sentitevi liberi di respirare

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Le strade provinciali che, a raggiera, attraversano tutta la periferia e quei paesini satelliti di Milano per portarti dritto in centro sono costellate da elementi peculiari che è impossibile trovare altrove e che inducono a numerose riflessioni. Su tutte, qualche considerazione di carattere ecologico. Le celebri fermate della tramvia – quando c’è – e degli autobus sono frequentate quasi esclusivamente da stranieri, il che induce a pensare che chi non ha i soldi per permettersi un mezzo di trasporto privato alla fine rientra di diritto nella categoria delle persone più attente all’ambiente, anche se scommetto che trascorrere porzioni di ore sotto pensiline in pessimo stato quando piove metta alla prova chiunque, indipendentemente dalla nazionalità di origine e dal dibattito sullo ius soli.

Risulta difficile, comunque, associare queste arterie a tematiche ambientali per diversi motivi. Fatta eccezione per qualche rara finestra temporale, per il resto del giorno muoversi in auto lungo strade come queste è un’impresa logorante. Alla faccia della statistica che studia i flussi e i movimenti, in un senso e nell’altro c’è il rischio costante di rimanere imbottigliati e, a dirla tutta, malgrado transitino veicoli Euro-diecimila, l’atmosfera non è delle più adatte all’uomo. Ne ho una dietro casa dove passo ogni tanto quando vado a correre, per fortuna in orari in cui tutti sono ancora nel mondo dei sogni, e vi assicuro che è un piacere calpestare l’asfalto che per tutto il resto della settimana è alla mercé dei gas di scarico. Sarebbe bello mettere una telecamera sopra e fare un timelapse della fiumana incessante di traffico locale e di gente che va e torna per lavoro dalla metropoli per rendersi conto dell’effettivo danno che questa smania di evitare la calca sui mezzi pubblici di tutta questa gente sta recando al genere umano.

E proprio lungo una di queste arterie, quella che ho dietro casa – che poi dietro casa per modo dire eh, in mezzo c’è un bel parco che fa da polmone tra i miei, di polmoni, e quel popò di monossido di carbonio – c’è un’azienda che ha messo la sede lì da poco, a ridosso dei binari della tramvia che scorre a margine della strada e che i milanesi usano ben poco. Si tratta di un’azienda che fa prodotti medicali per agevolare la respirazione e già questo, di per sé, è un paradosso curioso. Io mi immagino queste aziende sulle Dolomiti, o anche ai margini di una pineta che dà sul mare, e non con vista sulle code dell’ora di punta. Ma c’è di più. Il motto di quest’azienda è un bel slogan in inglese che dice “feel free to breathe”, sentiti libero di respirare, nel senso probabilmente che se puoi scegliere puoi anche non farlo e, in certe ore del giorno, in effetti è proprio meglio di no.

i jingle pubblicitari non li usa più nessuno

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I jingle pubblicitari non li usa più nessuno, di conseguenza le romantiche figure come Rudy Radcliffe che sbarca il lunario componendo le canzoni pubblicitarie non esistono più. O come l’inventore del motivetto che ha contribuito a mandare a casa Pinochet, non so se sapete la storia o avete visto il bellissimo film “No, i giorni dell’arcobaleno”. Tramonta definitivamente uno degli altri sogni che avevo da bambino, una delle risposte che davo quando qualcuno mi chiedeva che cosa volessi fare da grande. Oggi gli spot, o almeno quello che ne rimane in tv, si contendono il tormentone dell’estate o vanno giù pesanti con quei pezzi dozzinali che si trovano a pochi euro sui siti di musica royalty free. Metodi sicuramente più convenienti e redditizi, ma sulla cui efficacia ho i miei dubbi, sempre che si tenga conto della tv ancora come un canale di investimenti marketing utile. Dopo anni di zapping estremo in segno di disprezzo per l’invadenza delle interruzioni pubblicitarie oggi i programmi on demand hanno chiuso i conti con la tv commerciale dei biscioni del passato.

