non dovete mai dimenticare che siete stipendiati da noi

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Se comunque ti rivolgi allo sportello delle persone che stanno male l’impiegata ti risponderà che sono tante le persone che è costretta a respingere e a indirizzare verso lo sportello delle persone che stanno bene, magari dopo aver pazientato in una coda più lunga di quella dei Musei Vaticani ma non è certo un problema di chi lavora a contatto con il pubblico. L’autocertificazione che il Ministero della Semplificazione ha introdotto – e che peraltro va incentivando – va bene all’anagrafe ma questo è tutto un altro paio di maniche. D’altronde trasmettere il malessere interiore (o il benessere, ma chi non ha guai difficilmente trova il tempo per le pratiche burocratiche) con il portale messo a disposizione dal governo Renzi è complesso e gli standard sintomatologici nelle scelte a opzioni multiple non coprono tutta la casistica di disturbi quali la depressione, il disagio, il semplice sentirsi fuori luogo per non parlare di un generico spleen che probabilmente la politica (ma anche l’antipolitica) pensa che sia uno di quei beveroni dozzinali da apericena. Certo che l’idea non è male, però, e perdonate la digressione. C’è lo spleen con l’Aperol, lo spleen con il Campari e persino quello con il Martini e potrei chiedere all’impiegata allo sportello se le va di prendere uno spleen insieme, una di queste sere. Comunque, tornando al discorso di prima, questo scherzetto tra code e modulistica digitale programmata – passatemi il termine – con il culo ha fatto sì che un sacco di gente è rimasta fuori dalle graduatorie peggio di un concorsone qualsiasi per la scuola pubblica. E come era facile da supporre, decine di migliaia di persone malinconiche stanno bombardando di ricorsi il TAR del Lazio come se fosse semplice, per la Giustizia Amministrativa, valutare cosa c’è nella cassa toracica che opprime così tanti cittadini che pagano le tasse.

pubblico di merda

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Ditemi se ho torto: quando entrate in un qualunque ufficio di una qualsiasi azienda privata e vedete una moltitudine di persone chine sui loro pc non vi verrebbe mai in mente di domandarvi o domandare a qualcuno come mai ci sono tanti dipendenti e che cosa fanno. Ma se vi recate all’ufficio tributi del vostro Comune e vi trovate di fronte a quattro impiegati simultaneamente addetti alla registrazione delle varie Tares e Imu o come si chiama ora siete primi ad alzare il ditino, a lamentarvi con quelli che fanno la coda con voi, e magari è pure sabato mattina e per voi è anche un giorno festivo, e a rompere il cazzo che sono in troppi.

O invece siete in fila allo sportello di una filiale della banca che custodisce i vostri soldi e gioca in borsa con i vostri risparmi, e l’operatrice che sfoggia un giro di perle che chissà quanto guadagna e magari è pure appetitosa cincischia con il collega che dà consulenza alle famiglie e ha pure il potere di decidere sui mutui e quindi sul vostro futuro, e se il potere vi fa perdere un quarto d’ora perché la fibra in quel momento fa cilecca e non consente l’accesso alla rete dell’ABI pazienza, aspettiamo. Ma se allo sportello dell’anagrafe, l’unico aperto durante le vacanze proprio quando dovete fare la carta d’identità di vostra figlia per partire per Sharm, oltre a esserci pieno di gente del vostro livello e qualche ucraino di contorno, si blocca il pentium in dotazione e si corre il rischio di mandare in fumo la caparra del volo e del villaggio perché non si fa in tempo e la piccola con le Lelly Kelly borchiate non può espatriare, ecco che impugnate il forcone, le cinque stelle e tutte le armi che vi ha messo in mano il grillo-brunettismo e siete pronti a presidiare la sala consigliare fino alla morte.

