i dolori del giovane

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Ho visto una collega in lacrime raccogliere la solidarietà delle persone a lei più vicine in ufficio, una la stava stringendo a sé e altre ragazze, chi con le braccia conserte e chi con la mano sulla sua spalla, cercavano di recare conforto anche con la sola presenza. Ho chiesto informazioni, e quando ho saputo che le è mancato il papà nel Paese lontano di origine ho tirato un sospiro di sollievo, a caldo avevo temuto che fosse stata licenziata. A freddo mi sono vergognato un po’.

#fft

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Ci sono i #ff che sono i follow friday e scusate se l’ho scritto per esteso, magari qualcuno di voi non sa che cosa vuol dire, non volevo mancarvi di rispetto. Ma a me interessano più i #fft, follow friday trolley che sono le migliaia di persone da seguire che si incontrano al venerdì mattina con il trolley a rimorchio, loro fanno strada e tu ti metti dietro perché è meglio averli davanti che scontrarsi con loro, veloci e pronte (soggetto: le persone) a lasciare il loro posto letto milanese o i coinquilini insieme ai quali si privano mensilmente di più di metà stipendio per l’affitto del domicilio infrasettimanale alla volta della famiglia di origine o di appartenenza, con cui ricongiungersi per il weekend.

Il trolley, che ti viene voglia di compatire perché fa tenerezza, trascinato come un fedele cagnolino di piccola o media taglia, condividerà con i loro padroncini l’ultima giornata lavorativa della settimana per poi essere schiacciato da altri contenitori di fatiche periodiche stipato in cappelliere e lanciato verso destinazioni più o meno remote per tornare sotto la scrivania il lunedì successivo, ancora impregnato della fragranza di casa e magari ricolmo di provviste cucinate da mammà.

I #fft fanno anche piuttosto rumore e hanno trasformato la città in una sconfinata sala d’attesa in cui i viaggiatori in partenza richiamano la curiosità di chi, con una semplice e old-fashioned borsa a tracolla con un libro e due mele per pranzo dentro, fa la misera figura dell’accompagnatore che sogna di volare oltreoceano e lasciare le rotture di maroni del giorno al collega più antipatico.

Ma qui non si va da nessuna parte, che vita è fare avanti e indietro e tenere due piedi in due città diverse dove da una parte non metti il naso fuori dalla stanza ammobiliata che occupi perché non hai una lira da spendere, dall’altra rivedi amici e affetti, magari la fidanzata o il marito per un giorno pieno in cui ti sforzi di concentrare carezze, cinema e ristorante cinese non necessariamente in questo ordine, e poi qualcuno che ti riaccompagna alla stazione e ti aiuta a sistemarti sull’ultimo treno per non dover poi rientrare con il buio in quella città tentacolare che ho letto ci sono le bande di latinos che si menano non si sa il perché nella metro e fanno a gara a chi è più tamarro. I #fft a quel punto sono però #ffm, follow fucking monday, che potrebbe anche significare, per assonanza, perché mi segui e fanculo a tutto il mondo stamattina, te e le tue rotelle che si incastrano nelle griglie e nei tombini.

dopolavoro

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Sarà stato l’effetto della scossa sismica di ieri se ti si è rovesciato tutto il lavoro addosso e adesso, anche oltre l’orario di ufficio, ce l’hai appiccicato sui vestiti, puzzi di riunione e di brief e si vede che non vedi l’ora di cambiarti, tornare a casa e metterti qualcosa di pulito e di comodo nel tuo appartamento che condividi con altri ragazzi come te che si chiederanno cosa è successo. Ma la giornata lavorativa non finisce con il suono di una sirena o un cartellino timbrato, queste cose si vedono oramai solo più nei film in bianco e nero, e quello strumento di comunicazione che ti segue ovunque, personale perché di tua proprietà anche se te lo hanno regalato mamma e papà per festeggiare il tuo primo impiego pardon, la tua prima collaborazione continuativa, quella mattonella con la plastica touch screen che ora tieni inclinata tra bocca a orecchio e alla quale stai rivolgendo una serie di giustificazioni in risposta all’accusa di un invio di formati di file sbagliati, è solo uno dei numerosi link che rimandano la tua vita privata a quella postazione che hai lasciato vuota poc’anzi, con il monitor in stand-by.

