti con la mia vecchia lucidità ed è a quel punto che, puntuale come la morte, accadeva che la persona di cui mi ero fatto scendere a zero l’attrazione si palesava fortemente innamorata di me. Questo con alcune variabili, tipo io che già stavo con un’altra, o che rinnegavo il periodo di disintossicazione per poi accorgermi che non ne valeva la pena, oppure che mi impegnavo a prendermi rivincite a non finire per il trattamento ricevuto prima, con il solo intento di fare il più male possibile. Poi le cose si trascinavano così per un po’ fino a quando il tutto finiva soffocato nel nulla. E se è successo anche a voi sapete che da lì in avanti c’è tutto il tempo per i seguiti, rigurgiti, ripensamenti, prendersi e riprendersi e lasciarsi e abbandonarsi, magari nell’arco di qualche anno.

Non saprei dare un nome a questa dinamica amorosa, so solo che poi per finirla e non cascarci più uno matura una serie di tecniche per accelerare il raggiungimento di attrazioni reciproche in equilibrio e aspettare il livello perfetto dei vasi dei sentimenti comunicanti, prima di dare il via agli scambi di pezzi di vita. Lo so, essere calcolatori in amore toglie un po’ di poesia ma, alla lunga, premia in salute.

richieste di amicizia

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Ho le prove per cui il seguente processo:

– noto un conoscente su Facebook che non vedo da secoli
– dopo una lunga riflessione decido comunque di chiedere l’amicizia
– il conoscente che non vedo da secoli accetta immediatamente e avvia una conversazione privata
– al terzo scambio di convenevoli il conoscente mi chiede di vederci una sera per bere una birra
– lasco cadere nel nulla l’invito
– termino la conversazione privata con una scusa
– mi pento di avergli chiesto l’amicizia, malgrado la lunga riflessione

è piuttosto comune.

a gentile richiesta

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Quindi, ricapitolando, questo potrebbe trattarsi benissimo di un caso di vittimismo. Uno cioè scrive tanto perché ha tante cose che non dice a nessuno ma perché nessuno gliele chiede. Sarà così anche per me? Di certo non sono uno che si siede di fronte a un amico a inizia con dirgli che quindi, ricapitolando, questo potrebbe trattarsi benissimo di un caso di vittimismo. Uno cioè scrive tanto perché ha tante cose che non dice a nessuno ma perché nessuno gliele chiede. Sarà così anche per me? Di certo non sono uno che si siede di fronte a un amico a inizia con dirgli che eccetera eccetera, avete capito dove voglio arrivare e anzi potrei arrivare all’infinito.

Ma certe cose bisogna chiederle per sentirsele dire e il mondo sapete perché va a catafascio? Perché nessuno fa più domande. Io sono uno passivo, nei rapporti interpersonali. Cioè, attivo perché chiedo e passivo perché sto a sentire. E in un mondo ideale la cosa è abbastanza bilanciata, il che significa che nella vita quotidiana non lo è per un cazzo. Ma il fattore sorprendente è io nella mia vita di gente che mi fa delle domande ne ho conosciuta veramente poca. Poi il contrappasso è stato tutto nella sfera genitoriale, se avete figli sarete arrivati a un certo punto in cui di domande, soprattutto di perché?, non ne potete più.

E a parte questo, uno si disabitua talmente tanto a dare informazioni, e non solo su di sé, che poi quando succede tra capo e collo si va nel panico, le parole vanno per traverso, e l’occasione di essere utile e anche di dare un contributo con la parte propria svanisce all’istante. Per dire, ho incontrato qualche giorno fa il commerciale di una società a cui dovrei commissionare dei lavori, e sapete bene di questi tempi cosa vuol dire ottenere degli incarichi. Ci credereste se vi dicessi che in un’ora riunione non sono per nulla riuscito a descrivergli perché ero lì, di cosa avevo bisogno, qualche dettaglio sull’agenzia in cui lavoro. Niente. Il mio interlocutore non si lasciava interrompere nella presentazione di chi rappresentava, il che è encomiabile ma dopo un po’ rompe i maroni.

