hit parade di alcune cose che non ci sono più

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Meno male che certe cose non hanno preso piede, pensavo proprio ieri mentre uno di quei non-programmi televisivi che si vedono solo d’estate e quando le emittenti che non trasmettono i mondiali di calcio devono ingannare il tempo aspettando che il pubblico si distribuisca in modo più equo tra tutti i canali tv mi ricordava, lungo una hit parade del 2001, che sono già passati tredici anni da Crying at the discoteque dei sedicenti Alcazar, che era quel tormentone disco-vintage che riproponeva un riconoscibilissimo sample di Spacer di Sheila and the Black Devotion. Chissà perché l’ho collegato a un’usanza che poi tutti abbiamo lasciato passare inosservata, fortunatamente, per manifesta incompatibilità con il genere umano e che era quella di partecipare a rave party o feste danzanti indossando cuffie e ballando così su una musica non amplificata, tanto che chi capitava per caso rimaneva a bocca aperta alla vista di una moltitudine di giovani che si muovevano a ritmo ma senza sentire nulla tranne i fruscii dei vestiti, il tintinnare di bicchieri, qualche verso di compiacimento, le zeppe sul dancefloor e poco più. E anche sono certo nessuno sentirà la mancanza di Second Life, quella sì che era una roba da dementi, altro che Facebook. Quelli che spendevano per arredarsi gli appartamenti della loro vita virtuale parallela andavano presi a schiaffi e qualcuno deve pur averlo fatto sul serio perché Second Life è sparito dalla circolazione. Oppure ascoltando Think Tank dei Blur oggi è incredibile pensare che qualcuno abbia potuto mettere la band di Damon Albarn sullo stesso piano degli Oasis o anche solo inventarsi una competizione e divulgare un fenomeno dicotomico. Alla lunga non c’è proprio paragone. Siete d’accordo? Ho notato infine che di sigarette elettroniche non se ne vedono più tante in giro, da notare il fatto che in posti più civili del nostro non se ne è mai vista nemmeno una. Ho smesso di fumare nel 1994, dicevo proprio la settimana scorsa all’urologo che mi dato la gioia di un altro anno di prostata sana. Stavo percorrendo le vie del centro insieme a migliaia di persone che come me partecipavano a un corteo contro il primissimo governo Berlusconi. Ho spento una Winston appena accesa – fumavo dalla terza media o poco più – e ho gettato il pacchetto morbido ancora a metà nella spazzatura. Essere categorici a volte è una delle sensazioni più arricchenti.

il gioco dei quindici

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Il mercato è saturo in ogni suo anfratto e il problema degli eccessi produttivi si scontra anche con la riduzione forzata del modello di consumo ai tempi della crisi, laddove un ridimensionamento potrebbe invece essere invocato in forma di autodisciplina del consumatore. La sfida alla sopravvivenza, che si protrae comunque di gara in gara ed è il segnale che là sotto fortunatamente c’è ancora qualche organismo vivente imprenditoriale, fino ad oggi è stata vinta da chi è riuscito a creare intelligentemente i bisogni, prima ancora di immetterne l’antidoto sul mercato sotto forma di prodotto consolatorio, IVA esclusa. Mi viene in mente, come esempio più eclatante, la maestria di Apple nell’essersi reinventata cose che esistevano già, imbellettarle per i dì di festa (leggi perfezionarle e aggiornarle) e sbaragliare i competitor o fare piazza pulita di prodotti borderline, concentrando in un unico dispositivo tecnologie che prima svolgevano anche funzioni collaterali, convincendo il mercato della superfluità di tutto il resto. Ora che anche i bisogni sono agli sgoccioli, erosi da necessità di sempre più basso livello a fianco delle quali il valore esorbitante di accessori extra assume un carattere di oggettiva oscenità, e non a caso è proprio l’osceno a regolamentare alcuni aspetti della contemporaneità primo fra tutti le scelte di acquisto, e i sogni si infrangono intorno al quindici di ogni mese scoperti oramai da buste paga inadeguate per non dire giocattolo, si tratta di fare breccia nell’individuo attraverso canali innovativi tutti da inventare. Buon lavoro, ci viene da dire. Il guaio è che i nostri difetti, nostri nel senso di noi che stiamo dall’altra parte del bancone nel negozio in fila per pagare, si fanno largo nell’anima stessa delle aziende, perché i ruoli chiave e i posti di chi prende le decisioni ma anche degli addetti alla produzione stessi sono occupati da individui che mangiano le stesse cose e respirano la stessa aria quindi non possono che fare sempre peggio, e alla fine il corto circuito è inevitabile, fa scoppiare tutto, lascia terra bruciata intorno. Non c’è più posto, mi spiace, siete arrivati tardi.