il commessaccio: breve guida ai rapporti interpersonali tra gli addetti alla vendita dei negozi di libri usati e i clienti motivati a metter mano al portafoglio

Standard

Siamo talmente provati dal fatto che il mondo si regga solo su rapporti economici e non su altri ideali più romantici come l’amore, la pace, l’etica ma anche il sesso o la cultura, che quando nascono iniziative private che scelgono un marketing basato sul’umanizzazione dei propri prodotti o del modo in cui fanno affari non capiamo più niente. Non dico che chi sostiene di stare sul mercato con modalità più rispettose per il cliente o anche l’ambiente, per esempio, racconti delle balle. Aggettivi come equo e solidale oppure i concetti stessi di impatto zero e chilometro zero catturano la nostra attenzione sulle etichette oggi come mai accaduto nella storia dell’economia.

Ci sono realtà che poi fanno le stesse cose che fanno tutte le imprese, ovvero vendere per guadagnare, ma in modalità diverse, più sostenibili (altro termine chiave per interpretare la contemporaneità) o anche apparentemente di rottura con quelle tradizionali. Un filo conduttore che unisce multinazionali e bancarelle che partecipano alle feste fricchettone e che fa breccia nell’opinione pubblica di un certo tipo stufa dell’approccio intriso di sfruttamento delle risorse naturali e del lavoro dell’uomo. Basta solo ricalibrare qualche ingranaggio di questi sistemi produttivi, non è molto difficile.

Noi popolo di consumatori consapevoli ci aspettiamo però che in queste organizzazioni dalla faccia pulita che salveranno il mondo dall’implosione ci lavorino persone come noi: informate, di una certa cultura, con lo stesso orientamento elettorale, e anche con quella facilità all’empatia con il prossimo bisognoso che contraddistingue la nostra statura morale. In poche parole gente simpatica, alla mano, pronta ad aiutare il prossimo – che nel commercio è sempre quello con la tessera bancomat in mano pronto a digitare il PIN – e attenta alle parole, ai gesti, alla cura nelle relazioni con le persone. Che poi è un po’ quello che crediamo ci sia dovuto dalle istituzioni pubbliche, per esempio. Dalle organizzazioni di beneficenza, al limite. E se già queste dinamiche è difficile trovarle in questi contesti, figuriamoci nell’impresa privata anche se mascherata da tutti quei bei valori che abbiamo ricordato sopra.

Arrivo alla conclusione. C’è una catena di negozi il cui core business consiste nella vendita di libri usati. Ce n’è almeno uno in franchising in ogni città, qui a Milano se ne trovano diversi. Un’idea imprenditoriale intelligente perché acquistano i libri di cui ti vuoi sbarazzare per una sciocchezza e poi li rivendono alla metà o giù di lì del loro prezzo di copertina. Tu te ne liberi, ci raggranelli pure qualcosa, loro ci fanno la grana, mi sembra una maniera intelligente per evitare sprechi della carta, favorire il riuso dei beni, l’Amazzonia e cose così. Se io avessi un’azienda di questo tipo, un baluardo dell’economia del riciclo e della salvaguardia degli stipendi degli italiani con i figli che ogni anno cambiano testi scolastici o che comunque come tutti devono fare i regali di natale, se fossi a capo di un’azienda di questo tipo farei però molta attenzione nella selezione del personale. O magari loro la fanno, e per tenere a bada un popolo che crede che le imprese private debbano fare il bene comune e che quindi al popolo che vende e compra libri e fumetti usati sia tutto dovuto, scelgono accuratamente e appositamente delle teste di cazzo.