Ora, mentre dirigi parole a un dispositivo sproporzionato per la semplice funzionalità di trasferimento voce che dovrebbe assicurare, scruti il vuoto che hai davanti ma che vuoto non è, perché ci sono io e c’è un sacco di altra gente, ma tu hai eretto una barriera artificiale che vedi solo tu e che osservi sbigottito come se fosse un desktop virtuale sul quel stai cercando convulsamente la risposta giusta da dare a quell’interlocutore che è in grado di raggiungerti ovunque. Qui, tra un’ora a casa, magari stanotte mentre stai dormendo ti telefonerà per chiederti di risolvere il suo problema e tu dovrai riferire tutto domani al tuo responsabile, che c’è stato un problema di formati e di estensioni e di versioni differenti di programmi, ma se a malapena la chiamata personale ti sarà rimborsata dall’azienda che già ti sottopaga tutto il resto, il tuo essere quello che fai 24*7 giorni festivi inclusi non ti verrà mai restituito da nessuno, e l’aver consumato l’esistenza giorno per giorno a piccole ma sostanziali porzioni per colmare le difficoltà di bilancio altrui non diverrà mai una competenza riconosciuta ufficialmente in grado di fare curriculum, e al prossimo head hunter che ti esaminerà apparirà solo come una normale menomazione fisica di gravità insufficiente per autocertificarsi appartenente a una categoria protetta riconosciuta.

allora, addio

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Non te la prendere. Avevi un contratto di sostituzione di maternità che hai onorato per più di dodici mesi ma ora è scaduto e, nell’ottica di un taglio dei costi, purtroppo non ci è possibile confermarlo, anche se ce ne sarebbe il bisogno, altroché. Ti possiamo proporre però un’appendice lavorativa di tre mesi che ci consentirà il passaggio di consegne con i due nuovi collaboratori che nel frattempo sono saliti a bordo. Perché si tratta di due stagisti, sommando i rispettivi rimborsi spese si ottiene una cifra comunque inferiore al tuo stipendio, ad oggi fuori budget. Non te la prendere. Anzi, potresti vederla proprio da questo punto di vista. L’impegno che hai profuso per l’azienda è stato il doppio di quanto ti era stato richiesto, tanto che abbiamo dovuto provvedere con due risorse, al posto tuo. Ecco, la verità è che vali troppo per noi. È meglio se ci prendiamo un po’ di tempo per riflettere. Lo stiamo facendo soprattutto per te, e sono certo che un domani ci ringrazierai per questo. Non ti meritiamo. È giusto che tu possa trovare un’azienda che valorizzi appieno la tua professionalità, per questo quando i due nuovi collaboratori saranno a regime ti lasceremo libera. Libera di andare, perché non vogliamo farti soffrire. Non siamo capaci di mentire, e se tieni davvero alla nostra azienda, puoi capire perché. Beato chi ti assumerà, davvero. Ora attacca tu, dai, almeno questo, noi non ne abbiamo il coraggio.

generazione vincente

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al posto tuo

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L’ultimo giorno di lavoro di un collega lo si riconosce subito, alle nove del mattino appena si arriva in ufficio, perché non è un giorno come tutti gli altri.

Se è il collega ad aver dato le dimissioni perché cambia lavoro, quindi si presume vada a stare meglio, leggi la speranza nei suoi occhi, lo vedi pronto al passo successivo, quello che nessuno conosce. Cambiare società, si sa, è comunque una sfida da cui si può tornare vincitori ma anche no, e lo sguardo di chi ci lascia volente, e ha dato il preavviso trenta giorni prima, è un misto di paura, gioia e nostalgia. Ma tutto sommato è uno sguardo giovane, non saprei come definirlo meglio, un po’ perché sono giovani quelli che riescono a cambiare in meglio, un po’ perché forse il panico ti fa gonfiare il petto per istinto di sopravvivenza, come gli animali che si preparano al combattimento, e la forza negli occhi ti conferisce quell’aspetto che si ha da ragazzi boriosi. E anche perché tutti ti invidiano. Per chi è felice di varcare l’ultima volta da collaboratore fisso (stavo per dire dipendente ma poi mi sono accorto dell’anacronismo) l’uscita giù al piano terra per addentrarsi da solo – o almeno non con noi – nel suo futuro, l’ultimo giorno d lavoro è già un giorno di festa, lo coccoliamo, qualche battuta, si va a pranzo insieme l’ultima volta da colleghi. Poi nel pomeriggio ci riuniamo tutti qui nel mio ufficio, che si chiama lo stanzone perché è la stanza più grande, e con un scusa lo facciamo venire qui e gli consegniamo un regalo, comprato grazie a una colletta. Il biglietto è quello dei commiati, felicitazioni per la tua nuova carriera. Poi, un paio di ore prima dell’orario normale di uscita, preceduto da una sua email più o meno di circostanze, il collega fa il giro, mi raccomando sentiamoci, vi ho lasciato l’indirizzo privato di posta, sì ma sarò qui vicino quindi possiamo pranzare insieme di tanto in tanto, e cordiali saluti. Chi era più legato continua l’amicizia parallela fuori di qui, e avanti il prossimo. Il nostro capo non si fa mai vedere in queste occasioni, forse stizzito del fatto che non è riuscito a trattenere la risorsa, e con una scusa o un’altra si astiene dai saluti finali.

