le regioni rosse da mettere a fuoco

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Era la prima volta che facevo un viaggio lungo in macchina con l’aria condizionata. Lei no, lei c’era abituata. D’altronde l’auto era quella di suo papà e non era certo una poco avvezza al lusso, o per lo meno ad agi come quello. La tecnologia un po’ migliora il modo di vivere, e tra guidare nella canicola di agosto in autostrada con i finestrini aperti e fare lo stesso al fresco in un abitacolo non c’è stato il tempo di logorarsi troppo per scendere a compromessi oppure no. Ma mi è stato sufficiente fermarmi un secondo a stirare la schiena oltre il casello autostradale per prendere coscienza dell’inferno a cui avevamo rischiato di sottoporci. Già una volta avevamo perso il treno per Bologna. Noi eravamo sul binario in attesa a chiacchierare, l’Intercity si era fermato, alcuni erano scesi e altri saliti ma noi non ce ne eravamo nemmeno accorti e il treno era ripartito lasciandoci lì. Abbiamo chiesto a un ferroviere di passaggio che ci ha confermato il nostro timore. Avevamo perso l’ultimo treno diretto e siamo stati costretti a prendere locali e regionali infiniti. Il nostro destino sarebbe stato negli spostamenti su gomma, altro che rotaia.

Quella volta invece dovevamo alloggiare da un amico della persona da cui ci eravamo autoinvitati, i soggiorni a mutuo scrocco erano un classico delle vacanze low cost. Avremmo dormito in una specie di agriturismo per turisti nordeuropei, quei posti così inospitali e forzosamente austeri che piacciono solo a loro. Era una cascina sull’appennino gestita da un ragazzo del posto che si era messo con una olandese, una studentessa ora trentenne che si era spostata da quelle parti anni prima per un corso di ceramica, poi si erano conosciuti e così aveva deciso di fermarsi. Quei tipi che si vedevano una volta, con le salopette a quadrettini, le Birkenstock e gli occhialini tondi sotto i capelli corti, sia lui che lei. Lei che era un contatto linguistico e un fenotipo utile con le terre settentrionali da cui proveniva la maggior parte degli ospiti. Facevano una vita quasi ascetica, vegetariani e coltivatori del minimo necessario al sostentamento proprio e dei clienti. La cena infatti fu a dir poco frugale, ma tutti i commensali sembravano in forma e quasi contenti del sacrificio, parlando con loro ho notato che solo noi italiani ci abbuffiamo la sera per coricarci con cibi pesatissimi sullo stomaco, che non fa bene.

C’era solo una stanza libera con un pagliericcio senza lenzuola e ci siamo arrangiati, giusto un telo da mare sotto ma con il caldo che faceva non avremmo sopportato altro e poi l’alloggio era gratis e per solo una notte. Avevamo lasciato gli scuri aperti per via del buio apocalittico che circonda la campagna di notte e a cui nessuno è più abituato, solo che così secondo lei c’era il rischio di favorire l’ingresso di pipistrelli in camera. Nemmeno a farlo apposta, saranno state le tre o le quattro del mattino, non so, lei mi aveva svegliato perché c’era un’ombra sospetta a forma di v proprio sul soffitto sopra le nostre teste. Faceva così caldo che non mi veniva in mente nemmeno un modo intelligente per risolvere la situazione. Ma ho pensato che, accendendo la luce, il volatile notturno si sarebbe spaventato e, a furia di svolazzare sbattendo contro le pareti, avrebbe infine imbroccato l’uscita giusta. Un’opzione che lei mi bocciò dapprima su tutti i fronti, non pensava di sopravvivere se il pipistrello, come racconta una nota leggenda metropolitana, le si fosse infilato tra i capelli. Ma io non avevo alternative, non avremmo potuto riaddormentarci in quelle condizioni, quindi la pregai di mettersi il telo da mare intorno al capo così da verificare l’efficacia del mio piano. Ricordo di aver acceso la luce e di aver sentito il suo grido. Ma sul soffitto non c’era nulla se non una macchia a forma di pipistrello che, non so per quale legge di rifrazione, con il buio aveva assunto contorni tridimensionali. Io avevo una mia teoria, tra l’altro, a proposito di macchie sul muro. E cioè che un po’ incarnano le nostre paure e proiettiamo in esse le cose che non vorremmo vedere. Da bambino vedevo macchie di umidità che sembravano ragni, banditi con il cappello, alieni. C’è stato un momento in cui era in voga giocare con il bicchiere e le lettere sul tavolo per fare le sedute spiritiche, e io ogni sera, prima di addormentarmi, vedevo materializzarsi sulla parete a fianco del mio letto la faccia di Mozart perché era il personaggio che cercavamo di evocare, non chiedetemi il perché. Scorgevo un viso rosso e immobile, ma forse era la macchia che resta fissa nel nostro sguardo quando, anche per un istante, osserviamo una luce accesa come l’abat-jour sul comodino, prima di spegnerla. Comunque, la notte del pipistrello l’urlo aveva sventato il pericolo e aveva però svegliato i cosiddetti tenutari, che si erano precipitati a controllare che problemi potessero avere due come noi. E forse avevamo svegliato anche gli altri turisti.

La mattina successiva il tempo era ancora caldissimo ma il cielo sembrava nuvoloso, tutti facevano il tifo a colazione per un temporale estivo. La giornata prevedeva la compagnia dell’amico che ci aveva accompagnato il pomeriggio prima all’agriturismo, lui poi se ne era tornato a casa. Era domenica, e per il pranzo aveva pensato di portarci, anzi, di farsi portare con l’auto e l’aria condizionata a una celebrazione partigiana lì a pochi chilometri. Si doveva salire di qualche tornante più in alto. C’era un museo che raccoglieva reperti e testimonianze della Resistenza che, su quelle vette e dentro a quelle valli, aveva svolto un ruolo importante all’interno della storia di quel secolo che si apprestava a concludersi. I vecchi partigiani raccontavano le gesta e rispondevano alle domande.