divertimento in senso traslato

Standard

Il direttore dei giochi delle giostre, con la sua voce nasale, esorta i marmocchi a spingere nella feritoia delle automobiline da scontro la moneta di plastica in loro possesso per attivare il mini-veicolo. Giù il gettone, dice. Giù il gettone. Dalle casse sovradimensionate alla situazione parte “Girls just wanna have fun” a un volume vergognoso perché c’è pieno di bambini e i bassi così pompati, che in natura non si trovano da nessuna parte, ai bambini fanno male, finisce che cresceranno audiolesi o nel migliore dei casi con l’acufene a cinquant’anni. Io i bambini li vorrei fare proprio in quell’istante – anche se prematuramente – con Cristina che è la ragazza che tengo per mano. Cristina è un modello di classe A++ detto con il metro con cui trent’anni più tardi si sceglieranno gli elettrodomestici, ma che nel 1983 significa tipa con fascino da vendere. Cristina è in vacanza al mare dal nonno che, per pura combinazione, è un amico di mio papà. Vive in una casa di proprietà a ridosso di una antica fortezza, e da una serie di cunicoli dal suo sottoscala si accede a una cella all’interno dei bastioni che lui, in via del tutto abusiva, usa come cantina. Sarà anche per questo contatto che dopo una specie di gara delle affinità elettive, Cristina ha detto a tutti i ragazzi della compagnia, la stessa che frequentiamo entrambi, che toccava a me e sapete com’è che a quell’età vanno le cose. La notizia si diffonde, la cosa giunge al diretto interessato, il diretto interessato si fa avanti e il gioco è fatto. Io e Cristina, nemmeno trent’anni in due, avanziamo di sera tra le attrazioni di una versione semplificata di un luna park di provincia, vestiti come in un video degli Human League ma con le espadrillas a strisce blu perché siamo in pieno luglio. La hit di Cindy Lauper non passa inosservata a Cristina, accenna un passo di disco music è mi dice che è vero, le ragazze in fondo vogliono solo divertirsi. Io l’inglese lo capisco abbastanza bene, ho preso anche un dieci in un compito in classe, e quello che mi resta di quella traduzione simultanea è che Cristina, con me, sta passando una serata indimenticabile. Ci sediamo su una panchina e ci baciamo per la prima volta, e mentre ci baciamo penso che sarà così per sempre. Ma il senso della canzone era molto distante dalla mia interpretazione, questo l’ho capito qualche mese dopo, quando in una trasmissione televisiva dedicata proprio alla musica più in voga passano il video di “Girls just wanna have fun” con le parole in sovrimpressione. Ho intrecciato quella intuizione tardiva con un episodio successo qualche sera dopo il bacio alle giostre, quando mi avevano riferito di aver visto Cristina ballare un lento appesa a uno che non ero io, allo spazio live della Festa dell’Unità. La sua idea di divertimento era molto diversa dalla mia ma subito non avevo collegato le due cose.

io e Bea siamo nati lo stesso giorno dello stesso anno, alla stessa ora

Standard

Io e Bea siamo nati lo stesso giorno dello stesso anno, alla stessa ora. C’è una definizione per questo tipo di gemellitudine, che non è coincidenza, ma un tecnicismo vero e proprio compreso nella terminologia di una branca di una pseudo-scienza tipo l’astrologia, ma ho provato a cercarlo su Google senza successo e sia chiaro, secondo me non esiste nemmeno gemellitudine nella lingua italiana. Comunque io e Bea siamo quella roba lì.

Lo stesso giorno dello stesso mese dello stesso anno, in due ospedali ubicati a una cinquantina di km di distanza, le nostre rispettive mamme provavano simultaneamente le pene dell’inferno con l’obiettivo di cagarci fuori dal loro ventre il più velocemente possibile. Ora è chiaro che è piuttosto comune che ci siano nascite nello stesso istante nella stessa struttura sanitaria. Basta guardare dal vetro nello stanzone dove ci sono tutti i trofei ottenuti in premio per i nove mesi di stenti. Tra quella moltitudine di micro-umani qualche caso di venuta al mondo sincronizzata ci sarà ben stata. Figuriamoci tra due ospedali, o tra tutti gli ospedali di uno stato o in tutte le cliniche al mondo, anche se con la storia dei fusi orari rischiamo di fare qualche casino, che già solo quando ho una call con inglesi o americani ogni volta è un delirio per capire le ore di differenza e se l’ora solare o legale la usano anche lassù.

Il bello è invece quando il destino poi ti fa rincontrare dopo venticinque o trent’anni. Ti presentano una come Bea, si fanno due chiacchiere e magari Bea è una di quelle che crede agli oroscopi così quando le riveli il segno e poi tutti i dettagli è fatta. O almeno quelle come Bea vanno in brodo di giuggiole per la combinazione, mentre se dall’altra parte c’è uno come me che degli oroscopi se ne fotte e anzi, quelli e quelle che credono agli oroscopi li disprezza perché dedicano tempo e risorse alle cose invisibili, ecco che in breve l’essere gemelli omoanagrafici (anche questa me la sono inventata) si rivela di valore opposto e ciò che dovrebbe unire alla fine separa per sempre.

