la storia del Quartetto per la fine del Tempo scritta da Richard Powers

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Olivier Messiaen scrisse il “Quatuor pour la fin du Temps” nel campo di concentramento di Görlitz, di certo non il miglior posto per liberare la creatività. Ma, come sapete, a volte l’arte nasce dallo stress, dalla tensione, dalla paura di morire, dall’istinto dell’uomo che lo fa reagire all’annullamento, una sorta di impeto di sopravvivenza perché in certi frangenti molti, per non dire tutti, cercano comunque di salvarsi. Non sono un granché in musica classica moderna, ma ritengo il “Quatuor pour la fin du Temps” una delle vette compositive del novecento che non mi stancherò mai di ascoltare. Il caso ha voluto che il libro che ho appena terminato di leggere, Orfeo di Richard Powers, riporti il racconto dettagliato (e romanzato) della genesi dell’opera all’interno della trama, con passaggi descrittivi unici per la resa che hanno. Era una un po’ che volevo scrivere qualcosa a riguardo, così ho pensato di passare in OCR il testo e condividerlo con voi, sperando che quelli della Mondadori non si arrabbino. Nel caso, basta una parola e cancello tutto. Comunque leggete il libro, se amate la musica, perché ne vale davvero la pena.

Ultimo giorno della primavera 1940. I nazisti si riversano in Francia. Appena oltre la pericolante Linea Maginot, la Wehrmacht cattura tre musicisti in fuga nel bosco. Henri Akoka, ebreo trotzkista nato in Algeria, viene preso con il clarinetto stretto fra le mani. Étienne Pasquier, acclamato violoncellista ed ex bambino prodigio, si arrende senza opporre resistenza. Il terzo, il compositore e organista Olivier Messiaen, birdwatcher dalla vista debole e mistico religioso che sente a colori, nella borsa a tracolla ha salvato poche cose essenziali: gli spartiti di Ravel, Stravinskij, Berg e Bach. Qualche settimana prima, tutti e tre i francesi avevano suonato in un’orchestre militare nella roccaforte di Verdun. Adesso i tedeschi li fanno marciare con le armi puntate alla testa, insieme a centinaia d’altri, verso un luogo di detenzione provvisorio vicino Nancy. Camminano per giorno senza cibo né acqua, Varie volte Pasquier sviene per la fame. Akok, che ha il cuore grande e la testa dura, tira su il violoncellista e lo fa proseguire. Alla fine i prigionieri arrivano in un cortile dove i tedeschi distribuiscono acqua. Scoppiano dei tafferugli. Quei branchi di disperati si danno battaglia per pochi sorsi. Il clarinettista trova Messiaen seduto lontano dalla bolgia, a leggere uno spartito preso dalla borsa. Guardi, dice il compositore. Si scannano per un goccio d’acqua. Akoka è un pragmatista. Basta procurarsi delle taniche, così possono distribuirla. I tedeschi radunano i prigionieri e li costringono a proseguire.

Alla fine la colonna arriva in un recinto di filo spinato in campagna. I tre musicisti si aggirano insieme a centinaia d’altri sotto la pioggia estiva. Il loro Paese non c’è più. L’intero esercito francese è sgominato, catturato o morto. Smette di piovere. Passa un giorno, poi un altro. Non possono far altro che aspettare sotto un cielo indifferente. Il compositore tira fuori un assolo per clarinetto, salvato dalla roccaforte catturata. Akoka lo suona all’impronta, in mezzo a un campo pieno di prigionieri. Pasquier, il violoncellista, fa da leggio umano. Il brano, Abîme des Oiseaux, è nato dai turni di sentinella che Messiaen ha fatto all’alba, quando i primi cinguettii del giorno si trasformano in un’orchestra mattutina. Gli serve a passare il tempo. Hemi Akoka è un burlone bonario che ama dire: Adesso vado a esercitarmi, quando si allontana per schiacciare un pisolino. Ma quella musica lo sconcerta. Crescendo di una lunghezza inverosimile, tumulti di ritmi liberi: non ha mai sentito una musica così. Sei anni prima Akoka ha vinto il premier prix al conservatorio di Parigi. Ha suonato per anni nell’Orchestre Natìonal de la Radio. Ma un assolo così difficile non l’ha mai visto. “Non sarò mai capace di suonarlo” mugugna Akoka. “Sì, che ne sarai capace” gli dice Messiaen. “Vedrai.”