Fuori dal museo gli organizzatori avevano allestito uno stand in cui alcuni volontari preparavano piadine, tigelle e altre amenità locali, di cui approfittammo considerando soprattutto l’economicità di quel pranzo. A fianco c’era un palchetto su cui si alternavano discorsi a musica. Salì un gruppetto di giovanissimi che, chitarre alla mano, inanellò una serie di cover dei CCCP tra cui l’immancabile, visto il contesto, “Spara Juri”. Un ex partigiano, seduto a fianco a me, notò a voce alta che loro, le scarpe Adidas, mica ce le avevano quando combattevano la guerra civile per affrancarci dai nemici dentro e fuori. Ascoltando il punk filosovietico, il nostro amico si rammaricava dell’assenza della sua ex, si erano lasciati da poco e quella formula a tre, io lei e lui, una doppia coppia mancata, aveva qualche impatto sulla dinamica delle conversazioni.

Era un ragazzo che conoscevo da poco. Aveva incontrato la proprietaria dell’auto full optional aria condizionata inclusa in una cittadina del Belgio, dove si trovavano entrambi per quegli scambi tra universitari dove si va a far baldoria lontano da casa. Lui era così senza soldi che era giorni che si nutriva solo di biscotti, una confezione destinata altrimenti a scadere che aveva rinvenuto nella stanza che occupava. Lei così lo invitava a cena spesso, gli aveva forse anche prestato qualcosa ma non ne sono sicuro, di certo lui si sentiva in debito anche se in quel modo irriverente in cui comunque uno si sente di aver già espiato.

C’era anche il legame di sponda che avevano mantenuto con la cittadina del Belgio in cui avevano soggiornato. Lo zio di lei era un professore universitario e aveva le mani in pasta in questo traffico di cervelli accademici, un tipo davvero originale che una volta si era pure prestato ad aiutarmi nel trasportare un frigo che avevamo trovato nella spazzatura, un pezzo da collezione di design retro, fin quasi su in casa mia. Addirittura, tempo dopo, lo zio docente aveva fatto venire in Italia una ragazza di Bruxelles. Aveva convinto la sorella di lei – sempre la tipa dell’aria condizionata – ad affittarle il suo bilocale ammobiliato, tanto non ci viveva quasi mai.

Questa ragazza belga aveva ottenuto così un appartamento tutto per sé a un prezzo stracciato. Lì vicino alla casa che occupava aveva quindi scoperto la gelateria, che poi è una delle cremerie più note della zona, e ogni giorno, andando in facoltà, si faceva fuori un cono con un gusto solo, ogni volta differente, per provarli tutti. Dopo qualche settimana con un ritmo così aveva messo su qualche chilo, ma non si vedeva più di tanto, era alta e anche piuttosto carina. Una volta in un locale in cui avevamo trascorso tutti insieme una serata, per levarsi di torno un tizio che la tampinava gli aveva detto che io ero il suo fidanzato e mi aveva anche messo un po’ in imbarazzo.

Della ragazza belga ne ho sentito parlare tempo dopo, quando ho chiamato al cellulare un amico che rispondendo mi ha pregato di mettere giù subito, si trovava a Bruxelles e si sa che nelle chiamate internazionali paga il traffico anche chi le riceve. Comunque prima di interrompere la conversazione mi ha fatto salutare da lei, che era lì al suo fianco, entrambi seduti a un tavolino di un bistrot, che combinazione. La coppia dell’agriturismo non l’ho mai più vista. L’amico che ci aveva invitato laggiù l’ho invece incontrato un anno dopo, ero capitato dalle sue parti e anche se la storia con la ragazza dell’aria condizionata era finita, ed era lei il nostro debole tratto di unione, avevo pensato di chiamarlo lo stesso. Mi serviva infatti sapere dove poter mangiare le piadine più buone della cittadina in cui viveva, una cosa che si fa spesso quando sei in un luogo e hai bisogno delle informazioni giuste da qualcuno che è del posto. Gli ha fatto piacere avere mie notizie, mi ha spiegato come arrivare al chiosco nel parcheggio dello stadio, di fare attenzione perché ce n’erano due ai due lati e uno era molto meglio dell’altro. Poi mi ha raggiunto lì, qualche minuto più tardi.

la virtù dei forse

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La sua pazienza attirava solo donne piene di problemi. La similitudine capacità di sopportazione uguale sicurezza è in realtà un grande equivoco di fondo, una cosa di quelle che si dicono ma che non corrispondono al vero perché si tratta di un modo di temporeggiare camuffato da finto comportamento responsabile. Come alcune definizioni che suonano più come luoghi comuni sulla remissività tipo “quello dove lo metti sta”. A tutti gli effetti era solamente consapevole di avere risorse per sopravvivere fino a quando la situazione non si risolveva da sé. Nel mentre si dedicava con passione ad alcune arti marziali, e nemmeno le più comuni e rese popolari da una corposa letteratura di b movie, ed era così stufo del suo lavoro che pensava addirittura di aprire una scuola tutta sua forte di una cintura e di una metodicità ai massimi livelli.

