Qual è il senso della vita? Ti faccio un disegno.

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Succede raramente, ma succede, che poi li prendi uno ad uno – la gente, intendo – magari proprio in un giorno in cui sei di buzzo buono perché è venerdì e anche se piove pensi che singolarmente qualche margine di miglioramento ci sia. Siamo sempre anni luce dalla fiducia nel genere umano, sia chiaro, ma ti immagini che ogni individuo inscritto nel contesto più adeguato abbia qualcosa da dare. Te lo figuri nell’ambiente che gli somiglia di più a svolgere l’attività in cui è più bravo, magari raccontato dalle parole di un valente storyteller o mentre parla in un video di quelli che usano adesso, lui che ispirato si rivolge a qualcuno che non si vede fuori campo scalando congiuntivi a strapiombo e dietro lo sfondo di casa sua. Mobili Ikea volutamente sfocati, un gatto appisolato nei pressi di un calorifero, una stampa dozzinale sulla parete arancio dipinta in spugnato, una lattina vuota di una bevanda di quelle che ti danno la scossa con un fiore finto dentro che fa il paio con quello sul cruscotto di una Mini, una Cinquecento, un Maggiolino che riposa nel garage.

A questo proposito, e lo scrivo giusto perché quello che sto per dire non c’entra un cazzo ma così sembra che abbia un po’ di attinenza con quanto detto sopra, osservavo con sentita ammirazione un progettista utilizzare un software di modellazione tridimensionale, mi riferisco all’evoluzione dei programmi di ingegnerizzazione che adesso non si basano più su superfici piane ma mettono a disposizione sistemi per vedere oggetti e ambienti nella loro interezza virtuale. Così mentre questo ingegnere mi mostra un prototipo di una componente meccanica in 3D sulla sua workstation e lo muove e lo rivolta come un calzino zoomando fino al millesimo del millimetro, dentro e fuori, da solo e come renderà una volta assemblato con il resto delle parti che andranno a costituire la macchina su cui lui e i suoi colleghi stanno lavorando – e che andrà in Cina, particolare non trascurabile – penso a tutte quelle donne e quegli uomini, quelli di cui sopra dicevo che se presi singolarmente magari hanno un loro perché, come si sono stabilizzati ora nel loro modo di relazionarsi tutto veicolato da dispositivi di trasmissione e ricezione delle emozioni.

Ognuno di loro, e mi ci metto anche io ma solo perché oggi sono più buono del solito, ogni individuo elabora in ogni istante in cui impugna il suo megafono digitale touchscreen un modello virtuale delle conversazioni per anticipare poi come renderanno nella realtà. L’impatto di una parola piuttosto che un’altra nell’ambiente in cui verranno liberate, le interferenze che possono generare attriti nelle relazioni e grazie al prototipo virtuale si riescono a limare le intenzioni prima di usarle, con il sistema che evidenzia le zone a rischio da eccessivo carico. Se il layout delle conversazioni stesse può integrarsi con tutto ciò che ci sarà intorno una volta che il rapporto che dovrebbe trarne giovamento prenderà forma. Ecco, il mio contributo di oggi è che la vita è un ufficio tecnico, non siamo più fabbri del nostro destino ma poco più che disegnatori CAD®.

