Siamo talmente provati dal fatto che il mondo si regga solo su rapporti economici e non su altri ideali più romantici come l’amore, la pace, l’etica ma anche il sesso o la cultura, che quando nascono iniziative private che scelgono un marketing basato sul’umanizzazione dei propri prodotti o del modo in cui fanno affari non capiamo più niente. Non dico che chi sostiene di stare sul mercato con modalità più rispettose per il cliente o anche l’ambiente, per esempio, racconti delle balle. Aggettivi come equo e solidale oppure i concetti stessi di impatto zero e chilometro zero catturano la nostra attenzione sulle etichette oggi come mai accaduto nella storia dell’economia.
Ci sono realtà che poi fanno le stesse cose che fanno tutte le imprese, ovvero vendere per guadagnare, ma in modalità diverse, più sostenibili (altro termine chiave per interpretare la contemporaneità) o anche apparentemente di rottura con quelle tradizionali. Un filo conduttore che unisce multinazionali e bancarelle che partecipano alle feste fricchettone e che fa breccia nell’opinione pubblica di un certo tipo stufa dell’approccio intriso di sfruttamento delle risorse naturali e del lavoro dell’uomo. Basta solo ricalibrare qualche ingranaggio di questi sistemi produttivi, non è molto difficile.
Noi popolo di consumatori consapevoli ci aspettiamo però che in queste organizzazioni dalla faccia pulita che salveranno il mondo dall’implosione ci lavorino persone come noi: informate, di una certa cultura, con lo stesso orientamento elettorale, e anche con quella facilità all’empatia con il prossimo bisognoso che contraddistingue la nostra statura morale. In poche parole gente simpatica, alla mano, pronta ad aiutare il prossimo – che nel commercio è sempre quello con la tessera bancomat in mano pronto a digitare il PIN – e attenta alle parole, ai gesti, alla cura nelle relazioni con le persone. Che poi è un po’ quello che crediamo ci sia dovuto dalle istituzioni pubbliche, per esempio. Dalle organizzazioni di beneficenza, al limite. E se già queste dinamiche è difficile trovarle in questi contesti, figuriamoci nell’impresa privata anche se mascherata da tutti quei bei valori che abbiamo ricordato sopra.
Arrivo alla conclusione. C’è una catena di negozi il cui core business consiste nella vendita di libri usati. Ce n’è almeno uno in franchising in ogni città, qui a Milano se ne trovano diversi. Un’idea imprenditoriale intelligente perché acquistano i libri di cui ti vuoi sbarazzare per una sciocchezza e poi li rivendono alla metà o giù di lì del loro prezzo di copertina. Tu te ne liberi, ci raggranelli pure qualcosa, loro ci fanno la grana, mi sembra una maniera intelligente per evitare sprechi della carta, favorire il riuso dei beni, l’Amazzonia e cose così. Se io avessi un’azienda di questo tipo, un baluardo dell’economia del riciclo e della salvaguardia degli stipendi degli italiani con i figli che ogni anno cambiano testi scolastici o che comunque come tutti devono fare i regali di natale, se fossi a capo di un’azienda di questo tipo farei però molta attenzione nella selezione del personale. O magari loro la fanno, e per tenere a bada un popolo che crede che le imprese private debbano fare il bene comune e che quindi al popolo che vende e compra libri e fumetti usati sia tutto dovuto, scelgono accuratamente e appositamente delle teste di cazzo.