Peggio è quando c’è un tramite che scopre la tua data di nascita e, forte della sua perizia in astro(nzato)logia salta su dicendo che ha un’amica con quel giorno lì segnato sulla carta d’identità e pure l’ora è la stessa e fa carte false (non d’identità perché altrimenti finirebbe male) per farvi incontrare. Comunque in un modo o nell’altro a me è successo. Io e Bea ci siamo conosciuti ma il vero problema era che Bea faceva la restauratrice, anzi forse la cosa più grave era che aveva sempre un amico sfigato palesemente innamorato di lei che la scarrozzava in ogni dove in macchina sempre attaccato al culo e anzi, la cosa forse più respingente era che sembrava depressa di una depressione ingiustificata. Mi sono immaginato nel giorno del mio compleanno a spegnere candeline davanti a una torta posta su un antico tavolo finto tarlato e ricoperto da un decoupage di pessimo gusto, insieme a Bea e insieme al suo amico sfigato che nemmeno così si sarebbe levato di torno. Troppe coincidenze non fanno la felicità.

Ma è andata a finire che anni dopo Bea e l’amico sfigato si sono finalmente messi insieme, la depressione si è esaurita come un qualunque malanno di stagione, Bea ha trovato un normale lavoro d’ufficio in un ufficio arredato Ikea in cui il pezzo più antico è un armadietto PS Ikea verde verticale, che tra l’altro ora non fanno più e secondo me dal punto di vista commerciale è un errore madornale, ma io oggi che su Facebook sai tutto di tutti e in occasione dei compleanni ti appare un messaggio che ti dice di contribuire a rendere quel giorno ancora più speciale e che Bea non so che fine abbia fatto, quando mia mamma alle sei e quaranta del mattino del mio compleanno mi manda l’sms di augurio perché è quello in momento in cui mi ha cacciato fuori da sé, ecco in quel momento anche se è mattina presto mi viene sempre da dedicare qualche istante a Bea, al suo amico sfigato ora marito, e alla fortuna di non apprezzare i mobili di antiquariato.

Icons made by smalllikeart from www.flaticon.com

avevo scritto birra alla spia, ma non è valido come gioco di parole quando si tratta di un lapsus

Standard

Non ho mai detto a Enzo, il proprietario del bar qui sotto, che appendere un cartello fuori con scritto “birra alla spina” quando poi dentro hai uno di quegli scatolotti di plastica della Beck’s non è proprio trasparente come messaggio. Voglio dire, il risultato credo che alla fine sia lo stesso; non sono del mestiere ma immagino che collegati da qualche parte ci siano i fusti con il liquido. Di certo quei bei macchinari con le leve che sembra di essere alla guida di una locomotiva sono tutta un’altra cosa, almeno da un punto di vista scenografico. Io vado da Enzo a bere il caffè proprio perché mi aveva attirato l’insegna della birra alla spina, poi a dire la verità non l’ho mai presa perché bere a pranzo e rientrare in ufficio è sconveniente. Molto spesso, mentre mi trattengo lì qualche minuto prima di mettermi al lavoro, incrocio quei due sui quali a Enzo piace spettegolare nemmeno fosse un portinaio, premesso che ho molti amici portinai. Hanno lo stesso nome e sembra siano amanti, non si sa bene se siano colleghi ma comunque sono impiegati in società con sede dalle nostre parti. Hanno fatto per anni, infatti, la stessa strada per raggiungere l’ufficio. Lei sempre con passo un po’ più spedito e lui nelle retrovie sempre con i suoi borsoni da piscina. Poi lui deve essersi affezionato a quella dinamica tanto che, giorno dopo giorno, ha iniziato ad accelerare per portarsi sempre più a ridosso fino a quando un mattino Enzo li ha visti svoltare l’angolo affiancati, alla faccia del paradosso di Achille e della tartaruga – Enzo ha detto proprio così, si vede che oltre ai panini che prepara mastica anche un po’ di storia della filosofia antica. Mentre procedevano allineati lui le parlava, sembrava proprio la prima volta perché lei, che aveva già capito tutto, continuava a sistemarsi la sciarpa. Nemmeno una settimana ed erano già alle otto in punto a fare colazione insieme da Enzo, e da allora sembrano inseparabili almeno in quell’anticamera della vita costituita dai rimasugli di tempo tra gli impegni e le cose davvero importanti. Enzo ha anche un po’ di foto sulle pareti di quando era giovane e addetto alla ristorazione alle prime armi e le immancabili testimonianze delle celebrità che sono passate di lì per un po’ di ristoro urbano. Qualche calciatore delle squadre milanesi, Enrico Ruggeri vestito anni 80 e persino due campioni di basket, che a malapena stanno nella cornice appesa sopra al frigo dei gelati, tanto sono alti.