La Francia cade mentre loro si esercitano. Le svastiche giganti drappeggiano l’Arc de Triomphe. Hitler salta giù dalla Mercedes e sale spedito la grande scalinata del Palais Gamier, prima fermata del suo giro privato a Parigi. I musicisti vivono per tre settimane sotto le stelle nel campo recintato. Dopo l’ignominia dell’armistizio vengono mandati a Stalag VIII-A, un campo di cinque ettari alle porte di Gorlitz-Moys, in Slesia. Lì il trio è denudato e processato, insieme ad altri trentamila prigionieri. Un soldato col mitra cerca di confiscare la tracolla del compositore. Messiaen, nudo, lo allontana in malo modo. La velocità della sconfitta francese sorprende i tedeschi. Stalag VIII-A può ospitare una minima parte delle decine di migliaia che vi si riversano. I più vivono nelle tende; il fortunato terzetto trova posto nelle baracche, che almeno hanno i bagni e le stoviglie di coccio. Il cibo scarseggia: surrogato di caffè a colazione, una scodella di minestra annacquata a pranzo e, a cena, una fetta di pane nero con un pezzo di grasso. Il violoncellista Pasquier ottiene un lavoro in cucina, dove ruba scarti da dividere con i compagni. Quello che lavora accanto a lui viene ucciso per aver rubato tre patate. Messiaen va a letto debole e affamato. L’inedia gli procura visioni arcobaleno piene di colori pulsanti: grandiose esplosioni di lava blu arancio, vampe da un altro pianeta. Si sveglia nel grigio del lavoro inutile, della fame, della monotonia.

Un altro prigioniero arriva nel pancaccio di Akoka: un arcigno pacifista che si chiama Jean Le Boulaire. Era al fronte a maggio, quando l’esercito francese si è fatto prendere dal panico disgregandosi. È riuscito a raggiungere Dunkerque, dove un peschereccio l’ha evacuato in Inghilterra. Da lì Le Boulaire è tornato a Parigi giusto in tempo per subire un’altra, finale disfatta. Akoka spiega al compagno di pancaccio la vita del campo e presenta il violinista agli amici. Le Boulaire ricorda di aver conosciuto Messiaen al conservatorio di Parigi. E così il terzetto diventa un quartetto. Le decine di migliaia di prigionieri di Stalag VIII-A uniscono i loro libri costruendo una piccola biblioteca. Formano una jazz band e una minuscola orchestra. Fondano un quotidiano che sì chiama “Le Lumignon”, la candela. Ogni storia è ridotta all’osso dalla censura ma scrivere tiene a bada la noia mortale delle giornate. I musicisti perdono peso, capelli e denti. I geloni gonfiano le dita di Messiaen. Akoka non ne può più e decide di scappare. Escogita un sistema per eludere le guardie. Mette da parte un po’ di provviste e si procura una bussola. Dice al compositore che tutto è pronto per la fuga il giorno dopo. No, dice Messiaen. Io rimango. Dio mi vuole qui. Akoka, demoralizzato, abbandona il progetto.

I tedeschi mandano Pasquier a lavorare alle cave di Strzegom. Ma un responsabile del campo riconosce il violoncellista del famoso Trio Pasquier e gli commuta l’incarico. Anche gli altri musicisti ottengono un po’ di cibo in più, un piccolo alleggerimento del lavoro. La guerra è la guerra ma, per i tedeschi, la musica è la musica. Uno dei capitani del campo, Karl-Albert Brüll, ogni tando dà a Messiaen un po’ di pane sottobanco. L’Hauptmann Brüll scova della carta da musica nuova: pagine con le linee di un pentagramma immacolato, recuperate dal putiferio della guerra. Dà quei fogli a Messiaen insieme a matite e gomme. Chissà perché? Senso di colpa, compassione, curiosità. Vuole sentire la musica in gestazione del nemico. Vuole sapere che razza di suoni uno come Messiaen è capace di portare in un posto così dannato. Brüll esonera Messiaen da ogni incombenza e lo mette in isolamento. Piazza una guardia all’ingresso della baracca per evitare che lo disturbino. E Messiaen, convinto che non avrebbe mai più composto in vita sua, torna a scivolare nell’incantesimo dei suoni organizzati. Non gli serve altro, soltanto le note, aggiunte linee su linee a formare un oscuro insieme.

