Il problema è che subisco il fascino di parole come prologo ed epilogo. Non mi importa se i libri che leggo sono suddivisi in capitoli e ci sia l’indice, chiaro che dipende dalla trama, perché quelle pesanti cesure che spezzano la storia vanno bene in Underworld, giusto per citarne uno, altrimenti mi mettono un po’ a disagio. Come se dovessi uscire da una stanza per entrare in un’altra con il terrore di dover ricominciare da capo perché hai lasciato di là indizi, nomi e cognomi, sospiri e ansie e magari ti ritrovi di colpo venti anni dopo o in un’altra parte del mondo con il figlio del co-protagonista, mentre al personaggio per il quale tifavi è bastato girare una pagina ed è già morto e non sai cosa è successo. O magari poi lo scopri. Ma gli scrittori ti fidelizzano così, loro sì che sanno fare il loro mestiere.
Questo per dire che un unico blocco narrativo in genere mi è più congeniale, ma il massimo per me è un unico blocco narrativo con un prologo ed un epilogo. Una parte iniziale che mi dà il benvenuto e mi consente di trovare la posizione migliore per seguire quello che succederà nel modo più confortevole, e una parte conclusiva che appena volti pagina e la vedi e capisci che è una sorta di finale preventivo, come a dire che sei arrivato fino qui, ora rallenta perché ti devo preparare alla quarta di copertina e alla restituzione del libro alla biblioteca. Prologo ed epilogo sono avvertimenti, punto e basta. E per me è essenziale arrivare preparato agli appuntamenti, avere ambienti di sterilizzazione emotiva all’ingresso e di quarantena finale, in cui qualcuno tra le righe disallestisce un intero impianto costruito parola dopo parola e ti fa passare la sbornia narrativa. È la forma estetica definitiva, un 16/9 con le barre nere sopra e sotto, la bandiera della Spagna, un panino imbottito senza lesinare sul contenuto. Una forma molto tranquillizzante dotata di anticamera e di disimpegno, in cui come all’uscita dal cinema ti accendi una sigaretta anche se non potresti perché in realtà sei ancora in un luogo pubblico ma prima di uscire fuori devi rientrare in te. Le metafore, come vedete, non mancano.
Ma non c’è migliore rappresentazione grafica di queste parti accessorie che nei fumetti Disney, ora non ne trovo a supporto ma il fatto che titolo, storia, personaggi, autore e lettore si fondessero insieme in una specie di brainstorming preliminare all’episodio per me aveva qualcosa di magico, analogamente come quando i piani si confondevano in preparazione dell’ultima vignetta a tal punto che la parola fine poi era solo un cartellone pubblicitario appeso a un muro, in una via di Paperopoli.