Ma anche lì pensava che il saper sopportare con tenacia la situazione potesse far volgere tutto al meglio. Una sorta di sacrificio, come se esistesse realmente un sistema di monitoraggio delle intenzioni che consente di accumulare punti fino al raggiungimento di premi finali. Tipo la tessera dell’Esselunga, per intenderci. Solo che se hai una fidelity card puoi tenere sotto controllo il tuo punteggio. Se ti nascondi tutto dentro gli altri non lo capiscono fino a quando dai di matto, e allora niente rasoio elettrico o macchina fotografica. Addio punti fragola. Per farmi capire, lui una volta ha fermato la sua Punto blu petrolio su un viale a tre corsie – era in quella di destra – ed è sceso perché non ne poteva più di ascoltare i rimbrotti della persona piena di problemi al suo fianco e ha proseguito a piedi. Allontanandosi aveva sentito il motore rimasto acceso, nessuno aveva chiuso la portiera, fino a quando aveva svoltato in una strada laterale con i suoi rumori e i locali aperti, che avevano coperto tutto il resto.

Poi non so come è finita, ora ha un Mercedes Classe A quindi di certo ha cambiato la macchina. So anche che allora, ai tempi della Punto, si era convinto di essere davvero un campione di condiscendenza ed era arrivato al punto di dare un’ultima possibilità persino al suo gatto che aveva dimostrato seri problemi comportamentali nell’ambiente domestico da quando lui aveva acquistato un frigo nuovo. Un madonnone tutto cromato classe di consumo energetico A+++ e apparentemente silenzioso ma che probabilmente emetteva di nascosto una frequenza impercettibile all’orecchio umano. Non a quello felino. Ma questa è solo una congettura poco benevola nei suoi confronti e mai verificata. Perché, per farla breve, piuttosto che rovinare il rapporto con il micio e con il suo elettrodomestico, aveva scoperto una specie di casa di riabilitazione per animali vittime di turbe. La degenza del gatto gli è costata anche un occhio della testa, ma pare che tutto sia tornato come prima, ai bei tempi del frigo vecchio che consumava un botto, doveva sbrinarlo anche tre volte l’anno ed emetteva i ronzii che conosciamo tutti e gli altri rumori improvvisi e standard che a volte, di notte, tra quello e i led accesi arriviamo a temere persino un attacco degli ufo. E un paio di volte è andato pure a trovarlo, il gatto, alla casa di cura per animali, fino a quando la convalescenza è finita.

Ma lui comunque sostiene tutt’ora che con le donne invece è tutto diverso. Che poi, a me quelli che dicono “le donne” così mi mettono un nervoso. Siete d’accordo con me che si rischia di generalizzare? Però voglio essere comprensivo con lui, giacché stiamo parlando di due episodi ben circoscritti. Persone che si incontrano e si scelgono, all’inizio per caso ma poi dopo se insistono lo fanno più o meno consapevolmente. E per darvi un quadro completo, dopo aveva recuperato la Punto blu petrolio sotto casa di lei. Gli aveva lasciato le chiavi nello sportellino del serbatoio, come sempre. Quindi aveva condotto successivamente un paio di relazioni con altre ragazze che davvero confidavano in lui per rimettersi in sesto. Mitomani, logorroiche, nevrasteniche, ed entrambe (mi riferisco proprio a quel paio) che dicevano che lui sapeva ascoltarle, comprenderle e dare consigli, dato che difficilmente riusciva a interromperle durante una conversazione tipo. Credo che lui trovasse l’aver pazienza una specie di atto dovuto a queste attestazioni di fiducia, tutto qui. O forse, come viene più naturale pensare, era davvero un modo per starsene al sicuro, misurare le cose e favorire una parvenza di benessere altrui a prescindere dal suo equilibrio. Io, per prenderlo in giro, sostengo che si trattasse di sordità. Lui ride, ma solo perché fa finta di non aver sentito la battuta.

silenzioso slow (abbassa la tua radio per favor)

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C’è una ragazza vestita da centrosocialista elegante, si vede che il suo è un trasandato studiato, ha un vistoso anello al naso e segue con l’iPhone incollato all’orecchio qualche indicazione perché mentre ascolta cerca qualcosa o qualcuno come una caccia al tesoro radioguidata, e probabilmente il tesoro è l’interlocutore con cui deve incontrarsi ma, data la calca, i due per il momento continuano a non vedersi. Sarà che a me l’anello al naso come i tori o certi personaggi bovini antropomorfi dei fumetti, per non parlare delle facce degli aborigeni nella collana de “I popoli della terra” con la quale da piccolo viaggiavo stando fermo in cameretta e che poi cresciuto di un po’ mi aveva fatto esaltare perché avevo scoperto che conteneva anche tutto un capitolo sui rastafariani della Giamaica, dicevo che quando vedo qualcuno con questo tipo di piercing mi dà l’impressione che davanti ci sia uno che tira una corda e quello dietro che arranca con il busto un po’ inclinato in avanti come se fosse davvero trainato. La ragazza con l’anello al naso sale così le scale di fianco a me, con la coda dell’occhio la vedo mentre con uno scatto esce prima dal sottopasso sul piazzale degli autobus. Poi mette via il telefono e accelera verso un’amica vestita uguale, colori malcombinati appositamente, feltro e sciarponi, treccine e cappelli fricchettoni, scarpe pelose da mercatino equo e solidale. L’amica è chiarissima di pelle ma è tutta rossa in viso, fa una smorfia così innaturale che le si piega la faccia a metà ad angolo retto, nemmeno Picasso riuscirebbe a tanto, e il tutto per non farsi vedere piangere, o perché ha pianto abbastanza. La ragazza con l’anello al naso le prende entrambe le maniche del parka e le tiene sollevate, come se quello fosse l’abbraccio più caloroso per lenire il dolore. D’altronde uno non si aspetta che quel tipo di persona sia espansiva, che si stringa alla sofferenza degli altri per assorbirne un po’ e spurgare i filtri intasati dalle difficoltà della vita, gli esami che non si superano, i genitori che litigano, i propri problemi di cuore. L’amica trema tutta nella faccia rossa che nel frattempo ha ricostruito nell’assetto in dotazione e sembra temporeggiare ma poi senza pensarci su dice una cosa che, a grandi linee, non proprio in queste parole, dice che le persone che si sono amate, quando si lasciano, non dovrebbero più innamorarsi di nessuno. E mentre lo dice guarda altrove rispetto a dove dovrebbe posare gli occhi, ovvero gli occhi della ragazza con l’anello al naso che le tiene con le mani le maniche del parka e, di conseguenza, quello che c’è dentro. E la ragazza con l’anello al naso si vede che prende fiato per parlare. Poco più in là, oltre il marciapiede, sulla strada, accosta un’automobile scura, un’Audi con delle ruote larghissime e, in analogia con il piercing per gli esseri umani, un appariscente addobbo luminoso di led sui fanali anteriori. Si sente fino a qui il boato dei bassi proveniente dall’impianto hi-fi, e per la arcinota teoria del subwoofer secondo la quale chi ascolta musica a palla in auto è quasi sempre musica di merda, il miscuglio di robaccia disco con il cantato brasileiro è agghiacciante. Si apre la portiera lato guidatore ed esce un ragazzo incredibilmente fine, con i capelli un po’ lunghi ma per il resto vestito a modo e tutt’altro che in linea con la macchina di sua proprietà. D’altronde uno non si aspetta che quel tipo di vettura abbia un conducente così distinto. Ma la musica, a quel punto, straborda dall’abitacolo e investe tutto. Ed è un peccato, perché la ragazza con l’anello al naso, che ha appena preso fiato per parlare, vedo che apre la bocca e dice qualcosa all’amica che ha ripreso a piangere, ma da qui con quel baccano non riesco a capire.