Prima di abbandonarmi al mio destino, che è quello di non suscitare curiosità altrui alcuna su chi sono, cosa faccio, che libri leggo, che musica ascolto e così via, prima di chiudere nuovamente questa finestra di contatto tra blog e mondo esterno che ho aperto sfondando la barriera aristotelica nel nome dell’amore che vige in questo ambiente dalle connotazioni geografiche indefinibili fatto di dati e informazioni, lascio così un breve spiraglio di interazione con voi allo scopo di rispondere ai vostri quesiti. Fatemi pure tutte le domande che volete, se ne avete.

facoltà di lettere, scritte e mai ricevute

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Nell’immaginario delle storie d’amore non c’è nulla di più virile del beau geste di una valigia pesante sollevata da terra con i muscoli delle braccia maschili in tensione e posizionata in alto, sul ripiano portabagagli di uno scompartimento ferroviario, come supporto al gentil sesso. Offrirsi di portare un borsone contenente un’intera stagione di abbigliamento universitario per il cambio natalizio con i vestiti più pesanti e adatti alla sopportazione della trimurti dei mesi del gelo assoluto seguente, dal binario di attesa al posto prenotato sull’Intercity, scatena immediatamente tutti gli ormoni della prosecuzione della specie. Io e Federica ci siamo conosciuti così.

Sin dagli albori dell’anno accademico 90-91 avevo usato lanciarle caparbi segnali di invito all’accoppiamento confortato da un numero di conferme di rimando che lasciavano presumere un esito dignitoso alle molteplici dimostrazioni di rinuncia alla mia dignità, il preambolo quasi obbligatorio di ogni sacrificio amoroso. Ero attirato dal suo caschetto asimmetrico, dall’abbigliamento all-black e da certi ascolti eterodossi e presunti che uniti a bigiotteria macabra, trucco e calzature anti-infortunistiche ne consolidavano l’orientamento superbamente arrendevole, almeno nella mia fantasia.

Non mi ero così lasciato scappare l’occasione ghiotta di un viaggio di ritorno definitivo sulla tratta comune, il rientro a casa prima della pausa di dicembre. Prima che potesse dire qualcosa, come un mascalzone latino qualunque, le avevo sottratto il borsone di mano invitandola a seguirmi, di sicuro un paio di posti liberi – tutti per noi – sull’ultimo treno dopo la chiusura delle attività accademiche lo avremmo trovato.

Io e Federica avevamo trascorso così quell’ora e rotti di viaggio insieme. I libri, i dischi, il passato e quello che ci aspettava, il suo ragazzo Giovanni dal nome troppo ordinario per una complessità british-orientend, io sommerso dal dramma esistenziale di un servizio militare capitato nel mezzo degli studi. Troppo vicini sui sedili di fortuna, quelli che nei corridoi dei vagoni assicuravano un po’ di riservatezza a chi non voleva condividere la propria vita con passeggeri casuali. Sembra un’era geologica rispetto ai tempi odierni delle conversazioni telefoniche private tenute senza pudore al cospetto di chiunque, sui mezzi pubblici.

Ci siamo lasciati così, come quei film in cui se lo sceneggiatore ha deciso che due si devono incontrare ancora, per ragioni di botteghino tutto può succedere. Se avessi azzardato un approccio in quel frangente, Federica avrebbe avuto qualche complicazione sentimentale, senza contare che il nome Giovanni e la sua appartenenza a una famiglia dalla forte connotazione meridionale tradiva comunque frequentazioni poco rassicuranti e una catena di rivendicazioni svantaggiose. Ma non avevo dubbi che il destino avrebbe compiuto ugualmente il suo corso.