uno dei peggiori assortimenti uomo-donna mai visti, nemmeno in the lobster

Standard

Appena saranno disponibili su Internet le quote del film “The Lobster” potremo citare nella sua esattezza il passaggio in cui l’affascinante leader dei solitari, che presto vedrete (io no di certo) anche al fianco di 007, consegna a Colin Farrell un lettore cd portatile con tanto di cuffiette da walkman vecchio modello con della musica elettronica che è l’unica che i solitari possono ballare in quanto si balla da sola. Per il resto non c’è molto da dire su una sceneggiatura piuttosto pretenziosa messa in mano a un regista un po’ meh se non che questa cosa delle affinità elettive come condizione necessaria e sufficiente all’accoppiamento ha comunque un suo fondamento.

Si tratta di una posizione a difesa della quale faccio sempre l’esempio di uno dei peggiori assortimenti della storia dell’umanità umana che è quello tra una donna campionessa sportiva o atleta praticante che si mette insieme a un uomo poco avvezzo all’attività fisica e anzi, piuttosto incline a pratiche tutt’altro che salutistiche come sigarette e canne, birra e musica sociale, laddove per musica sociale intendo proprio quella che – a differenza della musica elettronica – anche se non è che si balla avvinghiata a un partner prevede comunque un certo scambio emotivo con il prossimo.

Verrà infatti il giorno della resa dei conti dopo i fasti delle prime settimane di relazione, quelle in cui le persone che stanno insieme da poco vedono le caratteristiche altrui come veri e propri tesori da conoscere pezzo per pezzo. Verrà il giorno della resa dei conti, dicevo, in cui la donna campionessa sportiva o atleta praticante comprende che la vita dissoluta del neo-partner fatta di sigarette e canne, birra e musica sociale è potenzialmente in grado di destabilizzare la vita di una campionessa sportiva o atleta praticante e quindi, e mi rivolgo a noi maschi poco avvezzi all’attività fisica, cercherà di convincervi a fare qualcosa per migliorarvi.

Vi coinvolgerà intanto tra i suoi amici che sono tutti campioni sportivi o atleti praticanti che vi indurranno a un complesso di inferiorità per la loro condizione fisica fatta di postura impeccabile, addominali naturalmente scolpiti dal tempo passato a dedicarsi anima e corpo a uno sport nobile in quanto minore come judo, pallanuoto o pattinaggio artistico, vi coinvolgerà – dicevo – e lo farà per dimostrarvi come è bella l’umanità che si sente in forma. Quindi vi inviterà ad andare a correre insieme. Anzi, prima le camminate. Poi la corsa con pessimi risultati da parte vostra che avete i piedi poco avvezzi alle scarpe tecniche (perché vi costringerà anche a spendere un patrimonio in attrezzatura tecnica) dopo decenni di anfibi, vi trovate fianchi e stomaco rilassati per la vostra attitudine a bere alcolici in ogni occasione e a nutrirvi di roba dove e come capita, e avete il fiatone già dopo una rampa di scale.

E quando la donna campionessa sportiva o atleta praticante avrà compreso quanto sono inconciliabili due mondi agli antipodi come lo sport praticato e la vita da artista scapigliato che vi contraddistingue, si metterà con quel suo amico campione sportivo o atleta praticante che aveva più volte esercitato su di voi la sua superiorità fatta di tricipiti (muscoli di cui voi non siete nemmeno probabilmente provvisti) e appunto di addominali naturalmente scolpiti. Il mio consiglio è quindi, non appena conoscete una donna e questa vi piace, chiedetele proprio di lasciarsi tastare gli addominali prima di qualunque altra parte del suo corpo e se sentite una certa durezza scappate veloci nella foresta dei solitari, finché siete in tempo.

paola chi l’ha vista?