un banale post di bentornato in ufficio

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La differenza più eclatante consiste nel fatto che quando sei in vacanza non senti le persone intorno a te elaborare e mettere in pratica quelle piccole tecniche di sopravvivenza esistenziale che poi, il giorno del rientro in ufficio, ti rendi conto che non ti sono mancate per nulla, soprattutto le tue che eri riuscito a stemperare lungo i tempi senza capo né coda della permanenza nella località di villeggiatura prescelta. Dev’essere questo il substrato di nevrosi che ci fa vivere così male, escrescenze invisibili a occhio nudo che calpestiamo camminando fiaccandoci i piedi e, conseguentemente l’umore. Acari voraci che abitano i nostri materassi e i nostri guanciali che inducono i pruriti che ci svegliano di colpo nel cuore della notte. Viviamo con un asset di microstrategie a cui ricorriamo in continuazione e di cui ci vergogniamo proprio quando siamo al mare con i nostri cari, o lungo i sentieri di montagna, o quando ci beiamo di un’opera d’arte vista fino ad allora solo nelle foto su Internet. Ci imbarazzano quando non servono perché siamo nudi quanto il prossimo, o in quattro gatti in spazi immensi, o immersi in una babele di lingue in mezzo a gente di tutto il mondo e il nostro blaterare neolatino è meno che incomprensibile. Così quando ricomponiamo i pezzi delle nostre vite e rientriamo nei nostri ruoli, vicino a chi non è ancora andato in ferie o è tornato già da un po’ ci rendiamo conto delle stranezze del genere umano, dell’impegno sovradimensionato proprio perché costante per ovviare a minuscole ansie da scansare come cacche di piccione. Cose di cui siamo riusciti a fare a meno perché se ne può fare a meno. Cose pratiche, superstizioni, atteggiamenti, parole, gesti e finzioni che siamo certi essere necessari per non lasciarci travolgere da quelle altrui. Oggi ne ho già rimesse in sesto un paio. Ottimizzare i tempi per non perdere il treno, evitare il barista ottimista in eccesso – è il suo lavoro – che sotto sotto mi induce il senso di colpa di non consumare cappuccio e brioche nel suo locale, resistere ai racconti di inutili viaggi a Las Vegas, concentrarmi su un romanzo radicalmente triste, camminare in strade prive di lavori pubblici per non provare sollievo di fronte a mestieri davvero faticosi, quando ho bisogno di pensare che il mio sia un calice amaro e che c’è tutto un anno davanti per mandarlo giù a piccoli sorsi.

enjoy the silence, se non altro è sempre attuale

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Il solo fatto di essere in grado di esemplificare qualunque tema di conversazione con esperienze personali o aneddoti tratti dal proprio vissuto non fa dell’individuo un soggetto interessante. Non automaticamente. Mettere a capo delle proprie affermazioni la prima persona singolare – che poi sarebbe il caso di introdurre i concetti di prima persona comune e prima persona anonima per meglio contraddistinguere chi si distingue poco o niente e chi è meglio che si abitui alla convivenza forzata e inevitabile nella massa scura dei sommersi – dicevo che la presenza della prima persona in ogni costrutto ai fini del monologo irrigidisce il dialogo – appunto – e demotiva l’interlocutore. Ci sono persone così, che per ogni tema hanno una sfilza di primati esperienziali pronti all’uso: malasanità, trasporti, catastrofi naturali, pubblica amministrazione, viaggi esotici, alimentazione. Siamo cresciuti infatti con il mito dei quindici minuti di celebrità warholiani, occasione che da casuale abbiamo strumentalmente frainteso con dovuta, fino a dilatarla ad almeno quindici anni di una vita tutta da raccontare, a nostro insindacabile giudizio. E pensare che i canali di marketing del sé sono ai massimi storici, ma l’audience, non dimentichiamolo, può cambiare di ora in ora. Metti che hai un follower in più o ti trovi di fronte uno che manco sa usare il computer. Ai tempi dell’umiltà, il non detto era l’aspetto più intrigante di una persona. Nell’era della presunzione è ciò che fa la differenza, quando osservi una persona in silenzio e pensi che figata, finalmente sta un po’ zitta.

lo studio due o il big, non ricordo

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Alla fine è venuto ad aspettarci in stazione Emanuele, riconoscibilissimo perché malgrado il freddo porco indossava solo il chiodo con sotto una di quelle magliette di gruppi rock di almeno una generazione prima della sua e la bottiglia di birra in mano. Michela gli si è gettata addosso nemmeno non si vedessero da anni e lui per un pelo non è riuscito a spostarsi per evitare tutto quell’entusiasmo inopportuno. D’altronde lei era abituata a essere corrisposta in modo approssimativo. Il suo partner precedente spacciava sostanze illegali leggere in casa, un bilocale caratteristico per l’arredamento da bar, con i tavolini e il bancone nell’ingresso, il videogioco non c’era stato e lo aveva sistemato in camera da letto. La provenienza di quella roba brandizzata con una nota marca di bevanda gassata americana, che nessuno vorrebbe in casa propria, non l’aveva mai giustificata a dovere, nessuno aveva mai sufficiente lucidità uscendo da lì per approfondire e tutto finiva in fame chimica.