Vorrei però celebrare su questo mio modesto sito di cialtronate alcune figure che, alla fine, non solo sono state fondamentali per il mio sviluppo ma hanno centrato in pieno il loro obiettivo, e cioè di rimanere impressi nella memoria dei consumatori per sempre. Non avrei mai creduto infatti che tra i ricordi più indelebili nella mia mente, quelli che hanno resistito a decenni di informazioni, nozioni, stimoli, ascolti, letture e visioni, sarebbero rimasti anche una manciata di jingle pubblicitari che basta una piccola distrazione che subito tornano su come le acciughe della pizza a cena. La mia top 3 comprende “Invernizzi Mozary, solo ieri era latte e oggi è la mozzarella”, seguita da “sempre un po’ di più Arena ti dà” fino a “Saratoga il silicone sigillante”, ma sono sicuro che ce ne sono tante altre latenti, pronte a fare capolino nei momenti meno opportuni, soprattutto al cospetto di situazioni di particolare stress. Come se gli anticorpi dell’ansia fossero le sicurezze che abbiamo in memoria, ma se i punti fermi sono questi siamo davvero a cavallo, quello bianco del “Bagnoschiuma Vidal” (sto canticchiando il tema strumentale, peccato non possiate sentirmi).

così per spot

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Ovunque mi giri vedo Federica Pellegrini che fa la pubblicità a qualcosa, e se ci aggiungete il fatto che assomiglia di brutto alla mia coach di attività motoria globale da qui alla vera e propria ossessione il passo è breve. E pensare che io ero convinto che carosello e tutti i suoi derivati avessero leggi rigide a partire dall’esclusività di un volto o una voce a un brand. Ernesto Calindri si dedicava solo al Cynar, come Giampiero Albertini non si accontentava mai e, in tempi più recenti, Nino Manfredi beveva solo quel caffè lì. Più lo mandava giù e più lo tirava su.

La punta di diamante del nostro nuoto la vedo invece alla tv che ha problemi di sistemarsi i capelli tra la piscina e le sfilate, poi si mangia i Pavesini quando non fa allenamento, fa il tifo per la più antica compagnia italiana per la fornitura di energia e come se non bastasse ha prestato il suo volto e un look dimesso a Miia, un marchio tecnologico tutto italiano. A me tutta questa leggerezza in fatto di endorsement commerciali disorienta e non poco, scusate ma come sapete sono un uomo del novecento. Federica Pellegrini, da che parte stai? Per chi batte il tuo cuore? A chi vorresti legare la tua dizione così approssimativa e schiava di un accento così scostante?

Al di là del fatto che lei è una super-campionessa e io no, il che rende ogni mia velleità ben al di là di ogni possibile finalizzazione, tutta questa sovraesposizione di Federica Pellegrini in ambito advertising mi ha fatto venire voglia di lanciare una sfida. C’è un’azienda tra di voi che accetta la scommessa di legare il proprio brand o un prodotto anche in end of life (mi va bene qualsiasi cosa) alla mia identità pubblica? Chiudete gli occhi e immaginate plus1gmt a bordo di un Volkswagen California della nuova linea che sta per essere distribuita in Italia, oppure me che assaggio il nuovo tipo di pizza surgelata della Buitoni, o mentre cammino con un bel paio di sneaker della Camper o addirittura che corro con le Asics Gel Pulse 7.

Vedreste plus1gmt testimonial della Tre (che con il contratto per mia figlia mia ha rifilato una bella sòla) oppure del detersivo per i piatti concentrato perfetto per sgrassare pentole e piatti di plastica in campeggio. Per non parlare di giradischi, impianti hi-fi, sintetizzatori e software di audio editing. Se volete farmi felice, però, non datemi il ruolo da protagonista nello spot della Akuel, non ne sarei all’altezza, piuttosto potrei pubblicizzare birra, tanta birra, e poi materassi, non avete idea di come mi piacerebbe essere mandato in onda mentre dormo comodo per otto ore di fila. Potrei prestare il mio volto anche a luoghi turistici per invogliare la gente a fare le vacanze lì ma con dei limiti: no viaggio in aereo, no utilizzo di mezzi privati in luoghi con guida a sinistra, no rischi di malattie con dissenteria. Se poi la vostra azienda cerca di puntare tutto sulla simpatia allora capito a fagiolo. Di sicuro sono più gioviale di Federica Pellegrini ma che ve lo dico a fare, sono io quello che deve accontentarmi della sua sosia che, vi ricordo, è la mia coach di attività motoria globale, un corso che mi occupa un’ora per due volte la settimana insieme a un’altra decina di carampane della mia età.

