esclusivo: ecco la verità sulle intercettazioni

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Tra le ennemila cose di cui si lamenta la gente al bar, consumando un veloce caffè all’alba con i colleghi prima di mettersi davanti a Facebook durante l’orario lavorativo, ci sono giustamente i fastidi da privacy violata. Ma come, una mette un suo selfie tutto scollacciato per impressionare la propria fan-base di spasimanti e subito c’è il collezionista di porno amatoriale che prontamente se lo scarica e se lo condivide con il mondo sul suo sito personale pieno di foto di gente comune che – cosa assolutamente naturale – si mette volontariamente in reggipetto e mutande sui social network? Che tempi, signora mia.

Ma anche l’interessato interlocutore di questo sfogo da tempi moderni ha di che lamentarsi contro il web impiccione. Dice che qualche giorno fa aveva intavolato un’accesa discussione con un paio di colleghi in metro sull’inflazione dei job title nel nostro sistema produttivo ed economico. Durante quel dialogo tra pendolari lui sosteneva che al giorno d’oggi tutti sono manager di qualche cosa. Basta sorteggiare a caso un biglietto da visita e leggere l’incomprensibile carica in inglese seguita dall’universale ruolo di manager, la percentuale di non capire che cosa uno fa di lavoro è elevatissima.

I tuttofare che girano per le sedi delle grandi aziende con la ferramenta appesa alla cintura come Dwayne Schneider, il portiere del telefilm “Giorno per giorno”, ora si chiamano Building Manager e Facility Manager. I tecnici il cui intervento viene richiesto dalle segretarie quando si inceppa la carta nella stampante o finisce il toner si chiamano IT Manager come chi gestisce il Data Center della NSA, e quando qualcuno chiede a uno di questi responsabili di quante persone è composto il suo team, può mostrargli cavetti, mouse e periferiche varie. Ma le persone con cui derideva questa impropria deriva delle posizioni apicali non erano poi così concordi, probabilmente – secondo quanto stava raccontando l’uomo alla aspirante pin up da like di autoerotismo digitale – anche loro avevano qualche scheletro nell’armadio. Basta pensare alla facilità con cui è possibile procurarsi biglietti da visita oggi, ogni due per tre cancelliamo spam di promozioni a prezzi stracciati, e il fatto che siano così frequenti implica che c’è domanda di cartoncini di auto-promozione che poi uno impiastra a piacimento.

Ma tornando al caffè e alla privacy, l’uomo sostiene di aver letto uno stralcio di quella conversazione tenuta sulla metropolitana su un blog, come se qualcuno assistendo al dialogo avesse tenuto a mente i passaggi salienti e li avesse riportati in forma di racconto. Cosa che sembra aver scoperto per caso. Arrivato in ufficio, forse con lo scopo di argomentare meglio la sua tesi sui vari *.manager che si trovano in circolazione, aveva googlato qualche parola chiave sull’argomento e si era trovato di fronte a una versione in differita e piuttosto fedele di quanto accaduto qualche ora prima, sulla linea gialla. Che cosa assurda, commenta la ragazza dopo aver ringraziato il collega per il caffè offerto, magari in proiezione di una futura amicizia su Facebook e il conseguente accesso alle foto di lei in costume da bagno. Come se ci fosse qualche folle maniaco che vive prestando attenzione a quello che dicono gli altri e facendosi gioco della gente che, ignara, si ostina a socializzare nella vita reale.

webburger

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Con la privacy su Internet ho un rapporto un po’ così, sono piuttosto distratto e, per svariati motivi, dalla prima volta nella mia vita in cui ho compilato un form on line – almeno diciassette anni fa – ad oggi credo di aver lasciato i miei dati ovunque. Insomma, se siete un po’ sgamati su Google è facile scoprire come mi chiamo, fermo restando che queste cose che scrivo vengono pubblicate (per mia scelta) su alcuni social network, in alcuni dei quali sono iscritto in chiaro, per così dire. Poi, una volta ottenuto il mio nome e cognome, è altrettanto facile googlarmi e trovare numerose informazioni sul mio percorso professionale, qualche recensione musicale o letteraria, qualche comparsata su forum e commenti vari. Se tornassi indietro non credo che farei diversamente, cioè non vedo la mia presenza in rete diversa dalla realtà, dove ci sono persone che mi conoscono, mi incontrano e mi salutano. Con alcune chiacchiero – poche, eh – altre sanno chi sono, ci sono quelli che mi conoscono dalla prima elementare e quelli che sanno a malapena il mio nome, e così via.

Voglio dire, l’invisibilità su Internet è una missione, un impegno che richiede mille attenzioni e una gran dose di intelligenza e prontezza, troppo per chi come me sul web ci lavora e trascorre una elevata percentuale del proprio tempo. E dubito che la totale assenza da anche un solo data base in qualche server sperduto del pianeta sia possibile, ammiro chi vi riesce ma ho l’idea che sia un obiettivo perseguibile solo evitando di aprire anche una sola pagina di un browser in vita propria. E in parte accade lo stesso per chi immette contenuti attivamente, con nick, alias e talvolta fake che conferiscono uno status illusorio di non riconoscibilità, perché poi alla fine un dato di registrazione, magari solo con l’esercizio del potere, lo si riesce a far coincidere con un dettaglio anagrafico e si giunge a destinazione.

Lasciare tracce di sé in fondo è un comportamento inconscio per depositare qualcosa di noi qui dentro, iniettare germi anche solo col desiderio che restino congelati in una provetta o in un bozzolo da qualche parte, pronti a essere risvegliati per fecondare qualche iniziativa più in là. Poi ci sono quelli che lanciano semi a casaccio sperando che si moltiplichino e si diffondano da sé, la rete continua la sua attività anche a pc spento, una forma di sperimentazione di forme di vita intelligente che può essere rischiosa, se ne può perdere il controllo e causare un’esplosione nucleare (virtuale) a nostra insaputa dall’altra parte del pianeta. In ogni caso noi viviamo anche qui dentro, da qualche parte, in server che danneggiano l’ambiente con la loro footprint magari proprio in quell’isola felice di una delle più brutte pubblicità di Internet Service Provider mai realizzate dall’umanità. E per ciò che riguarda contenuti pubblicati e responsabilità relative siamo nell’ambito del buon senso comune, che se non sbaglio c’era anche prima.