in via tarchetti

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Non è vero che la sua visita fosse inaspettata perché circolava la voce che prima o poi avrebbe fatto un salto, ma nessuno pensava che si potesse presentare senza nemmeno avvertire, per una serie di motivi che è quasi ovvio ricordare. Intanto il capo avrebbe potuto non essere in ufficio ad accoglierla, con tutti i suoi impegni, le visite ai clienti, le sue fanfaronate commerciali. E poi non è che si trattasse di una formalità, un semplice faccio un salto un giorno di questi, tutti noi dovevamo prepararci con un po’ di anticipo, e a dirla tutta io quel giorno avrei scelto di stare a casa, darmi malato, perché poteva trattarsi di un’esperienza troppo forte per il mio carattere sensibile, visto tutto quello che era successo. Ma è finita che andata proprio così.

Un bel giorno, era metà mattina ed eravamo tutti già infognati nella nostra palude di produttività cieca, quella a cui ti dedichi con la fretta dell’esperienza per rispettare le scadenze quando sei in un’azienda sotto di organico e in sovraproduzione. Quel bel giorno, a metà mattina, è sceso il custode autista tuttofare dicendo che era arrivata la mamma di Raffaele per vedere dove lavorava suo figlio e per raccogliere le sue cose personali. Raffaele era stato vittima di un incidente assurdo qualche settimana prima. Aveva messo a punto una tavola da snowboard dipinta con le sue mani – Raffaele era un illustratore molto bravo – ed era andato in gita sulla neve con qualche amico, la sua ragazza, un weekend come tanti altri, durante il quale si è lanciato non ho capito bene dove e non ho capito dopo essersi calato cosa, ed è finito in un burrone, è cascato già da un dirupo, ha chiuso la sua discesa con la tavola nuova di pacca nel peggiore dei modi.

Raffaele occupava, con il Mac gigantesco che l’agenzia gli aveva messo a disposizione, gran parte del tavolo che dividevamo svariate ore la settimana, aveva almeno quindici anni meno di me e, malgrado ciò, sembrava un tipo in gamba. Il suo curriculum iniziava con una frase tipo “Il curriculum di Raffaele Xxxxxx. Mica cazzi.” che mi aveva fatto ridere. Nessuno in ufficio si ricordava come si fosse lasciato con lui il venerdì pomeriggio prima del fine-settimana che gli è stato fatale, perché nella memoria collettiva prevaleva il ricordo della chiamata che uno dei soci dell’agenzia aveva ricevuto il lunedì successivo. Raffaele era morto. Quella mattina mi ero sentito in dovere di avvisare i colleghi più giovani man mano che arrivavano al lavoro, come se essere un po’ più grande mi conferisse l’autorità di dare brutte notizie con l’atteggiamento paternale. Ma non ero un annunciatore di tragedie affidabile, così dopo una o due volte avevo desistito.

Ci ricordavamo poi del funerale a cui avevamo partecipato tutti, in cinque in una utilitaria e la collega che in autostrada gettava fazzoletti di carta madidi di lacrime e muco dal finestrino e io che pensavo che il dolore comunque non dovrebbe giustificare atti irrazionali a discapito della collettività e dell’ambiente. E anche in quell’occasione, in maniera molto delicata, avevo fatto notare l’inopportunità di quel gesto, nessun amante della natura vivo o morto lo avrebbe approvato. Ma, giustamente, nessuno mi aveva preso sul serio e, per stemperare la mia pignoleria fuori luogo, avevo chiuso la parentesi di educazione civica con una battuta, come se quello che avevo detto si trattasse di uno scherzo.