Standard

Paola ed io abbiamo continuato a mandarci sms di auguri di Natale per anni, una pratica piuttosto comune se non fosse che non c’eravamo mai più visti né incontrati per caso e nessuno dei due si preoccupava di chiamare o contattare l’altro nei restanti mesi. Si faceva a gara a chi per primo, il 24, mandava il messaggio più grondante di sincero affetto digitale. Cose tipo un immenso augurio a te e alla tua famiglia, mantengo sempre il tuo ricordo e spero prima o poi di riabbracciarti di persona, che scritto fa un po’ effetto se qualcuno soffre le smancerie ma in fondo era vero.

Paola era stata per anni insieme a Federico, un chitarrista che prima di fondare insieme a me una divertentissima cover band di new wave ri-arrangiata in chiave prevalentemente drum’n’bass aveva impersonato – ma moltissimi anni prima – Andy Summers in un trio che scopiazzava smaccatamente i Police sia nel genere che nel look. Tre ragazzini biondi e dalle fattezze tutt’altro che mediterranee con il loro seguito di groupies tra cui, appunto, Paola. Lei era una fan della band di “Message in a battle” della prima ora e, come me, amava alla follia gli esordi del gruppo tanto quanto schifava le gesta soliste di Sting. Ricordo un suo concerto passato proprio con lei fuori dai cancelli (mai avremmo acquistato un biglietto per arricchire il traditore del secolo) ad aspettare che l’ex cantante dei Police suonasse qualcuno dei brani indimenticabili di “Outlandos d’Amour” o “Ghost in the machine” anziché quella roba melensa e patinata in salsa pop jazz composta dopo i dissidi con gli altri due componenti, e invece poi eravamo scappati dopo un “Bring on the night” in una versione che non ve la sto nemmeno a raccontare.

Comunque Paola e Federico si sono presi e mollati un centinaio di volte fino a quella decisiva, ai tempi appunto della cover band che vi dicevo sopra. Paola mi chiamava in lacrime, una volta ci siamo pure incontrati in macchina perché voleva che leggessi una lettera, forse Federico aveva addirittura perso il controllo ed era volato qualche spintone e il problema era che avevano già comprato casa. Dopo che si sono lasciati definitivamente abbiamo perso i contatti, io mi stavo trasferendo in una nuova città per lavoro e poi però c’era il problema di chi dei due doversi tenere come amico, sapete come succede quando si sfalda una coppia.

Quasi dimenticavo di scrivere che Paola ha una sorella più piccola di sette anni che poi si era messa con il cantante dei Police de noantri, con grande preoccupazione della mamma di lei (il papà di Paola e della sorellina era morto quando erano ancora piccole entrambi) considerando l’ampio gap anagrafico. La cosa però mi aveva fatto rivalutare la possibilità di fare la corte a Luisa, che non c’entra niente con questa storia se non che aveva dodici anni in meno di me ma non preoccupatevi, è stata un’idea che ho accantonato in fretta.

Quindi dicevo un sms tra me e Paola ogni Natale, questo fino a quando – sarà successo tre anni fa? – ho cambiato il numero di telefono. In agenzia mi hanno dato un contratto aziendale flat, io non avevo voglia di dovermi portare dietro due dispositivi o prenderne uno dual-sim, fatto sta che la scheda ricaricabile che avevo dai tempi del Nokia 7110 con tutta la mia vita di contatti e finita nel dimenticatoio è stata disattivata. Io avevo dato il nuovo numero solo ai contatti più vicini in quel momento e potete immaginare com’è finita ed è per questo che ora sono veramente pentito. Potrei fare qualche tentativo per rintracciarla ma è strano perché in Internet, di lei, non c’è nessun segno e quando non trovo nulla mi viene sempre da pensare al peggio. Ecco Paola, magari qualche amico comune ti ha parlato di questo blog e niente, se ti va, scrivimi un bel commento di auguri al prossimo Natale, d’altronde mancano solo poco meno di quattro mesi.

