Stavo ascoltando i Rage Against The Machine quando è rientrata mia figlia dall’allenamento e mi ha chiesto di abbassare il volume. Ma non è solo questo. Giusto due sere fa alla tv passa il video di “Killing in the name of” e lei si mette a fare i versi sulla parte finale in cui Zack spara affanculo quelli che vorrebbero imporsi con la loro volontà. Stai attenta cara che stai scherzando con il fuoco. Sapete, vero, come sono i ragazzini di quell’età che vogliono fare i ribelli nei confronti dei genitori per tutta una serie di ragioni. L’aspetto paradossale è che noi di questa generazione qui ne abbiamo viste abbastanza, di cose trasgressive. Siamo cresciuti prima con i Clash, poi tutto il post-punk negli anni 80, i Nirvana e il grunge, i Radiohead e l’elettronica spinta. Insomma, a noi, voi che avete dodici tredici ma anche sedici o vent’anni, non riuscireste a stupirci nemmeno se vi tatuaste in scala 1 a 1 degli altri lineamenti su tutta la superficie del vostro corpo. Quindi siamo alle solite: per catturare la nostra attenzione volete fare le persone normali? Stupirci con le rime baciate dei vostri rapper mantenuti dai genitori? Ragazzi miei, che cantonata che avete preso. La vostra sfortuna è che la condizione di essere alternativi o, comunque, fuori come dei balconi, ha completato il giro di 360 gradi e ora l’unica strada è quella di ripartire da zero con le cose elementari o per lo meno semplificate. I Fedez e tutta quella gente lì stanno stretti nel loro spazio creativo perché o aspettano che qualcuno faccia piazza pulita o si annienteranno come la materia con l’antimateria. A cancellare tutto ci stanno appunto pensando quelli che rientrano in casa dall’allenamento e ti chiedono di abbassare i Rage Against The Machine perché non è pop. Oggi il pop, che è la vera essenza di questa società liquida, sta diluendo tutto quello che c’era prima, come se si volesse pulire tutte le incrostazioni di roba scomoda, quella difficile da capire e da spiegare. Quindi le chitarre distorte fanno casino e danno fastidio ma è un fastidio diverso di quello provato dai genitori che urlavano ai figli in cameretta di smetterla con tutto quel baccano che fa Tom Morello (il chitarrista dei RATM). Qui è il contrario. I figli che sono diventati adulti e che sparano Tom Morello a manetta, e inverosimilmente il contrappasso peggiore che avrebbero potuto mai subire: i loro figli che crescono assolutamente normali e hanno superato i genitori in regolarità chiudendo i conti con i nonni che si disperavano per i figli punk, grunge o chissà cosa poi cresciuti senza aver invece chiuso i conti con la propria adolescenza e diventati genitori, a loro volta, ma di figli terribilmente pop. Ma c’è un post scriptum: Tom Morello, proprio qualche giorno fa, ha twittato di aver detto ai suoi figli, per la prima volta, di abbassare la musica nella loro cameretta. Mi piacerebbe sapere che cosa stavano ascoltando e se, davvero, si è chiuso un cerchio che è grande non immaginate quanto.
rage against the machine
venti di cambiamento
StandardLe celebrazioni si fanno per decenni, ne avevo già scritto qui, ma si fa così indipendentemente dal fatto che io ne abbia scritto lì, sia chiaro. E in rete sono iniziate le celebrazioni dei vent’anni del grunge. Il 1991 infatti è stato, oggettivamente, l’anno della rottura, da allora in poi, mi riferisco alla musica, nulla sarebbe stato più come prima. Intanto per l’uscita di Nevermind, l’album che ha portato i Nirvana ad un successo senza precedenti. Ma ci sono altri tre dischi fondamentali per quel genere musicale che ha influenzato, in misura minore rispetto a quanto accadde per il punk alla fine dei 70, gli anni successivi. Naturalmente, come per tutti i fenomeni così esplosivi, il corso è stato standard: boom immediato, massima esposizione mediatica, tre o quattro anni di rendita, diciamo fino al 1995, poi giro di boa e riflusso, musica agli antipodi, quindi, a vent’anni di distanza, nascita degli emuli. Ne parlerò più avanti, anche se è un thread trito e ritrito, ma questo è stato il processo che hanno attraversato analogamente, per esempio, il punk, il post punk, la new wave, ma anche il beat e il rock psichedelico, persino il progressive. Materiale da tesi di laurea, chissà.