Quando la madre di Raffaele si è presentata, sentendo che il momento che tutti scongiuravamo era arrivato, mi sono subito tirato indietro da fare le veci per gli onori di casa. Nessuno dei soci era presente, e il custode autista tuttofare si era rivolto a me come se io fossi il più alto in grado, come si fa in caserma. Ma non c’è nemmeno stato il tempo di elaborare una strategia di fuga. La mamma di Raffaele, visibilmente provata, ha chiesto però come prima cosa chi fosse di noi il collega ligure di suo figlio, il che ha complicato tutto. Si riferiva al sottoscritto, uno che non se la cava molto bene con la morte altrui. Ma non nego il piacere che ho provato quando mi ha messo al corrente del modo in cui Raffaele gli aveva parlato di me. Non sapevo però che cosa le avrebbe fatto piacere sentirsi dire. Mi sono limitato a svelarle che mi ero permesso di prendere dal suo portapenne una matita molto bella, che Raffaele usava per fare gli schizzi sul blocco. Una specie di ricordo, certo che non se l’avesse a male.

Aveva lasciato fuori da la porta un gruppetto di amici del figlio, con cui aveva organizzato quella specie di tour della memoria lungo i luoghi del ragazzo, i quali però non avevano avuto il coraggio di scendere, o forse non volevano disturbare noi che eravamo lì a lavorare o il dolore privato della mamma. Ci tenne a sottolineare quel dettaglio, perché aveva inteso quel momento come un workshop volto a edificare una idea comune di Raffaele a cui fare ricorso in futuro, in modo che ci fosse una sorta di uniformità di quello che era il ragazzo, una centralizzazione dei ricordi da usare come unico riferimento.

La donna non esitò a lasciarmi la sua e-mail e il suo numero di telefono per contribuire all’opera con aneddoti, impressioni, materiale, frammenti di vita quotidiana. Si stupì però quando le confessai di non conoscere il suo nome. “Possibile che non ti abbia mai parlato di me e non ti abbia mai detto come mi chiamo?”. La risposta era difficilissima. Perché la verità era no, ma mi accorgevo che non avrei voluto deluderla. Non ricordavo però alcun dettaglio della vita privata del collega che mi fosse stato rivelato, senza contare che lavoravamo insieme da poco più di un semestre e le occasioni di confronti, al di là dei progetti che seguivamo e delle cazzate che si dicono in ufficio, erano rarissime. Lei colse al volo la mia esitazione e mi scrisse i suoi dati, aggiungendo che un nome e cognome così erano difficili da dimenticare. E non aveva tutti i torti. Aver abbinato un nome di battesimo così contestuale al cognome sembrava uno scherzo di una coppia di genitori burloni, quelli che vogliono fare i simpatici con la vita sociale dei propri bambini. Solo quando se ne andò pensai a quanto l’avessi trovata attraente, avrà avuto cinque o sei anni più di me e mi era sembrata davvero bella. A quanto mi bruciasse quel foglietto con i suoi recapiti in mano per quello che stavo pensando, a quanto fosse fuori luogo quella sensazione che il suo fascino mi aveva indotto.

se l’importante è stare insieme

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L’amore non è stare ore a guardarsi mentre una registra il nero di suo papà che già, con tutti i soldi che gli rimangono da quello che evade, un commercialista esperto in malaffare potrebbe anche permetterselo, e l’altro sta lì a fare niente perché non ha nemmeno con sé il suo romanzo da portare a termine e in casa di lei non c’è nemmeno un fumetto del fratellino che ormai fa il liceo e a Dylan Dog preferisce Youporn. Come biasimarlo. Ma proprio il portatile famigliare è occupato da due o tre fogli di calcolo con le celle e le colonne che trasudano reato dai bordi e gli spiccioli che si arrotondano sullo sfondo della casella a formare un torbido acquitrino grigio che, peraltro, ne complica la lettura. Sì, uno potrebbe guardare la tv, ma come la mettiamo se non ci è più abituato e qualche minuto di Sky HD a millemila pollici con un surround che nemmeno al multisala fa già venire la nausea, come se si dovesse sempre circolare in macchina al massimo della potenza del proprio veicolo e alla più alta velocità possibile, un continuo accelera e frena e accelera e frena con l’auto davanti che sai a memoria la targa e meglio così, perché leggere in viaggio fa venire da vomitare. L’amore quindi non è nemmeno pretendere che l’altro stia lì, a bearsi dell’aurea altrui come se ci si fosse fidanzati con un taumaturgo, che poi non so se si possa mettere al femminile perché taumaturga non l’ho mai sentito ma non sono certo un depositario enciclopedico. Anzi. Ci sono quelli che vivono in caseggiati con tanto di custodi o portinai, figure che quasi appartengono alla mitologia delle classi più abbienti con il loro accento meridionale o i loro cruciverba completati a cazzo, che sarebbe bello davvero fare un tumblr o uno di quei collettori che usano adesso pieno di soluzioni inventate per non lasciare nemmeno un riquadro vuoto. No perché se c’è il custode o portinaio si potrebbe scendere giù a fare quattro chiacchiere, che loro sanno tutto di tutti, distrarli un po’ dal lavare le scale o da cucinare cibi ad alto tasso di asocialità in orari in cui uno a malapena berrebbe un caffè. Ma niente, quando non si può nemmeno veder le foto del matrimonio dei potenziali suoceri, separati che ormai nessuno si ricorda più di una vita passata, bisogna comprenderlo e lasciarsi andare, se non lasciarsi del tutto. Quando i presagi della disponibilità altrui nel futuro sono più che evidenti, tanto vale organizzarsi, portarsi sempre dietro qualcosa da fare, fare altro tout court.