Ci siamo incontrati infatti di nuovo qualche mese più tardi, in coda alla segreteria di facoltà per il pagamento dell’ultima rata d’iscrizione. Il fatto che avessi pensato fortemente a lei, varcando il portone della sede, aveva elevato a valore esponenziale la casualità del rivedersi e il riprendere la conversazione da dove un saluto frettoloso ci aveva lasciati. Per non perdere tempo, e per non lasciarmi sfuggire una seconda volta l’occasione, mi era sembrata una buona idea – malgrado la ressa di studenti isterici che ci stavano ascoltando – la proposta di instaurare un rapporto epistolare mentre ero ancora in caserma, proprio come un soldato al fronte. Un’ipoteca su una vita insieme futura malcelata nella stesura di un aggiornamento anacronistico di un’esperienza, la naja, il cui valore esistenziale ed intrinseco già era pari a zero se non controproducente. Tutti già sceglievano il servizio civile, soprattutto negli ambienti più intellettuali, solo a me avevano respinto la domanda e costretto alla leva obbligatoria.

Federica in quel frangente si era premurata di lasciarmi i suoi dati, ma avevo colto immediatamente un presagio nefasto, l’esitazione nello scrivere su un foglietto di fortuna il suo cognome che, a rileggerlo dopo averlo riportato fedelmente sul dorso della busta, mi suonava così esotico ed evocativo di civiltà ormai scomparse. In quella lettera che le avevo scritto pochi giorni dopo il nostro incontro mi ero messo a nudo e avevo concentrato tutte le mie energie sentimentali, è facile immaginare la delusione dal non aver ricevuto mai risposta alcuna.

E, a così tanti anni di distanza, mi è stato possibile avere la conferma che la mia lettera non è mai arrivata a destinazione. Ho approfittato dei motori di ricerca e dei social network per rintracciare proprio Federica, perché da quell’ultimo episodio in segreteria di facoltà non l’avevo mai più incontrata. Ho scoperto così che il cognome e l’indirizzo che Federica mi aveva fornito erano totalmente inventati. Un modo elegante di sbarazzarsi di uno che ci voleva provare e che, a posteriori, mi sembra persino geniale.

agli antipodi dell’amore non c’è mica l’odio, cosa credete

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Osservateli entrambi qualche istante ai due capi opposti del tavolo, senza farvene accorgere perché fissare gli sconosciuti o comunque la gente in generale è maleducazione. Sì, stavo giusto per dirvi proprio che tutti e due siedono a fianco del reciproco nuovo partner. Ma anche se non vi avessi svelato questa specie di spoiler, apparentemente a nessuno verrebbe da dire che, in un tempo che fu, quei due si sono amati così tanto, davvero. E anzi se ci riflettete anche a voi verrà da chiedervi cos’è che l’amore sottrae vicendevolmente se poi resta il fondo, o il contenitore, insomma metafore ce ne sono a iosa ma tutte riconducibili a quella specie di ciste asportata che potremmo chiamare il suo contrario, “suo” riferito all’amore, intendo. Nel senso che agli antipodi dell’amore non c’è mica l’odio, cosa credete. Fate una torsione di 180 gradi e vi trovate che vi siete dimenticati tutto quello che è stato. Il non-amore, quello che subentra anche quando nessuno dei due ha commesso qualcosa di particolarmente oltraggioso, non ci sono stati tradimenti, botte, recriminazioni.

Entrambi sono gli stessi che hanno sovrapposto le bocche la prima volta meravigliandosi del sapore altrui, che si sono cercati la mano al buio, che si sono raggomitolati alla ricerca di reciproci tepori sotto le lenzuola di flanella nella casa di campagna riaperta estemporaneamente in autunno inoltrato, senza poter accendere il riscaldamento a propano liquido per via del serbatoio ancora vuoto e così – fallito anche il tentativo della stufa a legna umida – meglio l’autarchia dei corpi. Poi i punti di forza si trasformano in criticità, quante volte è successo? Le cose dell’altro che ti mandano in visibilio non hanno più l’appealing di un tempo, qui una volta era tutta passione, non ci sono più le mezze verità, tutti i luoghi comuni abitati insieme si snaturano tanto che in due non ce li si può proprio più permettere e si finisce che si trasloca in uno spazio immaginario diverso. I due membri della coppia agli sgoccioli fissano la stessa cosa simultaneamente – un film, un amico che balla, un cugino che si sposa, una meta turistica – ma in mezzo c’è una specie di striscia continua che spinge entrambi a rintanarsi nella propria corsia e poi le uscite, ovviamente, mica sono le stesse.