volevo essere così ricco da entrare nei negozi di abbigliamento e chiedere di abbassare la musica

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Volevo essere così ricco da entrare nei negozi di abbigliamento e chiedere di abbassare la musica così ho pensato che mi sarei arricchito componendo musica di successo che oggi non è quella che riempie gli stadi, bensì quella che le compagnie telefoniche scelgono per i loro spot e che poi detta l’agenda degli ascolti negli spazi pubblici dedicati al commercio. Pensavo fosse il contrario, e cioè che le compagnie telefoniche cercassero canzoni per far sentire la gente più a casa propria nelle loro pubblicità, e invece poi ho scoperto che sono i compositori e i musicisti che si avvalgono di loro per restare colonna sonora della contemporaneità più a lungo possibile. Così ho messo il mio estro al servizio di chi vende connettività per consentire alle persone di chiamarsi, di scambiarsi messaggi e di navigare in Internet ciascuna con le proprie tariffe e le contraddizioni pensate su misura per attirare i clienti nel vortice dei disservizi più redditizi. Ho piazzato quattro hit, tante sono le principali compagnie telefoniche del mercato italiano, e sono diventato ricco da far schifo. Sta di fatto che da quando sono diventato così ricco la musica delle pubblicità delle compagnie telefoniche è diventata un vero e proprio genere musicale con la sua dignità commerciale come il pop, la techno, le canzonette di Sanremo e le suonerie degli smartcosi. Così finalmente sono entrato in un negozio che vende abbigliamento da ragazzine – sapete, sono il padre di una figlia di quella fascia anagrafica lì – e mi sono preso il lusso di dire alle commesse che se avessero abbassato il volume della musica che avevo composto io e che induce all’acquisto di un particolare pacchetto di traffico voce e dati per il periodo estivo avrei comprato tutto quello che c’era esposto della taglia della mia bambina. Mentre passavo la carta di credito sul lettore contactless ho precisato alla cassiera che la musica anche se composta da me non dev’essere ascoltata così forte. Io a furia di suonare punk industriale a un livello inumano, oramai venticinque anni fa, mi sono procurato una polifonia di acufeni che non mi dà tregua e che quando sono nel silenzio delle storie immaginarie di cui mi piace tener traccia mi rammentano quanto la musica possa ferire le persone più sensibili come me. Ho chiesto a chi lavora in quel negozio di rispettare un giorno di silenzio in onore della corretta conservazione dell’apparato uditivo e mi sono persino reso disponibile a rimanere con loro fino alla chiusura per celebrare quella festa di tutti a suon di mance, tanto sono ricco sfondato e mi basta un trillo di un qualsiasi smartcoso per ricordarmelo.

mortacci tua, che caffé

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Gli spot della Lavazza in paradiso vanno avanti da un po’, quanto sarà? Dieci anni? Quindici? No, quasi venti. Scopro sul sito Lavazza che la campagna con San Pietro è in onda dal 1995, che longevità. Se non ricordo male, anche la serie di spot precedenti con Nino Manfredi era stata mantenuta a lungo, ve la ricordate? Certo, la caratura dei protagonisti è sensibilmente diversa, nel frattempo l’Italia è cambiata e sono cambiati anche i consumatori di caffè. O per lo meno siamo tutti di bocca più buona, soprattutto per la soglia critica sulla qualità televisiva. Sarà per questo che dopo tutto questo tempo solo ieri sera ho pensato che io di prendere il caffè con un morto, anche se ciò ridurrebbe sensibilmente i miei gradi di separazione da un apostolo, non è che abbia tutta questa fretta, a meno che non sia l’anima dell’animaccia di quella sagoma di Bonolis o del suo compare o di quello con la barba che interpreta lo spot ora a venire a trovarmi. Be’, ripensandoci, il caffè non sarebbe un piacere proprio per nulla, nemmeno così.