Mentre l’estate finisce e l’autunno la segue verso l’estinzione, qualcosa comincia a riempire le pagine vuote: un quartetto al di là delle stagioni. I suoni frullano fuori dai sogni denutriti di Messiaen. Lavora durante la caduta della Francia, il trionfo nazista, l’orrore dell’esistenza dei campi. Una visione in otto parti prende forma: uno scorcio dell’Apocalisse per violino, clarinetto, violoncello e pianoforte, libero dalla prigionia del metro e pieno di arcobaleni. Messiaen rielabora a memoria due brani che ha scritto in un’altra vita, prima della guerra. A quelli aggiunge suoni da un futuro ricordato. Lì in quel campo, al centro di un’Europa devastata, le note fuoriescono da lui come la creatura di luce rivelata a Giovanni: Poi vidi un altro angelo possente scendere dal cielo, avvolto da una nube; sopra il capo aveva l’arcobaleno, il suo volto era come il sole. [ … ] E l’angelo che avevo scorto in piedi sul mare e sulla Terra levò la mano al cielo e giurò per colui che vive nei secoli dei secoli, che ha creato il cielo e ciò che in esso esiste, la Terra e ciò che in essa esiste, il mare e ciò che in esso esiste, che non sarebbe più esistito il tempo…

Il clarinetto di Akoka è l’unico strumento decente al campo. I capitani scovano un violino da quattro soldi e un pianoforte verticale scassato con i tasti che scendono ma non sempre risalgono. Centinaia di prigionieri fanno una colletta e raccolgono sessantacinque marchi per permettere a Pasquier di comprare un violoncello. Due guardie armate lo accompagnano in un negozio al centro di Gorlitz, dove trova un violoncello malconcio e un archetto. Quando quella sera Pasquier li porta al campo, i prigionieri gli danno l’assalto. Suona un assolo di Bach, Il cigno dal Carnevale degli animali, la serenata da Les millions d’Arlequin – tutto quello che riesce a ricordare. Prigionieri a cui non importa niente della musica lo fanno suonare tutta la notte. Il quartetto si esercita nei bagni del campo. Ogni sera alle sei lascia il lavoro e si riunisce per quattro ore. L’inverno s’impone, animale ed effettivo; le temperature precipitano a venticinque sotto zero. I prigionieri muoiono di sfinimento, denutrizione e freddo. Ma i tedeschi danno al quartetto la legna per accendere il fuoco e scaldarsi le dita. Messian istriusce gli altri sul mondo che ha creato. Il pezzo è troppo difficile per loro; perfino a quel virtuoso di Pasquier tocca penare. Messiaen dà dimostrazioni dal piano ma i suonatori cadono nella selva dei ritmi. La musica è la fuga di Messiaen dalla morsa del metro, dal laborioso battere del cuore e dal ticchettio degli orologi. L’andamento irregolare si sforza di sconfiggere il presente e porre fine al tempo.

Gli strumenti della fuga vengono da ogni dove: dal piede metrico greco: amphimacer e antibacchius. Dai dēśītāla dell’India settentrionale. Dai palindromi ritmici che si leggono in un senso e in quello contrario. Dagli scossoni sincopati di Stravinskij. Dagli isoritmi medievali, enormi cicli metrici all’interno di altri cicli. Certe volte il metro si attenua del tutto e reclama la libertà degli uccelli. Ma il volo elude i suonatori. Cresciuti nelle mansuete battute regolari, incespicano nel caos della libertà. I rapidi unisoni, quei crescendo scatenati, fanno gli sgambetti. Tieni la nota finché non hai più fiato, dice Messiaen. Allarga il suono. Pretende note di un’altezza assurda e volate brutali, disperse. Segna sullo spartito ordini come infiniment lent, extatique: infinitamente lento, estatico. Vuole un suono più dolce di quello che è capace di produrre un archetto. Vuole ogni colore che sia possibile tirare fuori dal bosco, dalle urla gelide ai violenti silenzi, e ripete che ogni ritmo folle dev’essere perfetto. li violino malridotto, il violoncello da sessantacinque marchi, il piano scordato con i tasti che s’inceppano, il clarinetto che si è sciolto dopo essere stato appoggiato alla stufa rovente: insieme devono produrre l’angelo e tutto il lucore della Città Celestiale. I suonatori si esercitano con le dita intirizzite dal gelo.