Emanuele invece di vero nome faceva Emanuele Filiberto e il fatto di vivere a Torino la diceva lunga sulle simpatie anti-repubblicane dei genitori. Si comportava come un nobile che fa finta di essere uno del popolo e certe trovate poteva anche risparmiarsele, come accendersi le sigarette con le diecimila lire. Comunque dalla stazione ce ne siamo andati dopo qualche smanceria facile da minimizzare, almeno fuori. Ci siamo mossi a piedi perché il locale era lì a quattro passi. Il venerdì era la serata rock e durava fino al mattino dopo, io c’ero già stato ma un sabato e c’ero rimasto male perché suonavano solo house e c’era pieno di gente che prendeva pastiglie, tutti vestiti in modi assurdi che facevano versi di feeling palesemente artificiali. Prima che quel posto diventasse un supermercato, e dopo che era stato un cinema, era uno dei locali più divertenti mai visti e infatti c’è poco da dire, se ci siete mai stati è inutile dilungarsi sulla musica, sui buttafuori che al minimo accenno di pogo ti sbattevano in strada, sul tipo che ballava con un roditore vivo sulla spalla e cose del genere.

Quella notte io ero con l’amica di Michela che poi mi ha mollato sulla pista perché aveva incontrato un amico non ben definito con cui aveva avuto una storia sui campi da sci, altre piste in tutti i sensi. Ma all’alba ci siamo ritrovati sdraiati sul tappeto del salotto di un amico di Emanuele Filiberto in un palazzo che poteva tranquillamente essere una dimora dei Savoia ora degradata a piedaterre di giovani aristocratici decaduti e abbondantemente dediti ai passatempi psichedelici. Emanuele si è addormentato sfatto e Michela c’è rimasta male perché aveva coperto entrambi con il suo cappottone nero e voleva combinare qualcosa ma nemmeno lì lo ha dato a vedere e poi non dovevamo starci molto, alle sei e qualcosa c’era il primo treno che ci avrebbe riportati a casa. Ognuno aveva i suoi buoni motivi per non rivolgere la parola agli altri. Scazzo, alcol da smaltire, sonno. Durante il viaggio di ritorno ci ha sorpresi l’alba, ma nemmeno quella ha costituito un argomento di discussione. Nemmeno i saluti, bacio sulla guancia, ci si vede alla prossima.

detto zen

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Volevo solo ricordare a quel tipo che a vent’anni e rotti diceva che si sarebbe svenato nel caso non avesse raggiunto la fama artistica a cui aspirava che noi siamo qui ancora che aspettiamo. No, scherzavo, non è il caso e non siamo vendicativi. Era solo per farti un appunto, caro mio,  ché quella cosa del sedersi lungo la riva del fiume e attendere che prima o poi passa il cadavere del nemico in questo caso non vale, non sei un nemico. Solo che a volte vergognarsi di quando si era giovani è anche un modo per far capire al prossimo che nel frattempo si è diventati adulti, e anche un po’ simpatici.