Ma torniamo ai tre album che dovrebbero, a mio parere, accompagnare Nervermind in una equa celebrazione di quel 1991. Anzi, a dirla tutta, Nevermind è stato si deflagrante, ma oggi è innegabile che le reminiscenze che abbiamo e l’approccio critico siano obnubilati dalle vicissitudini di Cobain, dal mito che la sua tragica fine ha prodotto. Senza nulla togliere ai meriti di quel disco, non dimentichiamo che “Smells like a teen spirit” è uno dei pezzi più belli di tutti i tempi. E, per rimanere nel mainstream degli interventi che spopolano in rete per l’anniversario, ecco un inciso sull’immancabile “dove ero io nel 1991”. Beh, grazie per la domanda. Nel 1991 ero già grandicello, avevo finito il servizio militare e stavo per laurearmi. E per seguire l’ennesima moda underground, con l’unico obiettivo di suscitare il maggior interesse possibile nel sesso femminile, mi ero fatto crescere i capelli lunghi lunghi e vestivo trasandato (ma guarda un po’) proprio come i grungi. Allo stesso modo in cui dieci anni prima vestivo di nero e avevo la cresta, cinque anni prima avevo la zazzera come Morrissey e così via. Ecco come disperdere la propria personalità. C’è un detto che sintetizza questo atteggiamento, ma è tropo volgare perché riguarda la capacità di traino di un particolare vello femminile. Per chiudere qui la parentesi personale scaccia-lettori, i due ricordi più vivi che ho di Smells like eccetera sono una bottiglia di Jack Daniels in due prima di un concerto dei Diaframma con Davide nella sua Opel Corsa con quel pezzo a palla, e un buttafuori di un club di Torino che mi ha, appunto, buttato fuori perché avevo iniziato a saltare pregno del pathos esaltante dal riff di chitarra di Cobain. Fine. Ah, di Nevermind avevo acquistato il vinile, in omaggio c’era una maglietta che ho regalato a una tipa, sempre per il detto di cui sopra.
Ma non dimentichiamo che nel 1991 ha visto la luce anche Ten dei Pearl Jam, innanzitutto. E, in quanto a spessore, i Pearl Jam sono ben altra cosa. La versione meno fashion del grunge. Leggo da Il Post che ci saranno celebrazioni ufficiali dell’iniziativa, comprendenti “un film documentario intitolato Twenty e diretto da Cameron Crowe, regista con assidue frequentazioni nel mondo del rock“. Bene. Eddie Vedder che suona l’ukulele ha comunque un suo perché, non trovate?
Terza pietra miliare dell’epoca è Badmotorfinger dei Soundgarden, la versione un po’ tamarra del grunge. Ma Jesus Christ pose è senza dubbio un capolavoro dalle venature dark, divertente da ascoltare, ballare e suonare. Per vedere i Soundgarden in quella tournée, pensate un po’, ho dovuto per contrappasso sorbirmi un concerto dei Guns’n’Roses, allo stadio Delle Alpi di Torino, gruppo di cui la band di Chris Cornell fece da supporto. Tsk. C’erano anche però i Faith No More. Ma questo accadeva l’anno successivo, sempre per il solito modo di dire scurrile di cui sopra.
Chiude la tetralogia (wow, mai avrei pensato di utilizzare questa parola in un post) la summa di tutto quanto, ovvero i Temple of the Dog. I Temple of the Dog, vi ricorderete, erano un supergruppo di Seattle, comprendente membri di proprio di Soundgarden e Pearl Jam, che si era formato come una sorta di tributo per la morte del cantante di un altro gruppo grunge, i Mother Love Bone, Andrew Wood. Il supergruppo durò giusto il tempo della pubblicazione di un album omonimo, uscito nel 1991, con alcuni pezzi davvero ben riusciti, come la struggente Hunger Strike.
Per chiudere, sono convinto che siamo arrivati al grunge passando anche per i Jane’s Addiction. Almeno per me il percorso è stato quello. Il grunge poi un bel giorno è finito, fagocitato da MTV e dai suoi programmi unplugged, dai filmetti come Singles, superato poi dal ritorno (per mia fortuna) dell’elettronica nel rock. Nel frattempo sono uscite altre band, gli Alice in Chains, gli Stone Temple Pilots e gli Screaming Trees, che avremo tutto il tempo per celebrare. Fino a questo anniversario, un po’ più dirompente.