il re nudo e l’amministratore delegato in boxer

Standard

Se non siete ancora rientrati in ufficio chiudete questa pagina immediatamente e godetevi ancora gli ultimi strascichi delle ferie. Troppo tardi? Già, perché solo a leggere la prima riga vi siete attirati un incantesimo che vi condanna a incontrare nel luogo di villeggiatura in cui state soggiornando in questo esatto momento qualcuno con cui avete a che fare per la vostra attività. Un fornitore, il collega dell’ufficio acquisti con cui non condividereste nemmeno la manciata di secondi in cui ci si lavano le mani dopo la pausa pipì delle undici, il vostro responsabile, l’impiegato dell’amministrazione della precedente azienda che avete mandato affanculo prima di cambiare occupazione. Insomma, scegliete voi.

Ma ricordatevi che non è tanto quello che può accadere una volta che avete riconosciuto un volto tristemente noto per ragioni professionali sotto l’ombrellone vicino al vostro, seduto al tavolo a fianco nell’agriturismo in cui avevate pianificato di ubriacarvi come una merda tra il maialino arrosto e una pecora in umido, lungo il sentiero delle Dolomiti in cui anelavate di tornare sin dall’estate precedente. Il problema, almeno per me, è riconoscere questi rompiscatole a loro insaputa in un ambiente e in una veste differente da quella con cui siamo abituati a vederli, un fattore che non è da poco considerando che molto spesso è proprio l’unione tra il luogo fisico in cui ci si frequenta e l’abbigliamento con cui ci si relaziona a determinare alcune delle principali dinamiche che regolano i rapporti sul posto di lavoro. Basta un manager sempre tappato in giacca e cravatta con un fisico flaccido e cadente che si trova in costume di fronte a quello che si occupa della manutenzione dell’edificio, sul posto di lavoro sempre in modalità anti-infortunistica e al mare tutto muscoli e tonicità, ed ecco che l’organigramma naturale è ribaltato.

Sembra una banalità, anzi probabilmente lo è, ma quando vedo seminude e con la loro famiglia persone che la consuetudine me le fa incontrare vestite e dietro a un pc mi ci vuole un po’ a metterne a fuoco l’identità. E poi vogliamo parlare dell’imbarazzo di osservarsi reciprocamente membra di cui normalmente siamo all’oscuro? L’ombelico del vostro capo? Le cosce del direttore generale? I piedi della responsabile del personale? Chissà se è vero che in questi frangenti siamo davvero tutti uguali, come dicono certi seguaci delle religioni che professano la democraticità dell’anima rispetto alla tirannia dei corpi e, al giudizio dell’ipotetico creatore, sostengono che sia richiesta solo la presenza della parte più inconsistente.

Vogliamo parlare poi della convenzione sociale imposta dalle buone maniere di dover presentare i propri parenti ai colleghi creando ponti pericolosi tra ambienti che è bene lasciare il più separato possibile? Insomma, il peggio è facile da immaginarsi: coperti solo da uno slip e da un reggiseno a fascia, in piedi sul bagnasciuga a scambiarsi impressioni di meraviglia per essersi trovati lì con i rispettivi congiunti che collateralmente magari stringono conoscenza mossi da un cameratismo non richiesto (quindi evitate di parlare di lavoro tagliando fuori gli altri) fino a quando, inavvertitamente, qualcuno butta lì un invito a cena, un aperitivo, una camminata fino alla scogliera panoramica. Quindi, cari amici, state sempre all’erta, non soffermatevi su seni generosi o glutei ammiccanti quando passa la gente davanti alla vostra sdraio ma osservate bene le facce delle persone e se vi suona un campanello d’allarme cercate di decontestualizzare i lineamenti che ritenete famigliari componendo identikit nella vostra testa per smascherare, con adeguato anticipo, tutti i possibili rischi potenzialmente dannosi per il vostro destino professionale.