Il risultato di questo evoluto processo di mitosi multicellulare spinge gli ormai ex a spendere il nuovo bagaglio empirico nel corso di altre sperimentazioni sentimentali, ognuno forte del sé e di quello che ha portato a casa ormai indissolubile dalla precedente storia come se una parte di noi si fosse mescolata e al momento dell’addio fosse stato difficile distinguere quello che era appartenuto all’uno da quello che era appartenuto all’altro. Non è che tutto è riconducibile a una spartizione, mica ci sono solo libri, dischi e biglietti di concerti. Magari. Ma, a considerare il lato positivo, questo mi induce a pensare che è tutto un gran confondersi di personalità qui intorno, c’è qualcosa di tutti noi in tutti noi e non solo da un punto di vista genetico. Cosa non si farebbe per trattenere il più possibile gli aspetti vitali, vero? Detto ciò, torniamo a osservare i due che vi ho indicato prima, che hanno iniziato qualcosa insieme che poi si è interrotto e ora siedono allo stesso tavolo separati solo da una manciata di commensali, ignari conduttori di qualche forma di energia tra due poli che, malgrado i tentativi di dissimulazione, comunque da qualche parte si trasforma in qualcos’altro. Sono certo che sarà proprio quella, così evidente, a farveli riconoscere.

quello che può succedere ad aver visto troppe volte “Fuori orario”

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Ciao, mi chiamo Roberto e ho l’ossessione del labiale. L’ossessione del labiale è una patologia che induce le persone come me che vi sono soggette a osservare le labbra (quelle della bocca, nel senso che è bello osservare anche le altre e anche quella può diventare un’ossessione ma in quel caso il concetto di labiale necessita di ben altro genere di definizione) dicevo a osservare le labbra trovando il piacere della massima comprensione nell’associare i suoni emessi durante la fonazione al movimento esercitato dalla componente più esterna dell’apparato preposto a ciò. Che significa che tu parli e a me, anziché guardarti negli occhi, mi viene da osservarti la bocca.

Vivo nella convinzione che seguire questa pratica consenta di comprendere meglio le parole e il loro significato, prova ne è che al telefono devo concentrarmi il doppio e basta un niente che mi perdo ampi passaggi della conversazione. Non solo: all’università cercavo sempre di prendere i posti più vicini agli insegnanti quando seguivo le lezioni, adducendo la scusa di problemi di udito per poter usufruire di quel meraviglioso rinforzo comunicativo che è la bocca intenta a esprimersi, cosa che permette una doppia ricezione dei significati. Quello della parola, che passa attraverso le orecchie e arriva al cervello, e quello dei movimenti di labbra, denti e lingua che ti anticipano la sequenza dei suoni che seguirà nei successivi millesimi di secondo consentendoti di cogliere prima la parola pronunciata di lì a momenti e conseguentemente un back up con un ritardo impercettibile ma fondamentale, che raddoppia il messaggio in arrivo e ne moltiplica l’assimilazione. Il vantaggio è che sembra di sentire due volte ogni termine, ogni frase, ogni passaggio e questo ne consente una migliore comprensione.