riconosci il tocco

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Una volta, senza pensare a quello che stavo facendo, ho accarezzato un gatto con il dorso della mano davanti a mia figlia. Era ancora molto piccola e forse si trattava di una delle prime volte in cui vedeva dal vero un animale e stava scoprendo il mondo degli esseri viventi in carne e ossa, a tratti più deludente di quello dei libri illustrati e dei mammiferi antropomorfi. Ai bambini rimane attaccato tutto, soprattutto nella fase delle nuove esperienze. Così si è avvicinata al gatto e si è comportata esattamente come suo padre, passando il dorso della mano sulla testa del felino, e mi sono accorto immediatamente dell’errore. Le ho trasmesso un modo parziale di manifestare i sentimenti, coccolare un animale con la sensibilità ridotta del retro delle dita e delle nocche rispetto alla superficie pensata per il tatto di cui siamo dotati, costituita dai polpastrelli e dal palmo. I gatti, ma anche gli umani, si accorgono della freddezza del contatto, perché è innaturale, è un modo di darsi non completo. Così ho cercato di rimediare alla gaffe educativa sforzandomi un po’, in effetti il gatto era un randagione e se agisco di impulso non è che sia a mio agio nella possibilità di sporcarmi le mani. Devo concentrarmi e convincermi che la parte anteriore delle mani è fatta per quello, sapete come funziona. Il pollice opponibile e tutto il resto, altrimenti saremmo retroversi e dubito che ci saremmo evoluti fino a qui. Pensavo a questo poco fa quando ho notato una ragazza che ha premuto il pulsante di apertura delle porte della metropolitana piegando l’indice e spingendo il bottone con la nocca che non so come si chiama, quella tra la prima e la seconda falange. Non ha voluto coinvolgere la sensibilità della punta delle dita, probabilmente pensando quanti altri lo fanno ogni giorno e a tutte le schifezze che possono essere in quei punti ad alto tasso di tangibilità pubblica. Così mi è venuta in mente un’altra stranezza che vedo spesso fare a mio padre ma che mi accorgo di essere pronto a ripetere se mi muovo sovrappensiero. Se mi devo appoggiare o cerco un aiuto per issarmi da seduto, per esempio sul piano di un tavolo, non faccio leva sul palmo ma ancora sull’esterno delle dita, come certe scimmie. E se ci rifletto come ora, mi sento sempre la pelle sui palmi in fibrillazione, come se fosse irritata. La sento pizzicare, forse per l’effetto del caldo e della circolazione. Il contatto con un materiale fresco può essere quindi piacevole, per questo è importante usare le membra per come sono state pensate. Con il gatto poi comunque è finita che ne abbiamo presi due in casa, le dita di mia figlia e le mie si comportano a dovere, e se resta qualche pelo appiccicato che importa. L’affetto lo si scambia stringendo bene le mani contro i corpi così passa dentro ed esce fuori, il superfluo se occorre lo lavi via e tutto torna come prima.

copriti bene, fuori fa freddo

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– Non credi che le storie siano più ricche con i dialoghi?, gli chiese la voce interiore, la più chiacchierona tra i due.
– Sì, anche se mi secca darti ragione. Penso che sia il modo più intelligente per disseminare particolari della trama o caratteristiche dei personaggi lungo il racconto. È molto più naturale per chi legge scoprire i dettagli dalla voce di terzi anziché attraverso lunghi soliloqui dello scrittore narratore. Ma è anche molto più difficile, non dimentichiamolo.
– Quindi si tratta più di una tecnica narrativa che di un’esigenza intima?, lo incalzò la voce che, provenendo da dentro, ne sapeva qualcosa. Si versò da bere da una bottiglia di birra semivuota, definirla semipiena sarebbe stato troppo ottimista considerando il rapporto tra la voce e l’involucro vivente che la ospitava.
– Non so. Potrebbe trattarsi di un fattore di timidezza. Non parlo molto di mio, figuriamoci quando cerco di descrivere sentimenti complessi anche attribuendoli a personaggi inesistenti.
La voce rilesse quelle parole che l’involucro aveva scritto. Avrebbe voluto cancellarle, ma non era granché con i software di videoscrittura.
– Non ti accorgi che già faccio fatica a rispondere a te, con tutte le domande che mi fai?, si rivolse alla voce un po’ bruscamente.
Il loro rapporto, specie la mattina presto, quando la voce poteva incalzarlo senza rischiare alcun contraddittorio visto lo stato di dormiveglia, lasciava a desiderare.
– E poi non so nemmeno come si fa, se devo usare le virgolette, i trattini o i caporali. Se per ogni frase devo specificare da chi è pronunciata o se è sufficiente l’alternarsi degli interventi per far capire a chi legge chi sta parlando, le disse. – Anche solo se è meglio mettere il trattino alla fine.
La voce gli suggerì che poteva essere sufficiente prendere spunto dai libri che leggeva, o anche solo cercare su Internet quali fossero le regole tipografiche. Ma non era necessario. Lui si stava accorgendo che i dialoghi così scoperti rischiavano di essere troppo esposti. Nudi. Privi di ogni difesa e, alla fine, pure retorici. Meglio metterli al chiuso e lasciarli nel discorso indiretto. Più facile. Ma questo, alla voce che aveva dentro, non lo disse mai.

fu vera gloria?