comunicazione d’impresa

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Un addetto alla distribuzione di volantini pubblicitari si aggirava questa mattina tra i condomini per esercitare la sua mansione, giovane e insufficientemente attrezzato per il clima polare di questi giorni. Lo ho notato solo perché stava approfittando della presenza, fuori sul marciapiede, dei contenitori per la raccolta differenziata della carta, essendo oggi giorno di presa. Il collega – in molti siti di offerte di lavoro tale profilo viene fatto rientrare nella mia stessa categoria di operatore marketing, giustamente – afferrava corpose manciate di depliant di un noto megastore di elettronica della zona e li riponeva direttamente lì, alla fine del ciclo di vita di quei prodotti pubblicitari, accorciandone la durata già di per sé molto breve. La sua intenzione era probabilmente quella di liquidare il più in fretta possibile il compito quotidiano, viste le condizioni climatiche. O forse, ingannato dalla presenza in quei contenitori di altri volantini dei principali competitor del suo datore di lavoro, magari era il suo primo giorno e non aveva ricevuto sufficiente affiancamento, ha pensato che quello fosse il posto giusto in cui riporli. Tutti gli abitanti della zona, ogni sera, aprono quel bidone e scelgono i suggerimenti per gli acquisti, in effetti è un processo che non fa una grinza. E sicuramente meglio lì dentro che nei cestini in cui si getta la spazzatura indifferenziata. Ma, in un caso o nell’altro, e anche considerando che il gesto ha anticipato solo di qualche ora il mio e quello dei miei vicini di casa, tutto ciò è la dimostrazione che c’è qualcosa che non va nell’economia mondiale, da qualunque parte la si osservi.

in quale direzione creativa

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Quello che fa la differenza nel mio ambiente di lavoro è la capacità di convincere. C’è tutta una gerarchia di professioni che parte da chi sa influenzare meglio fino a chi non è tenuto a farlo. All’ultimo livello, il ground zero, c’è infatti la produzione, che deve mettere insieme le idee di chi ha persuaso quello sotto nella catena. Perché se riesci a convincere il team con cui operi gli altri fanno quello che dici tu, si diffonde la voce che sei bravo e sai fare il tuo lavoro. Non basta avere il guizzo, bisogna fare capire agli altri che quella è la strada. Quella è la verità. Quello è il verbo. Poi ci sono i fuoriclasse, chi ha la pensata e la manda così, via e-mail, senza faccine e spiegazioni a corredo. Chissà, forse vivono di gloria e rendita perché in passato hanno vinto il campionato mondiale di persuasione. Fatto sta che ora non si preoccupano minimamente di essere messi in discussione. L’ascetismo è invece uno stadio evolutivo ancora più estremo, è l’arte del partorire arte, la sublimazione della creatività in ufficio, quella che scaturisce indipendentemente dalla richiesta di prestazione e di feedback. Un asceta è un virtuoso che ha l’illuminazione e la scrive generalmente sul suo Social Network preferito, solo per essere contemplato. Ci sono infine quelli la cui capacità di essere convincenti costituisce una componente dello stipendio percepito. La degenerazione dell’arte del convincimento altrui è la provvigione, il risultato di una formula alchemica altrove definita vendita. Ma il commerciale, che prima del possibile acquirente deve aver persuaso se stesso, fugge da ogni logica in quanto agisce orizzontalmente, verso l’esterno dell’azienda. Quando per deformazione professionale si prodiga anche verticalmente si crea un corto circuito, il diagramma di flusso necessita di uno spin off non programmato e c’è il rischio di tilt. Non ci si fida più. Ci si chiede se la propria attività è utile, fa del bene anche oltre il mercato, o è solo pubblicità, è solo anima del commercio condannata all’inferno. Si persuade con le parole giuste, con uno sguardo, con i gesti, parlando nel vuoto, dimostrando se stessi con l’ausilio di Power Point. Va bene, mi hai convinto, dicono alla fine. O non si dice nulla se non un bravo, bell’idea. Ci aggiorniamo dài, al telefono. O, via mail, ti faccio sapere appena ho news.