Come all you rambling boys of pleasure and ladies of easy leisure
Standardè che tutto questo correre e spintonarsi alla Camera mi ha fatto venire voglia di pogare un po’, come ai vecchi tempi. Scommetto che anche voi non vedete l’ora. La situazione si fa tesa? Quale migliore occasione per scatenarsi, quindi…
Spazio Pour Parler: speciale Pogo!
Un tempo, si pogava di brutto. Addirittura a metà anni ’80, pogavamo cose tipo “La isla bonita” nelle discoteche estive di Varazze, giusto per dare ancora di più nell’occhio. Il diggei di turno, pur di non far degenerare la situazione, ci accontentava mettendo su i Cure o i Depeche o il disco più new wave a disposizione (Cure o Depeche). Noi lo si ballava con il massimo impegno e decoro, dopodiché si lasciava la pista al resto del pubblico. Ovviamente tralascio il “sotto il palco” dei concerti, la vera arena del pogo.
Il secondo capitolo di questa storia personale nei meandri della più genuina delle dissociazioni motorie è verso i primi anni 90. Il pogo di massa inizia a essere un fenomeno sociale proprio dei club che propongono musica alternativa. Siamo in pieno grunge e cross-over, dalle mie parti fioriscono locali dove ci si può spintonare a iosa ballando Urban Dance Squad, RATM e compagnia bella. Locali che chiudono nel giro di una stagione grazie alle risse provocate dal Firestarter di turno (ecco, si poteva anche pogare sulla techno).
Ma così è troppo facile. È come chiudere due gatti in un scatola di palle di natale di vetro. Si divertono, ma moooolto meno rispetto ad arrampicarsi sull’abete. La sfida era quindi pogare ovunque, in un discopub come nella disco più fighetta come al concerto del gruppo di amici al live disco bar o sotto la sezione fiati di Persiana Jones, non appena l’atmosfera finalmente si faceva un po’ meno “Rhythm is a dancer”.
Non a caso i diggei amavano dare spazio al loro lato più trasgressivo per tirare fuori il lato più trasgressivo del pubblico pagante e non. Così, se avevi pazienza, dopo i Gypsy Kings, dopo Umberto Balsamo, dopo I was made for lovin’ you dei Kiss, a volte persino dopo Goldrake, toccava ai Clash. E quasi sempre, dietro la console, si tirava il sasso nascondendo la mano qualora la situazione diventasse delicata. A quel punto si poteva pogare da soli, coinvolgendo gli improvvisati trasgressivi in un vortice punk di provincia. E siccome la scaletta era più o meno la stessa ovunque (Should I stay or should I go era improvvisamente diventato un must), ovunque andassi riuscivo a spintonarmi un po’ rimendiando quasi sempre la disapprovazione degli astanti.
Ma molto più spesso pogavo in perfetta solitudine, e già il mio virare verso i 30 lo rendeva un comportamento sempre meno credibile. Il pogo di gruppo, ovvero gruppi di pogatori che si insinuavano tra la bella gente, era indicato solo se consentito dai buttadentro della serata, onde evitare la perplessità palestrata dei buttafuori. La mia esperienza con il pogo finisce così, un decorso accelerato anche dall’incedere dei capelli bianchi, che per antonomasia rendono patetico ogni impeto giovanilistico. Il pogo indoor era ormai diventato un atteggiamento sociale tamarro, incalzato dal “io ballo da solo” della musica indie, sempre più permeata da loop e inviluppi, ritmi club e d’n’b. Fine.
Appendice 1. La tesi, confermata non tanto da Wikipedia ma da fonti autorevoli quali me stesso e le persone che conoscete che lo hanno fatto almeno 25/30 anni fa, è che il pogo originale si faccia saltando sul posto, senza urtare il vicino. Poi ha incarnato anche il concetto di ballo tutti-contro-tutti, rissa da alcolizzati e varie amenità.
Appendice 2. Non posso non chiudere questo imperdibile contributo con una discografia consigliata dei brani più pogabili. Su tutti, il già citato evergreen di Combat rock. Sheena is a punk rocker è anche molto divertente, quanto Precious dei Pretenders o So lonely (il pogo è ancora più succulento quando il brano alterna ritornelli veloci a strofe a ritmo dimezzato). Pogo violento su “Killing in the name of”, pogo scanzonato su Fiesta dei Pogues, in finto ma-mica-tanto “nome omen”. Lunga vita al pogo, energia pulita.
Appendice 3. Citazione celebre: “E io pogo!” (A. De Curtis, in arte Totò)