E infine sul lavoro, dove bellimbusti con qualche pseudomaster in management di staminchia vi tengono sull’attenti perché avete mancato di interpretare correttamente i loro italianglismi e la quota trimestrale ha qualche zero virgola rotti punti in meno sul forecast, mentre poi parcheggiato il BMW (e occhio a dove lo mettete che ultimamente con il traffico dei pezzi di ricambio rischiate di trovarvelo smembrato) siete in prima linea e sbracate con tutta l’arrogante maleducazione con la prof di italiano dei vostri pargoli perché, notoriamente vostra dipendente, non comprende il valore, non rende sufficiente gratificazione, non sorvola sui temi che nemmeno i bambini delle elementari perché che importa, nella vita basta saper usare Internet, e magari ci andate pure giù pesante con offese personali che altrove vi avrebbero già preso a testate.

Ecco, spiegatemi che cosa può fare per voi una pubblica amministrazione così. In che cosa può servirvi. Come può aiutarvi se siete delle bestie. Da dove nasce il vostro livore. Che poi, diciamocela tutta, magari le tasse nemmeno le pagate.

pubblico ludibrio

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Se siete un’amministrazione pubblica e i soldi sono quel che sono, la scelta di come utilizzarli intevitabilmente finisce per penalizzare qualcos’altro. Magari bisogna togliere l’amianto dal tetto di una scuola e ha priorità uno, poi occorre garantire assistenza a una famiglia bisognosa e la priorità è ancora uno, insomma la priorità dovrebbe essere la uno per tutti e alla fine un buco in un muro della palestra della scuola media e un canestro piegato da qualche bulletto di quartiere, che ha anche squarciato la rete per compensare con la stima degli amici il vuoto che ha casa, finisce in secondo piano. Nessuno vuole pagare le tasse, nessuno sistema il bene comune, non c’è scampo. Non ero mai stato a Trezzano sul Naviglio, questo è il ricordo che porto a casa.

quando c’è censimento

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Il paradosso della modulistica che molti di noi hanno già ricevuto a casa è che contiene l’invito a compilare il tutto via Internet, rendendo superflue le spese di lavorazione, di stampa, di imbustamento e di invio del materiale ai cittadini. Probabilmente c’è una logica dietro, ma io non la colgo.

chiedo l’aiuto del pubblico

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Fanno tenerezza i cittadini, solo quelli educati però, che si sentono disorientati dalle iniziative organizzate dal Comune. Non sono più abituati agli eventi gratis e per di più privi della star televisiva di turno, il Gabibbo, il vincitore di Amici, il sosia di Celentano o, non saprei cosa è peggio, il raduno delle Ferrari, e chiedono alla responsabile quanto costi un giro sull’asino per il loro figlio. L’evento è molto carino, si chiama Asinovia. Ci sono cinque asini che si muovono lungo un percorso in un parco boschivo, uno dei quali è carico di due gerle piene zeppe di libri per bambini, che fanno a turno sulla groppa. A guidare gli asini c’è un attore che, ogni tanto, ferma la carovana in una radura, mette giù due teli rossi, fa sedere i bambini all’ombra delle querce e legge una storia. I bimbi si sbellicano dalle risate perché l’attore, con un forte accento romagnolo, è proprio simpatico.

Chi ha scoperto l’iniziativa nei giorni scorsi, quelli più attenti a quel poco che il Comune riesce ancora a organizzare con quel minimo di budget che gli resta, non ci ha pensato su due volte a iscriversi. Sta di fatto che i posti disponibili, ventiquattro bambini per ciascuno dei tre giri di un’ora, si sono esauriti praticamente subito. Ma sapete come succede. La comunicazione pubblica è quella che è, alla gente bombardata da informazioni sfuggono i manifesti istituzionali. Non abbiamo tempo di leggere, se leggiamo è facile non capire un linguaggio spesso distante da quello che occupa la pubblicità commerciale, in ogni caso siamo abituati ormai ad avere chi lo fa per noi, alla tv.

Quindi intorno al gazebo informativo al centro del parco in cui era stato organizzato il punto di raccolta e partenza dell’Asinovia, c’è un viavai di famigliole a spasso come ogni domenica, ignare ma incuriosite dall’iniziativa, alle prese con i loro pargoli che premono per saltare in sella agli animali. E come si fa a dire di no ai proprio figli? Si impara: mi dispiace, caro, mamma e papà pensano solo al loro lavoro, non leggono il giornalino del Comune e non badano alle affissioni a meno che non ci siano donne nude o cellulari in offerta.