nessuno compra più lo zucchero sfuso, perché dovremmo farlo noi

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Non è ben chiaro che cosa si veda dal mattino, fatto sta che questo ha il cielo color carta da zucchero che si riversa su tutto il resto. Non lo zucchero, perché così sarebbe troppo facile dare un valore alla giornata, una sorta di ph tendente all’acido o al basico, dolce o salato, o appunto la presenza di più o meno additivi che consentirebbero di annoverarlo tra quelli che poi ti ricordi anche a distanza di settimane o quelli che ci passi sopra. In realtà è questo non-colore che riveste tutto che è poi l’anomalia dell’alba, ci sono uomini e donne appena svegli che scostano la tenda e segnalano la cosa a chi di competenza, solitamente famigliari sufficientemente sensibili in grado di apprezzare l’evento naturale o almeno di stupirsi. Vieni a vedere che colore strano, si sente dire da qualche parte. E da quella parte un ragazzino che lascia per qualche istante la colazione, tanto il latte è bollente, e si porta ai vetri per vedere i palazzi fuori e quei pochi alberi e tutto il resto che sì, in effetti è di quel colore che gli è stato anticipato. Ma non dice che ne avrebbe preferito uno più deciso, le sfumature che non sono né carne né pesce non servono se si ha l’entusiasmo acceso.

Non resta che farne un accenno in macchina, quando poi le tonalità fuori si sono uniformate al resto delle settimana, mentre il caso si è manifestato nei panni di qualcuno che andava da qualche parte sulla nostra direzione e così il nostro buon cuore che mai si sopisce – e mi viene da dire per fortuna, ma per motivi squisitamente biologici – e così l’abbiamo tirato su, su suggerimento di conoscenze comuni di quelle che mettono sempre il naso nelle cose degli altri e fanno di tutto per incrociare i destini anche se non ne avrebbero l’autorità tanto meno le competenze. E per fortuna che c’è quello, il fenomeno naturale di cui si è stati testimoni come argomento per rompere il ghiaccio, ma tutto dipende dal grado di sensibilità altrui nonché dallo spirito di osservazione. Poi però accade che in coda a un semaforo il chiacchiericcio superficiale da abitacolo viene distratto da un tizio che è sdraiato per terra a pancia in giù, con il braccio teso in un’inclinazione innaturale. Avrete intuito qual è il lato cinico di tutto ciò. Che siamo talmente abituati a persone che sembrano sapere quel che vogliono e agli esagitati della tv che poi non riusciamo a discernere uno spettacolo di strada da un uomo che soffre, che sta male, che prima era in bicicletta e poi qualcuno che ha pensato che superare la coda al semaforo superando tutti con l’automobile passando sul marciapiede, che poi è lo stesso luogo dove si sente in diritto di parcheggiare impunemente, lo ha buttato giù senza tanti complimenti. E noi che lo scambiamo per un normale caso di follia urbana, qualcuno a cui è caduto qualcosa e lo sta raccogliendo e nel mentre decide di provare qualche nuova tecnica di ballo di strada. Ma ci arriviamo dopo a capire le cose gravi quando accadono, perché non c’è il tempo per fermarsi che ti suonano quelli dietro e bisogna affrettarsi. Forse quell’uomo aveva davvero bisogno di aiuto, ma nessuno poi lo dice.

E un po’ è un peccato, non sfruttare quegli interstizi di esistenza appieno solo perché si trascorrono con persone a cui mai avresti pensato di dover dare uno strappo con l’auto e rimanere in quell’intimità che sono i sedili davanti, seduti nella stessa posizione a guardarsi con la coda dell’occhio.  Chissà come reagiscono gli altri quando sono indotti a far parte dell’intimo di individui di cui non sono familiari, che detta così può sembrare una constatazione ambigua su cui è meglio soprassedere. Così non sarebbe grave parlare di sé, condividere preoccupazioni come quella che quando saremo vecchi non avremo più la lucidità per vederci come siamo realmente secondo quanto ci siamo immaginati quando eravamo giovani, non so se mi spiego (è sempre bene porsi questo dubbio soprattutto con chi non si conosce a fondo). Quando sarà troppo tardi per tornare indietro e dare un’occhiata al futuro che c’è già stato. Perché magari saremo tutti divorati da una forma di demenza senile e ci esprimeremo solo a parodie di canzoni, avete presente vero il gioco di cantare strofe e ritornelli cambiando le parole pur mantenendo le rime inalterate. Tutte cose che alla fine uno dice tra sé, perché anche se per una volta si va dalla stessa parte non è detto che si voglia dare un’impressione così profonda a chi, magari, poi non ci capiterà più di rivolgere la parola. Così finisce che anche quello è solo un altro giorno di quelli che ci passi sopra e non hai colto un’opportunità. Perché si scopre che  il colore strano c’è anche dopo che il sole è tramontato. E si sa che d’inverno se ne va presto, mentre pensi a come è cominciato quando hai visto il cielo carta da zucchero, a chi hai corso il rischio di aprire i tuoi dubbi, e solo con la scusa che sopra c’è tutta una coltre di nuvole e poi una infinita luce accesa.