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C’è solo un fenomeno più misterioso dei cerchi di grano in grado di esporre all’accusa di esoterismo chiunque tenti di dare una spiegazione ed è l’arcano motivo per cui, poggiando il palmo sul nastro delle scale mobili, ci si accorge che il corrimano si spinge a una velocità superiore rispetto a quella dei gradini, e se uno vuole mantenere la postura costante durante la salita finisce per trovarsi oltremodo sbilanciato in avanti con il massimo scherno degli astanti, per lo più avventori domenicali del centro commerciale che in barba alla sacralità manzoniana di una giornata come questa affollano ignari della ricorrenza negozi del calibro di Oviesse Industry. Pensavo anche a un dispositivo Apple per il cinque maggio, l’ei-Fu, siccome mobile e dato il mortal sospiro manco a dirlo, siamo nell’era del cloud che ce ne facciamo di uno smartcoso fisso.

Ma se pensate ancora per un attimo al paradosso delle scale mobili, più paradossale di quello di Zenone, Achille e la tartaruga che si rincorrono tra Zara e Motivi scritto con la o con i due puntini che non so nemmeno come si fa, se pensate al vostro corpo che resta dietro alla vostra mano trascinata in avanti capirete la metafora della nostra vita che ci supera, ci sorpassa e ci aspetta chissà dove, tanto è già arrivata a una tappa intermedia se non a destinazione. E né l’una né l’altra sono il lunedì o qualunque altro elemento destabilizzante del nostro ritmo cardiaco, perché di prove di questo tipo non avete idea di quante ne troverete da qui all’eternità.

Io pensavo invece a qualcosa di meno percettibile, un fattore a cui viene da riservare attenzione nell’istante che intercorre tra quando realizzi che il tuo acufene ha una sua dignità timbrica con tanto di riconoscibilità nella scala dodecafonica e quando ti accorgi di una ragazza araba dall’aria smarrita nel panico da sovraesposizione alla modernità occidentale a dosi massive, una sorta di sindrome di Stendhal dove al posto del Colosseo c’è Tezenis, una giovane donna tutta bardata nel suo velo che non se la sente di continuare la salita al piano superiore – tantomeno constatare con mano l’allarmante assenza di corrispondenza cinetica tra base d’appoggio in alluminio e nastro superiore in gomma – perché manifestazione di una visione escatologica impropria che la spinge a optare per il più pericoloso ma sicuro, perché non semovente, interstizio tra la scala mobile e il muretto su cui strisciare con i piedi, una manciata di centimetri a malapena, cercando di tornare indietro da lì nello sbigottimento generale velato da xenofobia diluita in presunta superiorità pratica.

Quello è il momento in cui ti accorgi che davvero c’è una parte di te che corre a perdifiato in avanti e ha già marcato il cammino, da qui a un boh temporale, di spruzzate di presente. Pietre miliari o palline di mollica degne di Pollicino che costituiscono la prova che di qui siamo già passati e l’eterno oggi che ci sposta verso il duemila-più-lontano-che-si-può è solo una mera constatazione amichevole del danno di esistere, come quando si overclockano i processori o un tempo si truccavano i Garelli 50. Bella l’ebrezza del fast living, poi però ti sfido a stargli dietro. E non mi riferisco certo al bruciarsi tutte le esperienze del mondo nei primi venti anni di vita nemmeno foste il cantante dei Doors, ma anche il solo tran tran apparentemente banale di noi esseri mortali. Ecco, uno sguardo verso i nostri corpi che hanno già dato tutto nello sprint mentre noi eravamo impegnati a doverci svegliare ogni fottuto lunedì mattina per aggiungere l’ennesimo tassello di una carriera di cui non ce ne fregava un cazzo, un altro negli occhi delle migliaia di persone come noi che nemmeno ci accorgiamo di incontrare ogni giorno. Nessuno che si sogni di fare un cenno al prossimo come quando ci si saluta tra motociclisti, un segno in codice per comunicare che ognuno di noi è al corrente del grande complotto ordito nei confronti di questa fratellanza globale da non so quanti miliardi di individui, una massa di gente che continuerà a crescere in quantità nella consapevolezza che tanto, prima o poi, è inutile che lo scriva tanto lo sapete anche voi.