Poi ci sono quelli che si stupiscono che l’iniziativa sia completamente gratuita, abituati ormai a metter mano al portafogli per qualsiasi cosa. Questo è il Pubblico, signori miei, sarebbe da dir loro. Se tutti noi pagassimo le tasse sarebbe tutto gratis, magari saremmo anche informati meglio perché anche il Comune avrebbe un sistema di comunicazione più efficace e anche più moderno, tramite i social media o una web tv, non so, giusto per fare un esempio.

E, dulcis in fundo, arriva quello che chiede l’eccezione. Si può? No, mi spiace, i posti sono finiti. Ma un bambino in più cosa vi costa, aggiunge lui. Un bambino in più, una richiesta espressa con la mimica tipica dell’aumma aumma di nostra produzione: l’indice destro in verticale con il pollice che lo sorregge, le labbra protese nella pronuncia della vocale U, una posa che ricorda Totò, la faccia nazionale dello “sgamo”, il mento in avanti, gli occhi furbetti da questua. Uno in più, che cosa vi costa? Tanto più che siete nostri dipendenti, sembra dire il Totò con la bambina per mano, che proprio non ne vuole sapere di rinunciare al suo giro in asino. Niente da fare, non c’è proprio spazio e non sarebbe giusto per tutti gli altri genitori a cui è stata data una risposta negativa. Il problema è che di fronte a impiegati pubblici ci sentiamo in diritto di insistere. L’indice resta ancora un po’ lì, ritto, una posa plastica che però non regge. Vieni tesoro, dice quindi alla figlia, proviamo a seguire gli asini, lo chiedo al signore che legge le storie e magari riusciamo a salire lo stesso.

diritto di Facebook

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Leggo su l’Espresso un intervento superlativo di Giulio Graneri, il punto della situazione su una serie di aspetti volti a far comprendere meglio “quando stiamo andando”. Il tema è ottimamente riassunto nel titolo dell’articolo, “Dopo l’iPad, l’umanità 2.0”. Un tema complesso, in cui si intersecano diversi aspetti quali l’annosa questione del digital divide, la democratizzazione dei mezzi di comunicazione, il fenomeno dell’informazione partecipata sul web, il marketing che viene dal basso, dematerializzazione e industria culturale nell’era dell’e-conomia, chi può e chi non può permettersi tutto ciò eccetera eccetera. Una perfetta sintesi di tomi, anzi, giga di documentazione e materiale e opinioni e punti di vista e contributi. Così, a proposito di democratizzazione, mi permetto un paio di commenti (sempre nell’ambito del mio spazio pour parler).

Se non vendiamo più il supporto (la carta o il disco) il prodotto culturale diventa più complicato da vendere. E comincia ad essere difficile garantire una retribuzione per il giornalista o per l’autore, per l’editore o per il discografico.

Giusto. Ma aggiungerei: il prodotto culturale diventa più complicato da vendere con gli stessi margini. Giornalisti, autori, editori, discografici e (aggiungo io) musicisti si sono resi conto, a loro spese, che introiti e stili di vita di un tempo non sono più gli stessi. D’altronde sono in buona compagnia. Altri settori, tutti, direi, per motivi diversi, a malapena consentono il sostentamento, aziende e fabbriche chiudono, tecnologie obsolete escono di produzione eccetera eccetera. La sfida è proprio quella di saper cambiare. Gli sforzi quindi non devono essere sprecati nella guerra a file sharing, copyright e diritti e via dicendo, che in uno scenario digitale e digitalizzato mettono a nudo l’incompetenza dei propugnatori. Occorre pensare a nuovi modi di fare e vendere cultura. Il problema è il supporto? La cultura può puntare sul live, sul rapporto diretto tra autore e pubblico. Reading, incontri, concerti, djset, nuove modalità di performance, attività non solo specifiche ma anche collaterali in cui sopravviveranno solo i meno rigidi o i più flessibili, i meno duri e puri. L’editoria poi dovrebbe riuscire a catalizzare tutte queste esperienze dirette con il pubblico sul web, facendo pagare contenuti extra, come in parte già avviene, consapevole che se una parola o una nota viene trasformata in bit sarà comunque duplicata e condivisa. Ma non si deve cercare al di là del monitor il profitto. Certo, si deve lavorare di più guadagnando magari la metà di prima. Ma questo è un problema comune a tutto l’attuale sistema economico.