Ma a parte sembrare un po’ spostati o affetti da una sorta di strabismo verticale, l’ossessione per il labiale comporta un ulteriore effetto collaterale. Provate infatti a seguire un film straniero doppiato in italiano e le vostre abitudini allo studio della bocca altrui termineranno schiacciate dall’istinto di sopravvivenza o, per lo meno, da quello stato d’animo per cui, se avete pagato il biglietto del cinema, per una volta potete anche dimenticare le vostre assurde fissazioni. Senza contare che esistono anche molti film e telefilm in italiano in cui l’audio non viene registrato in presa diretta ma aggiunto con la stessa tecnica, per cui l’impressione della non perfetta corrispondenza tra lettere e movimenti dei muscoli della bocca induce a forti traumi psicologici. L’ossessione del labiale è utile anche a individuare se non c’è perfetta sincronizzazione tra una ripresa video e la sua traccia audio, ci sono scene su dispositivi digitali in cui per motivi di velocità del processore la codifica delle immagini rispetto a quella del suono non è perfettamente allineata, così uno può accorgersi subito se c’è qualcosa che non va.

Comunque se soffrite di ossessione del labiale dovreste fare come me e trattenervi. Almeno nella vita reale, a meno di casi soprannaturali o in presenza di persone possedute, difficilmente assisterete a fenomeni di enricoghezzismo, quindi sforzatevi di guardare altrove se non ricambiando lo sguardo di chi si sta rivolgendo a voi, eviterete inoltre l’inutile imbarazzo di chi non si sente molto a suo agio con la propria dentatura, autentica, fittizia o approssimativa, in pubblico.

vivere insieme (12-inch 45rpm ep rmx)

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Non so quand’è che si capisce che quella è la persona giusta per te, non c’è una prova in cui ribalti i fattori, inverti gli addendi o aggiungi quello che hai sottratto. C’è una definizione molto simile a quella che è la verità, che invece definizione non ce l’ha, ed è che molto spesso ti accorgi se le cose funzionano se hai davanti uno o una che ce l’ha scritto in fronte. Almeno così dicono. Sapete, no, quei giudizi di frasi fatte sulle persone, come quando si dice che tizio è un libro aperto, gli occhi sono lo specchio dell’anima e così via. Ma mettetevi nei panni di chi con la fisiognomica non se la cava benissimo, senza arrivare ai paradossi lombrosiani, semplicemente riflettete sul fatto che di facce d’angelo – che poi non ho mai capito cosa voglia dire veramente – il mondo è pieno, e se le cose vanno male la colpa è anche la loro, così i conti non tornano.

Nel mio piccolo, mi fido di più di cosette che a raccontarle fanno persin sorridere. Per esempio se vedi qualcuno che come te non è in grado di scegliere, mentre cucina, il coperchio giusto per la pentola e ci vogliono almeno due o tre tentativi, non lasciartelo scappare. Non valgono gli altri sistemi per valutare le attitudini ad abbinare forme, come quei giochi che si sottopongono ai propri figli in età pre-scolare per inserire contenuti in contenitori. I cerchi passano nei cerchi, le mezzalune nelle mezzalune, i quadrati però anche nei rettangoli se hanno lo stesso spessore e, ovviamente la lunghezza del lato inferiore.

E se avere lo stesso orientamento politico è fondamentale, invece non vorrei deludervi ma leggere gli stessi libri, apprezzare gli stessi pittori o avere analoghe preferenze cinematografiche è ampiamente sopravvalutato. Intanto perché in fase di corteggiamento si forza sempre un po’ questo aspetto a proprio vantaggio, magari creando l’illusione altrui che tutte queste cose in comune vogliono dire qualcosa. Io ve lo sconsiglio, perché dopo qualche anno poi certi adattamenti al vostro sentire stanno stretti, scatta quella voglia di emancipazione in cui i primi a saltare sono quel cantante che avete voluto condividere come alla base del vostre precedente vissuto da single ma quei due o tre pezzi che a malapena conoscevate non fanno certo il tutto e, anzi, vi si ritorcerà contro. Conosco gente che ha chiesto il divorzio perché il partner ha messo un 33 giri partendo dal lato B, non rispettando quindi la volontà e il concept dell’autore.