decentrare l’argomento

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C’è tutta la vita di tempo per andare fuori tema, ma a qualcuno capita di rimanere in periferia del nocciolo della questione più o meno sempre. Nell’entusiasmo della risposta, dell’esposizione o dello svolgimento scritto si fa presto a smarrire la strada o a prendere l’autobus o la metro nella direzione sbagliata. Sali su in superficie e ti ritrovi in un altro contesto dove, se proprio hai orgoglio, puoi continuare con la dimostrazione e la ricerca del risultato anche lì, con punti di riferimento nuovi o anche inventati. Rimanendo ai margini c’è comunque tutta una narrazione che ha il tono di quelle circonvallazioni concentriche che ci sono qui a Milano, negozi che passano di mano in mano, mezzi pubblici gremiti e parcheggi selvaggi nel segno della temporaneità. Così c’è chi è preposto a dirti che è tutto bello ma che non c’entra, che non era questo su cui occorreva spendersi, che in un altro contesto saresti potuto anche risultare accettabile ma non in questo. Sei OT, come si dice sul web, sei uscito fuori dal seminato, altrove, altri discorsi, magari altri tempi. Sbagliati, questo è sicuro. E vedete, anche qui, volevo parlare di un’altra cosa ma poi è finita che mi sono perso.

son tutti giganti ma in punta di piedi

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Ci sono i giorni in cui tutti ci sembrano più alti. Non vi capita? Arrivano due che si presentano, ti stringono la mano e ti sembra di vivere in uno di quei videoclip in cui la telecamera riprende dal basso. Anche se sei uno e ottantacinque come me ti viene da guardare in su per rispondergli. Tutti giganti ed è per questo che la conversazione è poco agevole. Ti viene persino da assumere la postura quella che si adotta con le autorità per non dare l’idea che hai l’intenzione di soverchiarle. Ti viene da rannicchiarti un po’ e magari non ce n’è una ragione. Sono tutti così sicuri e ti chiedi che cosa è successo prima che arrivassi tu, magari c’era un meeting interno tra demiurghi comprensivo di ricarica reciproca di autopercezione finale e quando è stato il tuo momento sei stato vittima dei primi spruzzi, come quando attivi il rubinetto e nel tubo c’è troppa pressione. Vivere da normodotato nella società dei titani non è poi così difficile se ci fai l’abitudine e adotti qualche tecnica di allungamento della spina dorsale come stretching per ovviare alla lordosi. Questi che ti parlano e tu che ti perdi nell’osservare le vette che a te non è stata data la dignità di scalare, dalla cima arrivano le voci e discorsi che non fanno una grinza indipendentemente dall’ambiente in cui ci si trova,  a casa loro o in un campo neutro. Ma il rischio è di sopravvalutarli, e quelli sono ancora giorni diversi. Il ricordo della grazia ricevuta invita a idealizzare pensieri e opere altrui, ci si sente beati di luce riflessa e si cerca di far fruttare gli insegnamenti. Cerchi le loro emanazioni in rete, perché in rete ci sono anche loro, ma lì ecco che si rovina l’incantesimo. Nella relazione asincrona questi dispenser di saggezza globale non rendono. Perché le parole volano e i tweet rimangono molto più che nelle pagine scritte. Al terzo commento il gioco è finito, l’aura luminosa si spegne come una lampada Ikea di quelle più economiche, le vibrazioni si stampano contro il vetro infrangibile che è il monitor del pc dall’altra parte, indipendentemente dai cristalli liquidi, dall’hd e persino dalla risoluzione. Dovremmo ricordarci però di tutto questo, parlo per me perché so che voi lo fate già. Dovremmo ricordarci di tener la schiena dritta quando si conosce qualcuno, se poi siete spilungoni come il sottoscritto sono sicuro potreste avere delle belle soddisfazioni.