visto da qui è tutta un’altra cosa

Standard

Certe lenti da presbiopia senile sono utili anche quando si ha difficoltà nel leggere da vicino la nostalgia ancestrale negli occhi delle persone, quel sentimento di rimpianto verso la confort zone per eccellenza che è il guscio della propria famiglia d’origine. Si tratta della storia a cerchi concentrici come nelle sequoie di una vita intera, impressa però con un carattere piccolissimo nell’iride di ognuno di noi e ammetto che se già si fa fatica con i libri, con queste note a margine della personalità umana ci vuole molta perizia per metterle a fuoco e capire che cosa l’animo altrui nasconde. Quando ci siamo sviluppati tra le mura di casa ci sembrava tutto normale, con genitori e fratelli come pressoché unico punto di riferimento da emulare. Il modo in cui gli si vuole bene è molteplice e va oltre il comportamento che i componenti di quelle micro-società adottano nei nostri confronti. Senza tirare in ballo casi limite di violenze fisiche e verbali e di tutta la gamma dei soprusi che si fanno ai più piccoli, pensate a quanto abbiamo amato la nostra famiglia senza pensare che un giorno, quaranta o cinquant’anni più tardi, comparando i comportamenti di mamma e papà con quelli degli altri, qualcuno ci avrebbe dimostrato che siamo cresciuti in mezzo a gente completamente fuori di testa. Ne conosco almeno una decina di nuclei che hanno imposto la loro piccola follia come il naturale divenire delle cose. Fino a quando poi vivere con i genitori distanti, o quando mamma e papà non ci sono più, ci consente alla fine di ripartire da zero per ripercorrere con la lucidità dell’essere adulti quel periodo fondamentale della nostra vita e fare un po’ d’ordine, attività che da grandi o quasi vecchi, fidatevi, riesce molto meglio.

la vera storia dell’agenda digitale

Standard

Mi dice Luca che l’idea di portarsi a casa quell’agenda del 92 dalla cantina di casa dei suoi genitori è stata di sua moglie. Si tratta di un modello che ricordo benissimo perché ai tempi andava di moda e ce l’avevamo tutti uguale, a parte il colore. Copertina di plastica e un design molto hi-tech, soprattutto per i tempi. La mia era rossa, manco a farlo apposta. Rosso bordeaux trasparente che con il bianco della copertina di cartoncino sotto assumeva una sfumatura violacea. Il prodotto era vincente perché i brand di planner – così si chiamavano – probabilmente avevano trovato un accordo su alcuni aspetti del formato come dimensioni delle pagine e distanza dei buchi in modo che, una volta acquistata la cover, ogni anno si poteva scegliere la “ricarica” interna più adatta, settimanale o quotidiana. Ero rimasto felicemente sorpreso dell’esistenza di uno standard e dell’economia di scala che questo poteva comportare per tutti, sia le aziende che i consumatori. Ma avere un planner per tipi come Luca o il sottoscritto era poco più di un vezzo, almeno parlando per me. Potevo ricordarmi benissimo degli impegni imminenti tanto erano esigui, e marcarli nero su bianco era solo un tentativo per dimostrare a noi stessi di avere un vita di successo. La tentazione di scrivere quante volte facevamo l’amore con gli asterischi vicino a ogni data nemmeno fossimo dei sedicenni però era forte, considerando la scarsità degli altri argomenti su cui pianificavamo le settimane. Poi c’erano le esibizioni e i concerti che programmavamo con le rispettive band, ma che si concentravano tutte nei fine settimana. Facendo lavori di quel tipo, musicisti con aspirazioni impossibili da raggiungere, non è che avessimo riunioni o presentazioni a clienti. Insomma, ogni anno finivamo con lo stufarci di tenere quel memoriale del futuro prossimo e da marzo in poi le pagine rimanevano intonse, rendendo l’investimento nella ricarica più che sprecato, di solito coincidente con gli acquisti natalizi. Un discorso diverso va invece fatto per la rubrica telefonica, la parte finale del planner. Nel 92 i cellulari non esistevano o forse erano appannaggio dei più abbienti ma sinceramente non ricordo, così in rubrica ci finivano i contatti utili, i locali da chiamare per proporre una serata musicale, le ragazze stando attenti poi a non mostrarle troppo in giro, e gli amici. Nella rubrica dell’agenda di Luca ci sono anch’io, alla lettera B. Al primo posto con il numero che ancora adesso compongo quando da Milano voglio sentire come sta mia mamma. Ma, a parte relazioni con persone difficili da dimenticare, la maggior parte dei nominativi si fa fatica a collocarli nella nostra vita passata, a ordinare indirizzi, città, ruoli e importanza in quel preciso momento storico. Ben poche di quelle conoscenze sono sopravvissute e i telefoni fissi non ce li ha quasi più nessuno così quei numeri, probabilmente, non esistono più.