Per due mesi provano e riprovano gli stessi passaggi impossibili. Uniti per così tanto tempo con quella musica febbrile, mentre l’inverno cala sulla Slesia e il campo stende su di loro una coperta di morte, i quattro cambiano. La loro tecnica preme verso un luogo nuovo. L’agnostico pacato, l’ateo tetro, il cattolico messianico e l’ebreo trotzkista si accovacciano sulle loro parti del recalcitrante brano alla luce fioca nel bagno di una prigione e individuano, nella comune messa a fuoco, la risposta del canto d’uccello alla guerra. Il campo stampa i programmi per la prima:

Stalag VIII A-G6rlitz PREMIÈRE AUDITION DU QUATUOR POUR LA FIN DU TEMPS D’OLIVIER MESSIAEN 15 Janvier 41

Contravvenendo alle regole, il capitano autorizza a partecipare perfino i prigionieri in quarantena. Sta succedendo qualcosa in quell’angolo di confino, lontano dal fronte semidistrutto, dagli attacchi del sottomarini, dalle offensive e controffensive nel deserto dai bombardamenti sopra Londra, dal continuo attrezzare carneficine macchiniche su scale che a nessun umano è dato comprendere. Il debutto del prossimo mondo.

La giornata si apre come centinaia d’altre. Surrogato di caffè all’alba. Una mattina di lavoro ai compiti assegnati che obnubila il cervello. Zuppa di cavolo a pranzo e ancora lavori forzati tutto il pomeriggio. A cena, un’altra tazza di surrogato di caffè, una fetta di pane, un po’ di fromage blanc. Nessun messaggero arriva ad aprire la tomba eterna. Il concerto comincia alle sei, nella Baracca 27, il grezzo teatro del campo. Mezzo metro di neve tappeta il terreno e seppellisce il tetto. La neve entra a raffiche dall’ingresso. La baracca mal illuminata è pienissima, qualche centinaio di prigionieri di varie nazionalità, di ogni classe sociale e professione: dottori, preti, uomini d’affari, operai, contadini. Alcuni non hanno mai sentito musica da camera. Il pubblico si accalca sulle panche, stretto nei cappotti grigioneri. Le nuvole di fiato gelido riempiono la stanza, sbuffi di budella marcescenti essudati da uomini denutriti vestiti di stracci unti d’olio. Il poco calore che la baracca ha da offrire in una serata che intorpidisce le ossa viene da quei corpi emaciati. Gli infermi del blocco ospedaliero vengono portati sulle barelle. Gli ufficiali tedeschi amanti della musica occupano i posti riservati nelle prime file.

