Quella calotta di gomma che ricopre la punta di un noto modello di scarpa di tela che va di moda a fasi alterne – era in auge negli anni 50, poi quando avevo vent’anni io e da un paio di stagioni ha di nuovo sbaragliato la concorrenza – sembra fatta apposta per scriverci sopra una parola di poche lettere che seguono l’arco in altezza rimanendo allineate alla base. Tu hai utilizzato quello spazio sulla scarpa destra per scrivere “scusa”, e mi chiedo se hai imbrattato una cosa che è costata più di 50 euro a mamma e papà per ricordarti ad ogni passo che compi, mentre cammini a occhi bassi, che chiedere scusa non è semplice e bisogna fare uno sforzo, a volte, mettere l’orgoglio sotto i piedi anche se fiaccati da calzature tutt’altro che traspiranti. Oppure te lo ha scritto qualcuno come prova d’amore, ti ha scritto scusa in modo che ogni volta che guardi giù ti ricordi che devi saper perdonare, altra cosa difficile tenendo conto che ora dovrai anche perdonarlo per aver rovinato le All Star lilla alte perché la biro calcata così non va più via nemmeno in lavatrice. Ma anche la punta sinistra ha uno scarabocchio, c’è scritto ancora a penna “aspettiamo”, che letto su un piede fa uno strano effetto, no? Se aspetti e non c’è un semaforo rosso che te lo impone non riesci più a tenere il passo, rimani indietro, e poi devi chiedere scusa se sono gli altri a dover dire aspettiamo. E se gli altri non avranno pazienza o non vorranno perdere tempo e ti lasceranno lì e ti offenderai, potrai indicargli il tuo piede destro come spunto, se non sapranno da dove iniziare. Altrimenti puoi guardarti il piede sinistro e dar loro tutto il tempo di cui hanno bisogno, e non è detto che sia roba da poco.
ragazzi
un velato accento
StandardMi ha scritto una amica insegnante di Matematica, una vecchia conoscente che ha voluto mettermi al corrente di una situazione esilarante. Dal 2006, se non erro, è di ruolo in un liceo scientifico e, quest’anno, ha avuto un incarico presso una prima. L’impatto, però, non è stato dei più incoraggianti, non tanto per il materiale umano che le è stato affidato da iniziare alla scuola superiore, quanto da un aspetto marginale, diciamo di folklore, che lei definisce un “segno dei tempi”.
È la prima ora di Matematica del primo giorno di scuola di una prima, il battesimo dei ragazzi nella nuova tappa del loro percorso scolastico, forse la più difficile considerando la maturità emotiva e l’entità del lavoro che i ragazzini si approcciano a svolgere. La prof, che chiamerò Paola, si siede alla cattedra, si presenta, quindi con l’intento di rompere il ghiaccio legge l’elenco dei suoi alunni, fa l’appello, per così dire, tante individualità una via l’altra, scritte in ordine alfabetico sul registro. Un nome, una faccia da memorizzare, una coordinata per localizzarla tra i banchi. Paola mi confessa che ogni volta riuscire a ricordarsi di tutti è un calvario, ques’anno poi la classe in questione raggiunge le trenta unità, la sfida sarà ancora più complessa. La lista scorre fino Colombo (cognome fittizio) Elena (nome vero), che dalla seconda fila alza la mano, sussurra un “presente!” e mentre Paola le sorride, la ragazza molto educatamente le fa notare che “non so come sia scritto sul registro, ma il mio nome in realtà si pronuncia Elèna, e non Èlena“. “Ah Elèna“, risponde sorpresa Paola “che vezzo di originalità”, anche se so che avrà dovuto trattenere un ghigno ironico. Di certo Elèna le è rimasto impresso, non se la dimenticherà facilmente.
L’appello prosegue senza pause sino a Rossi (cognome fittizio) Maria (nome vero), una stanga in ultimo banco, probabilmente una pallavolista, una sportivona, che con una voce decisa interrompe la prof avvisando che “le sembrerà uno scherzo, ma anche il mio nome si pronuncia diversamente, e cioè Mària e non Marìa“. A quel punto la scolaresca scoppia in una risata, Elèna e Mària nella stessa aula sembra davvero una burla di chi ha curato la composizione le classi. “Ammetto di essere arrossita“, scrive Paola, “perché in un certo senso quella risata era rivolta a me, all’istituzione che rappresento, ai processi automatizzati che non tengono conto dell’eccezione umana, quella che fa coesistere nello stesso insieme le uniche due stringhe di testo con l’accento diverso rispetto all’uso comune“. Uso comune, penso io, chi può dirlo: si fa presto ad aggirare la convenzione. Sta di fatto che a questo punto Paola dice di essere terrorizzata da nuove possibili gaffe, continua l’elenco con molta cautela, anche se più di due anomalie sui nomi di trenta alunni sono già tante, troppe. La statistica, lei stessa la insegna, non è così aleatoria.
Invece no, ecco l’ultimo livello, quello che può essere fatale. Paola sa già che il cognome che sta per leggere scatenerà l’esplosione dell’uditorio, ma è consapevole del fatto che non può sottrarvisi. Chissà, quello che le è capitato oggi pregiudicherà tutto l’anno scolastico? “È meglio mettere in pre-allarme i miei colleghi in modo da risparmiare loro la brutta figura, o esporli in eguale modo al ludibrio scolastico, in modo da non diventare lo zimbello del corpo docente”? Ci sono pochi secondi, una pausa prolungata può far diventare quello che sta per succedere ancora più deflagrante, meglio accelerare per sdrammatizzare ciò che i suoi nuovi alunni stanno già subdolando. E l’interessata, in primissima fila nel banco lì davanti, si gode già il suo momento di rivalsa per la prima volta, visto che il suo cognome è stato sempre oggetto di beffe anche pesanti da parte di amici ed ex compagni di classe. “Troia Francesca, ma suppongo si dica Troìa, giusto?“.