il mattino ha loro, in bocca

Standard

Fate attenzione alle t-shirt che dismettete. Oggi che le magliette sono una seconda carta d’identità, quindi un accessorio molto personale e legato al proprio modo di essere e al messaggio che volete comunicare al prossimo, risulta sempre un gesto encomiabile quello di lasciare capi di abbigliamento ai raccoglitori per i poveri o agli enti che poi li smistano a chi ne ha bisogno, il paradosso è vedere però un lavavetri con la maglietta dei Negramaro a bordo di uno dei primissimi treni dell’alba per il centro con alcuni membri del suo clan. Sono i più mattinieri, quelli che competono per vincere i posti più fruttuosi per chiedere soldi. Gli uomini praticamente in tenuta da spiaggia di seconda mano, con il caldo che fa è più che giusto, ma le donne vestono le tradizionali gonne-coperte o gonne-tende, quei tessuti che solo loro sembrano indossare con orgoglio. A quell’ora il convoglio è deserto, malgrado ciò c’è una ragazza cinese in minigonna che anziché accomodarsi su un sedile si accuccia sulle caviglie come fanno per riposarsi i protagonisti dei film di Zhāng Yìmóu, mentre attraversano a piedi le sterminate campagne della Cina e si fermano per cercare un po’ di ristoro per le membra. Quando passa l’uomo in divisa sono io quello a preoccuparmi più di tutti, è l’autorità che incute l’incertezza della nostra posizione alle nostre coscienze. La variopinta comitiva rom invece no, loro sanno distinguere perfettamente un poliziotto da un autista dei tram, cosa di cui dovrei accorgermi anch’io sebbene né io tantomeno loro stiamo facendo qualcosa di illegale. Mi ricorda il padre di un compagno di classe di mia figlia che interveniva alle occasioni di incontro con maestre e genitori sempre con i vestiti d’ordinanza della ATM nemmeno fosse un generale di corpo d’armata. Nel frattempo una coppia di mezza età, gli stessi che hanno auspicato un intervento di quello che anche loro hanno scambiato per un agente in servizio contro lo straniero presumibilmente irregolare della situazione, si lancia in una conversazione su argomenti talmente leggeri da farmi rivalutare la coppia di ragazzi stranieri poco più avanti, che invece non si rivolgono la parola perché probabilmente si rispettano di più. Poi però la giornata prende una piega inaspettata. Sembra infatti che marito e moglie si stiano recando a Sestri Levante a vedere una casa dove lui è nato e cresciuto fino all’adolescenza. Quella di tornare a rivedere le abitazioni del passato so essere una pratica che prima o poi coltiveremo tutti in futuro, dobbiamo solo darci il tempo di maturare il coraggio di farlo. Parlano dell’attuale inquilina che lo occupa, una donna dall’accento francese che soggiorna in una delle mete preferite dei milanesi con i soldi grazie a una di quelle rendite senza far nulla che tutti noi iniziamo a sognare da un certo punto della vita in poi. Ed è un peccato quando sale una specie di scolaresca in quell’età delle superiori in cui i maschi sono ancora ragazzini e le femmine hanno già svalicato. Mi circondano e mi fanno perdere il resto della storia. Mi devo accontentare di due tizi che non c’entrano nulla con il gruppo di gitanti – sono sensibilmente più grandi. Hanno notato la disparità tra i sessi e cercano ogni modo per farsi notare dalle ragazze con l’idea che, dovendo frequentare dei maschi così, non avranno difficoltà a fare colpo. Alla fine una signora intraprendente con una mossa azzardata si fa cedere il posto accanto al mio proprio da uno di quei babbionelli che si stanno facendo soffiare le ragazze. Accende un tablet e comincia ad allenare il suo inglese base con una specie di gioco illustrato. Compare un’anatra e sotto quattro foto tra cui indovinare, ciascuna con la traduzione in inglese corrispondente. Vorrei guastarle il divertimento suggerendole la risposta -io la so! io la so!- ma non faccio a tempo, era davvero troppo facile.