esta indecisión me molesta

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La Bicocca, sapete meglio di me, è un’area di Milano che è stata completamente rimessa a nuovo fino a formare un quartiere, di quelli un po’ borderline: operoso e vitale nei giorni feriali per la presenza dell’omonima università e di molte sedi di uffici, a tratti spettrale nei giorni festivi. Ciò non toglie che sia una zona ricca di scorci incantevoli di architettura moderna, di quelli che piacciono a me: freddi e imponenti, degni del razionalismo sovietico. Prendete la sede della Siemens, per esempio, con quella specie di piazza interna e l’accesso che sembra un arco imponente. Potrebbe essere tranquillamente la location di uno spot pubblicitario. Anzi, secondo me qualcuno ci ha già pensato.

C’è il quartier generale di una azienda farmaceutica cliente dell’agenzia in cui lavoro io, proprio lì a fianco. Ogni tanto mi capita una visita in loco, per loro realizziamo video aziendali, house organ, insomma ci tocca ogni tanto qualche riunione con il responsabile marketing. Stavo prendendo un caffè con un paio di colleghi giusto qualche giorno fa in un bar a metà strada tra gli uffici a cui ero diretto e l’ingresso principale della Siemens. Era poco prima delle nove, tutto intorno un viavai di impiegati al galoppo e studenti assonnati, molte matricole, gente comune. Anche il bar era piuttosto gremito, ma mi stavo comunque godendo il riparo dall’ultimo caldo della stagione. Caffè, aria condizionata, solito intrattenimento radiofonico da locale pubblico, una emittente commerciale che, dopo il consueto report sul traffico delle tangenziali, fa partire “Should I stay or should I go” dei Clash.

Yeah, penso dentro di me, altro che caffè, ecco quello che dà la carica al mattino. Un paio di queste per iniziare la giornata e vai di rendita fino a sera. C’è qualcosa di stano però, ma non me ne accorgo immediatamente. Colgo con la coda dell’occhio che tutti, ma proprio tutti, hanno espressioni molto amichevoli gli uni con gli altri, parlano in maniera piuttosto cordiale, anzi troppo, come se fossero tutti amici che si sono incontrati in quel bar per caso dopo non so quanti anni. Ex compagni di classe, ex colleghi, ex coppie. Il tutto mentre scorre via liscia la prima strofa. Avete presente il pezzo, no? Un classico giro blues, la strofa che si ripete due volte. Io poi ho la pessima abitudine di raccogliere lo zucchero in fondo alla tazzina con il cucchiaino, e proprio mentre porto alla bocca quel po’ di dolcezza prima di pagare per tutti, tutti quelli che erano con me, naturalmente, la seconda strofa finisce. “So you gotta let me know/Should I stay or should I go?”, quindi si chiude il riff di chitarra è c’è lo stop. Mi seguite?

Bene. A quel punto sto per cantarmi il ritornello mentre succhio il contenuto del cucchiaino, ma il ritornello non parte. Lo stop diventa una pausa di un quarto, poi di due quarti, poi una battuta intera. Mi rendo conto dell’anomalia, ripongo il cucchiaino nel silenzio più assoluto, mi guardo intorno e vedo che tutti mi osservano. Il barista, i gruppetti di impiegati in giacca e cravatta che hanno preso cappuccio e brioches, le tre studentesse al bancone, poco più in la, con la loro attrezzatura da aspiranti architetti. Tutti mi guardano, anche in modo tutt’altro che accomodante, e il pezzo non riparte. Ma che succede?