guardati le spalle

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Ti poteva andare peggio se, voltandoti per seguire con lo sguardo fino alla salita dei gradini quella specie di modella un po’ più in carne all’altezza natiche, non hai visto la sporgenza e sei franato a terra slogandoti solo una caviglia. La tua passione per la contemplazione di panorami femminili in movimento poteva trasformarsi in tragedia, in metropolitana è un attimo a oltrepassare la linea gialla e finire giù nei binari o sotto un convoglio se non si sta attenti. Che già quell’altra volta quando sei stato messo alla berlina perché mi hai raccontato che ti eri incantato sulle gambe di quell’altra che non se ne sarebbe accorta se la sua amica non glielo avesse fatto notare. Quella volta lì avevi fatto una pessima figura alla mostra, c’era silenzio così a nessuno era sfuggito il commento sarcastico con il quale eri stato invitato ad allontanarti per via dell’equivoco sulle cose che in quella galleria era più importante guardare oppure no. Quindi solo un’ingessatura al piede destro ma una bella figura di latta perché qualcuno anche in quel frangente ha notato il livello di distrazione, anzi di trance, e ha fatto presente a tutti la cosa: impiegati, studenti, turisti, nullafacenti e ogni tipo di utenza della linea rossa all’ora di punta in direzione Sesto che da ieri sanno chi sei. D’altronde da uno che è in grado di commentare ad alta voce pure l’attillata avvenenza dei ferrotramvieri di sesso femminile ci si può aspettare di tutto. E anche quella volta lì la “controllora” non l’aveva presa bene, pensi a guardare le sue foto porno sull’iPad ti aveva detto, e tu rosso di stizza l’avevi invitata a fare il suo dovere, controllare i biglietti e fare arrivare in orario il mezzo. Insomma, un po’ di riabilitazione alla gamba è quello che ti ci vuole, nel frattempo prova a riabilitarti il comportamento prima che qualcuno ostentando un temperamento focoso passi ad argomenti ben più convincenti per farti desistere dal tuo spirito di osservazione.

due o tre cose che pensavo su tutti voi, esclusi i presenti

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Ed ecco, a grande richiesta, una carrellata di alcuni aspetti della nostra civiltà, a detta di tutti almeno da queste longitudini già abbondantemente avanzata, sui quali sembrano essere ancora ampi margini di miglioramento. Come si usa per questo spazio, sentitevi liberi di aggiungere in calce i vostri. Mi sembra doveroso partire dai freni dei convogli ferroviari e dal loro fastidiosissimo stridore, un baccano che se ti capita vicino ti annienta tanto ti penetra meticolosamente da tutti i pori umani di contatto con l’esterno. Me lo raffiguro come una sorta di agopuntura al contrario, inventata da un criminale nazista orientale per torturare sadicamente i suoi prigionieri infilzandoli con sottilissimi aghi metallici ovunque ci sia un’apertura. Che cosa terribile. Andiamo su Marte, inseriamo manicotti intorno alle arterie in biopsia per stabilizzare aneurismi e non siamo ancora stati capaci di inventare un sistema per attutire lo sfregamento delle ruote dei treni sui binari?

Per non parlare dell’autoironia, che non c’entra nulla con il pezzo qui sopra  e no, il fatto che il nome sia composto con il prefisso auto non significa che si tratti di un mezzo di trasporto. A pensarci bene però, un veicolo per lanciarsi spediti verso la propria emancipazione emotiva sì. Ma siamo in pochi ad avere la patente di questo bolide, abili piloti in un mondo in cui ci si prende solo sul serio. Ma da qualche parte bisognerà pur incominciare il lavoro su di sé per allentare tutta questa tensione generale, se pensiamo che alla base della crisi globale che stiamo vivendo ci sia sopratutto un diffuso sentimento di orgoglio e pregiudizio. Quindi, anche se voterete Renzi, non preoccupatevi, continuerò a volervi bene come sempre. Però, siate onesti con voi stessi: se fosse stata una qualsiasi macchietta del centro-destra a farsi fotografare in un tripudio di messe in piega senili sulla copertina del noto settimanale “Oggi” saremmo qui a riderne insieme e non ad arrampicarci sugli specchi per cercare di difenderlo, che è un insulto all’intelligenza collettiva del centrosinistra.

Terzo ma solo per puro caso è l’uso di hit anni 80 – Girls just want to have fun di Cyndi Lauper, giusto per fare un esempio –  come suonerie di smartcosi in dotazione a utenti che viaggiano verso la mezza età. L’ottimismo sintetico mascherato da un immaginario popolato da scaldamuscoli o spencer con bavero in velluto stride in eccesso con le canizie di ex paninari ritornati alla piena dignità morale grazie alla rimessa in auge delle Timberland a polacchina, peraltro facili da trovare tarocche a ogni angolo della strada o nei negozi al profumo di oriente a uso e consumo dei vostri figli.

Mi resta solo una battuta per chi vive sempre all’attacco, avete presente quelli che sono sgarbati perché non gli hanno voluto bene da piccoli, o perché a scuola li prendevano in giro perché non eccellevano in igiene personale e avrebbero dovuto curarlo vista l’evidenza dell’odore epiteliale profuso per lo più involontariamente. Quelli che anche se non è il caso mandano indietro i piatti al ristorante, chiedono gli sconti anche per uno straccio da due euro, non aspettano la tua seconda opportunità perché non ammettono nemmeno una tua prima e unica défaillance, nemmeno poi fossero loro a rimetterci ma comunque sono così arroganti perché non hanno altri timbri per mascherare la loro bruttezza dentro, e spesso anche quella di fuori perché poi il loro carattere del cazzo alla fine lo somatizzano e così sono pure inguardabili? Ecco, possibile che nel 2012 questi non siano ancora morti tutti?

la spalla e il protagonista

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Temo che sia riduttivo ricordarsi degli altri solo per un particolare. Può essere considerato invece encomiabile lo sforzo di associare un particolare a una persona che si conosce superficialmente, così, per dargli un po’ di importanza quando la si incontra e far sì che l’altro si senta ricordato. Si tratta di un sistema però molto delicato e potete immaginare il perché. Intanto occorre essere dotati di una memoria di ferro, e già questa griglia di partenza taglia fuori una nutrita percentuale di persone, il sottoscritto compreso. Collegare sempre tizio alla sua peculiarità è un mestiere, come si dice dalle mie parti, che poi magari non è la sua caratteristica principale, quella che sanno tutti, ma un dettaglio che ci ha colpito quella volta in cui siamo scesi più in confidenza con lui perché c’erano tutte le condizioni giuste per sbottonarsi un po’. E qui non è detto che se uno ti svela qualcosa di riservato poi tu glielo rimetti costantemente sotto il naso ogni volta che lo incontri. Non sta bene. Magari poi si trova in compagnia di qualcuno che è all’oscuro di quel segreto e ci si fa una figura discutibile. O magari hai rivelato qualcosa di te, non necessariamente gonfiandola un po’, che tanto chissà quando ci rivedremo e poi te ne dimentichi e passi per quello che millanta le sue prodezze, il solito fanfarone che chi si crede di essere.