Discorso diverso invece è se avete uno smisurato senso del tempo, intendo in musica, e non nel senso del susseguirsi degli eventi tanto meno inteso dal punto di vista meteorologico. Se avete una vicina di casa carina, per esempio, e parlo al femminile ma ovviamente si tratta di uno stratagemma unisex, a cui volete manifestare la certezza che vi si prospetta una vita insieme ma che al momento non se ne è accorta perché magari ne ha già una insieme a qualcun altro, fate come quel mio amico che si è procurato lo stesso disco che la vicina metteva sempre a tutto volume, lo si sentiva nel cortile. Anzi, se sono disponibili procuratevi i remix di quei pezzi, e appostatevi sui piatti come si fa quando si scoprono i percorsi e le abitudini altrui e ci si incontra casualmente – anche tu qui? Che combinazione! Al suo ascolto successivo fate partire anche voi il giradischi, a tempo, ovviamente, quindi iniziate a fare degli insert sul pezzo smanettando con il volume, avete presente no come fanno i dj? Metti, leva, metti, leva. E fatevi sentire. Le ragazze, ma penso anche i maschi, se apprezzano poi si prestano ad alternarsi a questa specie di performance live, almeno quel mio amico si è divertito un mondo, la vicina di casa pure, e da lì a mettersi insieme il passo è stato breve. E anzi, sapete che vi dico? Alla lunga può calare il desiderio, può evolversi il sentimento, ma nulla è mai come mettere insieme i dischi. Quando finisce uno può continuare l’altro, senza interruzione. L’amore, in fondo, è una specie di extended play.

combattere i legami di sangue con l’anemia

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Le famiglie a volte sono delle specie di trappole che ti incastrano i sentimenti con qualche esca succulenta. Ti mettono in bella vista del formaggio metaforico come quelle pietanze tirate a lucido per le foto da mettere sulle confezioni dei prodotti e zac, ci rimani sotto doppiamente fottuto, nel corpo e nell’appetito sentimentale che poi ti fa più rabbia perché certe cose dentro proprio non le riesci a controllare. Ma le famiglie possono altresì essere considerate trappole anche a proprio vantaggio, per incastrare gli altri, dipende dagli interessi in gioco, se sei uno stakeholder o un dissidente pronto al tuo spin-off. Nel senso che puoi allestire la tua trappola con un bel pranzetto – che magari poi è un bel pranzetto davvero, con tanto di dolce e ammazzacaffè – e stringere chi ti occorre nel tuo abbraccio letale. Ma a noi che piace sentirci sempre come vittime e topolini, ci vediamo come il fratellino ingenuo di Tom e Jerry, che non ho mai capito chi dei due è il roditore, quello che con il ciripà chiuso da una spilla da balia esce dalla tana perché vede il frigo aperto con ogni ben di dio e dietro c’è il famelico felino pronto a divorarselo. Noi invece attirati dal groviera, sempre metaforico, che è lì sotto la tagliola pronta a ghigliottinarci e che, per essere certi, il mandante lo ha farcito di veleno che non si sa mai.

Ma nelle trappole delle famiglie non si muore mai, sono i sentimenti ad avere la peggio, a sopravvivere menomati con qualche protesi, un apparecchio fonatorio, un dispositivo elettronico che alterna regolarmente diastole a sistole, un manicotto intorno all’arteria che ne impedisce l’espansione o il restringimento. Quegli incidenti sentimentali che poi incontri volti a te noti come come la sicurezza di sé, il senso di adeguatezza o il rispetto del prossimo un po’ sciancati come quelle persone che sopravvivono a un ictus o all’ischemia, poverini, con una parte del proprio corpo che non somiglia più all’altra come se qualcuno di superiore avesse usato il loro fisico per comporre un ideogramma per rappresentare due percentuali pressoché identiche. Ma non conviene nemmeno, secondo me, adottare una strategia per sottrarre l’esca di soppiatto. Lasciamola lì a decomporsi al sole e salviamo le nostre anime, che di fame e di mancanza di affetto, di questi tempi, non muore nessuno. Che poi, tra un topo morto e topo vivo, preferisco trovarmene in casa comunque uno vivo.