Il quartetto si trascina sul palcoscenico improvvisato con le giacche lacere e le uniformi cecoslovacche verde bottiglia. Gli zoccoli di legno sono le uniche scarpe al campo che riescano a tenere i piedi scongelati per cinquanta minuti. Messiaen si fa avanti, il vestito che gli pende addosso. Dice al pubblico che cosa sta per ascoltare. Spiega gli otto movimenti, uno per ciascuno dei sei giorni della creazione, uno per il giorno di riposo e uno per l’Ultimo Giorno. Parla di colore e di forma, di uccelli, dell’ Apocalisse e dei segreti del suo linguaggio ritmico. Parla del momento in cui tutto il passato e il futuro finiranno e l’infinità avrà inizio. I prigionieri tossiscono e si agitano sulle panche. I volti induriti si fanno sospettosi. Nessuno sa di cosa vada farneticando quello spaventapasseri. Pasquier accarezza il violoncello. Le Boulaire coccola il violino. Akoka, il clarinetto in grembo, guarda i compagni e sfodera un ultimo sorriso da buffone. La lezione finisce, i musicisti sollevano gli strumenti e la liturgia cristallina ha inizio. Due uccelli intonano il canto preaurorale che cantano da molto prima del tempo umano. Il clarinetto impersona un merlo; il violino, un usignolo. Il violoncello pattina su un anello di quindici note di armonie fantasma, mentre il piano gira attorno a un ritmo di diciassette valori di durata, diviso in un contesto di ventinove accordi. Quel vorticante sistema solare impiegherebbe quattro ore a dipanare il suo circuito completo di rivoluzioni annidate l’una dentro l’altra. Invece il movimento dura appena due minuti e mezzo: una scheggia fra due infiniti. Uno scintillio di suoni, stando al programma di sala di Messiaen. Un alone di trilli che si perde alto sugli alberi… l’armonioso silenzio del Paradiso.

Ma i prigionieri intontiti non fanno in tempo a capire cosa sentono che la mattina è già finita. Poi appare l’angelo, un piede sulla terra, uno nel mare, e annuncia la fine del tempo. Accordi vivaci, fragorosi, una corsa di doppi archi. Violino e violoncello, in un canto all’unisono, abbandonano il campo spingendosi fin dove arriva l’immaginazione. Il piano discende in cascate di accordi. Ma riecco la fanfara a infastidire il pubblico. Nessuno capisce che cosa credono di fare quei quattro esecutori. La musica oltrepassa gli ascoltatori affastellati, esce dalla baracca sepolta dalla neve, supera l’ultimo groviglio di filo spinato che sigilla il campo. Il movimento finisce, liberando vari accessi di tosse.

Gli ascoltatori intorpiditi si muovono sulle panche, e comincia il terzo movimento. Questo rielabora la fantasia per solo clarinetto che Akoka aveva suonato all’impronta nel campo vuoto vicino a Nancy, tanto tempo prima. L’abisso degli uccelli. L’abisso è il tempo, spiega Messiaen, con la sua stanchezza e il suo scoramento. Gli uccelli sono il contrario del Tempo. Sono il nostro desiderio di luce, di stelle, di arcobaleni e di canti gioiosi. Il clarinettista che suonava nella banda di una fabbrica di carta da parati adesso suona proiettandosi nel futuro. Cinguetta e trilla. I suoi crescendo montano dal silenzioso al dirompente, come la sirena dei raid aerei elle dirama l’avviso finale. Il canto impone un controllo vacillante. E chiede ancora di più al pubblico, elle comincia a dividernella luce a gas, fra clù sente la fuga e chi distingue solo la noia.

Il quarto movimento, un piccolo terzetto da carillon, dura novanta secondi. Potrebbe essere un’inezia che risale a prima della guerra, uno scherzo che risale a quando il problema più grande che si ponesse alla civiltà era ancora la lunghezza delle gonne. Anche l’eternità ha bisogno di interludi. Quella sera le bombe cadono sull’Inghilterra meridionale. Un cordone si stringe intorno a Tobruch. La feroce battaglia dei carri armati nel Nordafrica si interrompe per qualche ora, rinviata dal buio. A Berlino, che da lì dista un paio d’ore d’auto in direzione nordovest, la cerchia di Hitler fa le ore piccole, mettendo a punto l’invasione di Grecia e Jugoslavia. Ma lì nella Baracca 27, a Stalag VIII-A, a metà del sogno febbrile di Messiaen, il violoncello tira fuori una melodia dal suo interno. Cavalca le onde del pianoforte, che vaga per infinite, pazienti modulazioni. Ogni accordo che ne scaturisce spinge il duetto in un nuovo colore. Da qualsiasi altra parte il movimento durerebbe otto minuti. In quella baracca, invece, col tetto pieno di spifferi e i vetri ghiacciati, stipato di uomini che vivranno lì per anni, che in quel buco ci moriranno incapaci di ricordare com’era casa loro, la battuta tra due accordi vaganti a caso si perde per ore.