Ma a parte casi limite come questo, è ovvio che le nostre figure sociali siano attorniate da un’infinità di comparse, alcune ricorrenti altre meno, e per questo bisogna stare all’erta se ci viene da fare i giovialoni con tutti. Si tratta di un ruolo che, se lo interpretate, è a vostro rischio e pericolo. C’è un tizio che incontro non più di due o tre volte l’anno, quattro o cinque nei periodi di punta, con il quale ci diciamo sempre le stesse cose e l’approccio reciproco verte su un aspetto che ci ha accomunato quando ci siamo conosciuti, la prima volta. Lui, che è il papà di una compagna di classe di mia figlia, gioca in una squadra di rugby amatoriale e, nel corso di un incontro non tanto amatoriale, gli è successo non ricordo esattamente cosa alla spalla ma si è fatto abbastanza male da stare qualche settimana a casa dal lavoro e da interrompere l’attività para-agonistica per un bel po’.

In quello stesso periodo io avevo avuto seri problemi alla schiena dovuti alla mia struttura fisica di ispirazione cubista e alla scarsa propensione di mia figlia all’uso di mezzi di locomozione a spinta. E abbiamo rotto il ghiaccio in occasione di non so quale riunione dei genitori. Lui con la spalla vistosamente fasciata, il con l’andatura da simbolo <. Ci siamo raccontati le reciproche disavventure – di certo le sue più nobili ed epiche delle mie – e ci siamo scambiati, a fine serata, qualche consiglio su come evitare futuri problemi con il nostro corpo. Ed è stato edificante rivederci qualche mese dopo, lui in fase di guarigione grazie a una efficace fisioterapia e io rimesso in sesto da un plantare, qualche seduta da un osteopata e una serie di incontri di rieducazione posturale e attività fisica appropriata. Tanto che da allora, oramai archiviate quelle cause di immeritata sofferenza, quelle poche volte direi a cadenza quadrimestrale in cui ci troviamo come è accaduto ieri nel tardo pomeriggio, scambiati i saluti e la stretta di mano, è lui che mi scruta come a leggere un codice che lo rimanda all’argomento di dialogo consono alla mia persona e mi chiede senza tanti preamboli come va la schiena. Che è carino da parte sua se non fosse che la penultima e la terzultima e la quartultima e la quintultima volta in cui ci siamo visti il mio problema alla schiena era già stato (fortunatamente) risolto con successo e, di tutto ciò, ne è stato messo al corrente in ogni occasione utile.

Così vinco la tentazione di cambiare versione ogni volta perché fondamentalmente sono una bella persona e non voglio approfittarmi degli altri e lo ragguaglio sulle cose che dovrebbe sapere già. E gli chiedo come va la spalla, anche se non ricordo mai se è la destra o la sinistra. Lui la muove simulando un passaggio della palla ovale per farmi vedere che gli piacerebbe poter dire che si è ripreso alla perfezione, ma è lì che fa un’espressione insoddisfatta. E mi racconta dei benefici della fisioterapia e di quel ciclo a cui si sottopone, che però non è mai terminato finché squilla un telefono, bisogna andar via, c’è qualcuno che si intromette, e l’occasione – che non ho ancora capito di che occasione si tratta – finisce così e sarà per la prossima, ne sono sicuro.

stringere il cerchio

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Parliamo in piedi, tu sei perpendicolare a me il che, per farvi capire, significa che io ti guardo dritto in un orecchio e tu parli a me pur rivolto a un interlocutore invisibile alla mia sinistra. Già da questo particolare è facile capire che mi sto riferendo a un uomo, uno di quelli che non riescono a guardare negli occhi, a rivolgere la bocca nella direzione della faccia di chi gli sta rivolgendo la parola o, di rimando, l’attenzione, quando chi ha davanti, anzi di lato, è del suo stesso sesso. E lentamente faccio esperimenti empirici di riposizionamento, muovendomi impercettibilmente verso la mia sinistra in modo da ridurre l’angolo di conversazione, così cerco di captare il tuo sguardo e per qualche secondo ci riesco. Poi la palla passa a me, è il momento per esporre il mio parere e approfitto della intimità che (mi sembra) si stia creando per approfondire il dialogo, ti rilascio anche dettagli piuttosto personali e riservati proprio perché sono stufo di chiacchierare del tempo e di motori e di altre cose di cui non ho un’opinione, un po’ perché esulano dalla mia competenza e un po’ perché non mi sono mai posto il problema. Ma appena finisce il mio turno e tocca a te, ecco che ristabilisci la prossemica di prima e immagino che visti da fuori facciamo ridere in questa specie di girotondo su noi stessi, come me che ti incalzo dalla mia circonferenza esterna e tu, come raggio, fai ruotare l’asse comportamentale che ti consente di mantenere costante la nostra distanza. E io che con tutta la mia buona volontà tendo a trasformare questo movimento emotivo in una sezione aurea, alla fine non riesco a vincere la forza centrifuga, sei troppo maschio o, mi viene il dubbio, ho l’alito cattivo.