Poso la tazzina, mi prende il panico, ma oltre le vetrine, sulla strada, vedo che anche fuori è così. Tutti si sono fermati, guardano me, poi si squadrano tra di loro con gli occhi pieni di sfida. Ecco, una sfida. Tutti contro tutti. Ma una sfida di che? Esco fuori terrorizzato e, incredibilmente, ecco che riparte il ritornello. Con il tempo raddoppiato, avete presente, l’avrete ballato chissà quante volte anche voi. Dal blues al rock’n’roll puro. E immediatamente scatta il pogo generale. Lavoratori, docenti e ricercatori dell’Università, imprenditori, passanti, tutti si inseguono e iniziano a spintonarsi in un immenso delirio punk, proprio in quella piazza.

Quindi l’apoteosi, perché il pezzo curiosamente salta la terza strofa e il bridge strumentale, e continua con l’ultimo ritornello, si tratta di un radio-edit particolare, penso. Un gruppo ben nutrito di persone mi corre incontro, decisissimo a pogare contro di me. Scappo. Corro sempre più veloce, vedo un portone che è rimasto aperto e in un lampo di lucidità mi ci butto dentro e mi chiudo lì. Gli scalmanati che mi avevano puntato, però, quasi in trance, si riversano contro un altro crocchio di persone, più numeroso, e poi tutti insieme ad accanirsi di pogo, donne e uomini, ventiquattrore che volano in aria, tacchi di scarpe di marca spezzati, fogli e documenti stracciati.

La canzone si avvia verso la fine e io, tirando un sospiro di sollievo, assisto alla scena finale al riparo in quell’androne. Il pezzo si conclude, torna dimezzato, Should I stay or should I go, l’ultimo verso accompagnato da chitarra, basso e batteria tutti con la stessa metrica. Quelle comparse di non so che incubo materializzatosi si fermano dovo sono. E a quel punto, sulla scena, appare in in bianco una headline: “Silvergold Assicurazioni. Ogni imprevisto ha un’alternativa. La nostra è sempre la più vicina”.

i principii dei poveri

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Non guardo la tv perché non mi va di essere bombardato di spot. Per lo stesso motivo impongo, quasi sempre senza essere ascoltato, il diktat ai miei congiunti. Con mia figlia, che ha accesso solo a un paio di canali per bambini del digitale terrestre, il compromesso è che a ogni interruzione per i consigli per gli acquisti deve cambiare canale. Perché è più facile essere poveri se non si guarda la pubblicità, in un momento in cui i parametri di scarsa agiatezza sono piuttosto flessibili, ultimamente sempre più aleatori. Le code in cui ci si imbatte in ogni fine settimana da e verso Milano danno una scarsa percezione del potere d’acquisto della classe media. Stesso discorso per l’elevata percentuale, non vorrei esagerare ma almeno uno su due, di persone che si trastullano con cellulari da centinaia di euro in mano al mio fianco sul treno dei pendolari. E mentre stavo acquistando il mio nuovo telefonino, un innovativo modello che oltre a telefonare consente di inviare messaggi sms ad altri, del costo di 5 euro – unico motivo che mi ha convinto a cambiare il mio vecchio Nokia solo perché a seconda di come lo posizionavo si spostava la SIM e dovevo intervenire manualmente – la coppia servita al mio fianco da un altro commesso del negozio contemplava in fibrillazione la procedura di attivazione dei loro iPhone nuovi fiammanti, uno a testa, che si stavano regalando per l’anniversario di fidanzamento. Entrambi sulla trentina, italiano lui (ha scelto il modello nero) e caraibica lei (ha scelto il modello bianco), mezzo titolo di studio in due, con in mano un rotolone di pezzi da cinquecento (euro) per portare a termine quell’accordo commerciale, ansiosi di inaugurare la multicanalità delle loro conversazioni a distanza con chissà quali contenuti, multimediali e non. Ammetto che è ancora più facile essere poveri se non si esce di casa.

stampato maiuscolo

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Il marketing on line ha i suoi vantaggi, per carità. Ma il fascino di un adv a tutta pagina sul giornale è impareggiabile, specie se capita di farlo dopo anni passati a inventare comunicazione aziendale adatta a Internet. Mi fa sentire un copy d’altri tempi.