Per alcuni, la frase pulsante e un’ombra meno mortale della noia di quella prigionia. Per altri, è una benedizione che non ritroveranno mai più. Sul palco grande quanto una scatola di scarpe, il quartetto si trincera, liberando la Danza furiosa per le sette trombe. I quattro strumenti si danno la caccia con cadenze sobbalzanti di unisoni sfalsati, uno schiocco di frusta crescente. Musica di pietra, dice Messiaen, formidabile suono di granito; movimento irresistibile d’acciaio, enormi blocchi di rabbia viola, ubriachezza di ghiaccio. L’angelo ritorna, nel groviglio di nuvola e arcobaleno. L’esultanza non è mancata nel brano finora, ma non ha mai uguagliato questi rapimenti. Per Messiaen: Passo all’irreale e subisco, con estasi, un vortice; una compenetrazione circolare di suoni e colori sovrumani. Queste spade di fuoco, questa lava blu arancio, queste improvvise stelle…! La fine della Fine, quando finalmente arriva, è un assolo di violino sopra il palpito del piano. Ridotta di nuovo all’essenza, la melodia persiste, depurata dal fuoco nel crogiolo della guerra. Uscito da una nuvola di tremuli accordi in mi maggiore – la chiave del paradiso – il violino accenna a ciò che una persona potrebbe ancora avere, dopo che la morte si è presa tutto. Il violino sale; il piano si arrampica verso un’immobilità finale che travalica la pazienza e l’ascolto umani. La lode vaga alta, in do minore, attraversa un gelido campo minato di ambigui accordi diminuiti e aumentati, salendo di nuovo a un altro mi maggiore, poi a un altro ancora nell’ottava sopra. Dal limitare della chiave, e delle tastiere, la linea melodica guarda indietro alla terra perduta in una notte fredda, quando non esiste più il tempo.

L’ultima nota si spegne nell’aria gelida, ma non succede niente. Il pubblico prigioniero rimane in silenzio. E, nel silenzio, stupore e rabbia, perplessità e gioia, hanno tutti lo stesso suono. Alla fine c’è l’applauso. I prigionieri con gli zoccoli e le uniformi cecoslovacche verde bottiglia ripiombano nel mondo e fanno un goffo inchino. E poi, ricorderà Le Boulaire decenni dopo, un mucchio di discussioni irrisolte, su quella cosa che nessuno aveva capito. Venti giorni dopo la prima, quindicimila ebrei polacchi di Stalag VIlI-A vengono radunati e spediti a Lublino per lo sterminio. Akoka si salva grazie all’uniforme francese. Due settimane dopo, Messiaen, Pasquier e Akoka cercano di salire a bordo di un convoglio, con documenti falsificati da quello stesso capitano Brüll che aveva reso possibile il quartetto. Un ufficiale tedesco ferma Akoka: Ebreo. li clarinettista si abbassa le mutande, sperando che la sua circoncisione malfatta somigli all’integrità gentile. L’ufficiale lo arresta e lo riporta al campo. A marzo Akoka, algerino di nascita, passa per arabo in un gruppo che viene portato via dai campi. Finisce a Dinan, in Bretagna. Viene messo su un altro carro merci che torna all’Est. Di notte salta giù dal treno in corsa, cullando sempre il clarinetto. Riesce non si sa come a superare la linea di demarcazione con Marsiglia e ad arrivare a Vichy. Lì lo raggiunge un biglietto con la calligrafia del padre, lanciato dal finestrino di un altro treno in corsa: Sto partendo per una destinazione sconosciuta.