Oggi ciascuno di noi costruisce, assembla la propria informazione attraverso il filtro degli altri, guardando il mondo attraverso gli occhi delle persone di cui si fida. È sempre più con questa logica che decidiamo cosa comprare, cosa leggere, dove andare in vacanza. Non è nulla di nuovo, lo abbiamo sempre fatto anche prima del digitale, usando i nostri amici e i nostri colleghi. Ma la scala con cui il digitale abilita questo processo è talmente importante che ridisegna buona parte della nostra vita.

Ed ecco il ruolo di player come Google e Facebook nel mercato globale. Sta già succedendo, ovvio. E mentre, almeno in teoria, dell’imparzialità verso il mercato di un sistema pubblico che eroga servizi dovremmo fidarci, come dobbiamo comportarci con le suddette corporation e il rapporto con i loro stakeholder? Se esistono discipline come SEO e SEM, ci sarà un perché.

Così come considereremo sempre più normale delegare alla tecnologia parte delle attività del nostro cervello, come la memoria. Anche qui, stiamo vivendo una transizione importante: non ci interessa più “possedere” un’informazione, ma piuttosto ci interessa “sapere dove cercarla” quando ci serve. Questo passaggio dal possesso all’accesso è dirompente e sostanziale.

Giustissimo. E se si va verso l’integrazione di tutti i dispositivi in uno, oltre a chiudersi (finalmente?) l’era dell’accumulo fisico e del consumo compulsivo in ambito culturale  si avrà un consumo tecnologico diverso. Se però tutto sarà in rete, si consolida l’era dello storage e del cloud. Ma attenzione: i data center v anno a corrente, occorre focalizzarsi quindi su una gestione intelligente dell’energia e sulla continuià dei loro servizi.

I nostri dati personali, la nostra posta elettronica, la nostra agenda, il valore che creiamo in Rete, i nostri e-book: tutto è sempre disponibile per noi, perché risiede nella nuvola del cloud computing. Ma non lo possediamo. Ci affidiamo e ci fidiamo di Facebook, di Google, di Amazon, di queste grandi corporation che hanno la forza per standardizzare i servizi di base del digitale, così come i governi ci garantiscono i servizi base del mondo fisico. La salute, l’elettricità, la viabilità, da un lato. La continuità della posta elettronica, della piattaforma su cui lavoriamo, dall’altro. Solo che queste sono, appunto, corporation: aziende private che gestiscono ambiti delicatissimi della nostra società contemporanea. È uno stato di fatto imposto dalle cose in modo molto rapido, una situazione cui ancora non abbiamo preso le misure.

La Pubblica Amministrazione non riuscirà mai, appunto, a fare le veci di una corporation, ma dovrà acquistarne i prodotti. Quale sarà quindi il prezzo da pagare, per i cittadini-utenti, di servizi che ci sono indispensabili (sono davvero indispensabili?), che consideriamo dovuti ma che non lo sono? Qual è il profitto di Google nel mettermi a disposizione gratuitamente tera di storage per conservare informazioni sulla mia vita e su quella dei miei amici? Lo farà sempre? Se Facebook fallisce, che ne sarà di anni della mia vita social-e? Il ruolo di questi player – e parlo di Google che mi fa trovare le informazioni e che mi mette a disposizione una versione senza licenza di Office online, Facebook che mi tiene in contatto senza spendere un centesimo di telefono, Worpdress che memorizza e mi consente di pubblicare tutte le cose che scrivo – diventa sempre più critico e imprevedibile. Perché un prodotto può essere superato con un analogo migliore. Un sistema diffuso capillarmente e radicato nel comportamento singolo e sociale no. Windows può essere soppiantato da Ubuntu. Ma Google o Facebook, così diffusi da costituire la memoria e lo spazio virtuale ormai per antonomasia, difficilmente cederanno il posto, o ci saranno analoghi servizi progettati dal Pubblico per essere pubblici che li soppianteranno.