Le Boulaire scappa dal campo alla fine del 1941, con documenti coperti di timbri dall’aspetto ufficiale fatti intagliando una patata. Subito dopo la fuga, il violinista ha un esaurimento nervoso, Abbandona la carriera musicale e cambia nome diventando Jean Lanier, Comincia una nuova vita, libero da un passato che non ci tiene a ricordare. Avvia una brillante carriera di attore che conta un ruolo in un classico dei tempi di guerra: Amanti perduti. Gli uomini con i quali ha suonato la sera del 15 gennaio 1941 diventeranno perfetti estranei. Un ictus intorno agli ottant’anni gli provoca le allucinazioni convincendolo che ci sia ancora la guerra, che i tedeschi gli diano la caccia e che lui sia nascosto in uno scantinato, con la paura di muoversi. Jean Lanier, nato Le Boulaire, muore prigioniero di guerra. Paquier torna nella Parigi occupata, dove esegue il Quartetto per la fine del tempo. In seguito lo suonerà un’intfinità di volte, nel corso di una lunga e prestigiosa carriera, Fino alla morte, tiene nel portafoglio un biglietto sbiadito:

Stalag VIII A-G6rlitz PREMIÈRE AUDITION DU QUATUOR POUR LA FIN DU TEMPS D’OLIVIER MESSIAEN 15 Janvier 41

Sul retro del programma la calligrafia di Messiaen, che esorta il violoncellista a ricordare i ritmi, i modi, gli arcobaleni, i ponti e l’oltre. Messiaen attraversa il conflitto udendo suoni che travalicano qualunque politica terrena. Spende la vita a scrivere musica di armonie spettrali e ritmi uccellari. Ma nessun brano avrà mai più ascoltatori del Quartetto. Ogni tanto vede Pasquier e Akoka. Il capitano Brüll cerca di andarlo a trovare a Parigi, decenni dopo, ma il portiere lo manda via, dicendo che Messiaen non vuole vederlo. Brüll se ne va distrutto. In seguito Messiaen cerca di mettersi in contatto con il tedesco che gli aveva dato carta e e matite, l’uomo che, a suo rischio e pericolo, aveva falsificato i documenti di uscita del compositore. Ma a quel punto Brüll è oltre la portata del tempo. Se ho composto questo quartetto per un motivo, scriverà Messiaen, è stato per sfuggire alla neve, alla guerra, alla prigionia, per sfuggire a me stesso. Ciò che ne ho ricavato al di sopra di tutto è stato che, tra trecentomila prigionieri, io ero forse l’unico a non essere prigioniero. E di quella sera del gennaio 1941: Nessuno mi ha mai ascoltato con tanta attenzione.

ci ha reso liberi

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Il miglior contributo a questa giornata, per chi non ne fosse ancora provvisto, è trovare un modo a propria scelta per avere sempre tra le cose da fare il rivolgere un pensiero a quel sistema storico, non saprei come altro definirlo, in cui ci sta tutto quello che è successo nella prima metà del secolo scorso. Un post it, un nodo al fazzoletto, un qualcosa che appena lo vedi pensi per una manciata di secondi che non è così distante, ci separa solo qualche generazione da loro. C’è un passaggio del report di Levi che è alla base della nostra opinione sull’olocausto che costituisce il mio reminder quotidiano, e badate che non si tratta di un assillo, né di una fissazione, e non bollatemi come un maniaco depresso solo perché ci sono pensieri che più o meno ogni giorno mi balenano nella mente, è che ho trascorso un’infanzia in cui una parte di quel sistema storico era ancora un tema caldissimo, vivevamo la quotidianità ad appena trent’anni di distanza, e questa componente individuale di un processo di redenzione collettiva, paradossalmente redenzione verso le vittime ma anche nostro malgrado verso i carnefici, ha creato una sorta di palinsesto di argomenti di riflessione. E quando mi capita di preparare qualcosa da mettere sotto i denti per mia figlia ritrovo mentalmente le righe in cui l’autore di “Se questo è un uomo” racconta le madri che preparano la cena per i figli nei centri di raccolta consapevoli che la mattina dopo probabilmente andranno a morire, e si chiede che senso ha allestire con cura quell’ultimo pasto, quale ne sia l’utilità. E la voce narrante pone la domanda: voi non fareste lo stesso? Neghereste cibo ai figli affamati anche se fosse l’ultima cosa da fare? Lo strazio emotivo che ne deriva si smaltisce entro le mura della tiepida casa e tra i visi amici, nella tranquillità della libertà e dell’assenza di un rischio così disumano, nella certezza che questo è stato, e non dovrebbe accadere più. Fino a prova contraria.