La variante, come potete immaginare, è il collega a cui non è stato rinnovato il contratto ed è stato licenziato. E anche in questo caso, lo riconosci subito che non è un giorno come gli altri. Siamo tutti un po’ in colpa, noi abbiamo ancora un lavoro e tu no ma se fossi nei nostri panni saresti imbarazzato anche tu ma per fortuna che non ci sei perché in tal caso saremmo noi quelli ad aver perso il posto di lavoro, dicono i nostri occhi. Rispetto al dimissionario, il licenziato è ovviamente meno speranzoso e più preoccupato, da domani avrà giornate intere per sfogliare annunci di lavoro, i link sui quali ti posizioni con la freccetta del mouse e ti compare già in anteprima il range di salario: rimborso spese, meno di quattrocento euro, da quattro a ottocento euro. E le dinamiche con gli altri sono diverse. Il rancore lo spinge a consumare l’ultimo pasto con i colleghi più stretti, ma non per questo non ci preoccupiamo di salutarlo con una colletta per un pensiero. Nel biglietto non si sa cosa scrivere, il lupo è tirato in ballo dai meno originali, poi qualcuno sdrammatizza e fa il simpatico. Segue mail a tutti, è stato bello lavorare con voi, poi il giro di saluti di rito e il collega si invola appeso a un enorme punto interrogativo aerostatico, lo salutiamo dalla finestra mentre prende quota, aggrappato a quello che per il momento è il suo futuro, la sua unica certezza. Nessuno sa dove sia diretto. Quando sparisce dietro al palazzo di fronte, si torna tutti alla scrivania. Ah, il nostro capo non si fa mai vedere in queste occasioni, forse imbarazzato del fatto che ha dovuto lasciare a casa la risorsa, e con una scusa o un’altra si astiene dai saluti finali.

quando è in gioco il futuro

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Sostenere colloqui non è un’attività che mi faccia impazzire. Nel senso di tenere il coltello dalla parte del manico, ovvero selezionare personale, scremare le papabili risorse umane per l’agenzia in cui lavoro. I motivi sono molteplici e anche facilmente intuibili. Intanto non è il mio mestiere, non ho studiato per analizzare profili e sintetizzare risultati conto terzi su personalità che potrebbero anche rivelarsi controproducenti verso il mio lavoro, una responsabilità che preferisco non accollarmi. Voglio dire, il mio metro di giudizio sul prossimo è personalissimo, non riesco a rappresentare il pensiero di una collettività come questa in cui le metriche e le variabili che applico nella scelta delle relazioni interpersonali da mantenere, o un banale tu mi sei simpatico e tu no, non hanno il valore oggettivo, determinante e utile allo scopo. Penso che ci siano caratteristiche che vanno oltre l’impatto a pelle che porti a casa da un incontro, no?

In seconda istanza, mi sento in imbarazzo, qui i criteri selettivi hanno alla base il “basta che costa poco”, congiuntivo mancato incluso, vige l’imperativo di lesinare proprio sull’aspetto più importante di una organizzazione impegnata esclusivamente nello svolgimento di un lavoro fatto con la testa, con la fantasia, con la precisione e il metodo, intendo il personale più adatto. Non invidio chi deve prendere una decisione così importante con così pochi elementi e in così poco tempo, comunque accorgersi di aver sbagliato profilo dopo un periodo di prova più o meno lungo può essere frustrante per tutti, a meno di non identificare subito lacune vistose sul lato esecutivo e pratico, quelle le noti in poco tempo e ti consentono un arrivederci e grazie anche nel giro di una giornata.

Ma per alcune mansioni, quelle creative, per esempio, è oltremodo complesso. E mi imbarazza anche il fatto di dover proporre stage, so che là fuori c’è la fila di ragazzi disposti anche a questo tipo di abnegazione, ma non ho i peli sullo stomaco sufficientemente folti e lunghi da mettere sui piatti della bilancia curriculum di studi e di esperienza, investimenti e sacrifici pagati con il lavoro dei genitori, aspettative e sogni da una parte versus un contratto di parcheggio durante il quale il prescelto non imparerà nulla di più di quello che sa, se non come lavorare in questa realtà che, come ogni azienda, è diversa dalle altre e quindi, quando lo stage finirà, dovrà ricominciare da capo in una nuova organizzazione con altre procedure, altre dinamiche, altri colleghi e, speriamo, altri trattamenti economici. Quando noto un eccessivo squilibrio tra la posizione ricercata e la persona che ho di fronte, cerco di mettere al corrente della situazione, sai ti troveresti a fare bassa manovalanza pagato male per poi non ottenere nulla, non mi sembra il caso.

E poi, indipendentemente dalla posizione ricercata, mi viene da fare domande che con il lavoro non c’entrano nulla. Ma mi immagino il trascorrere insieme tante ore al giorno per ogni giorno, la seconda vita che si vive parallelamente alla prima qui in ufficio, penso sempre che sia bello lavorare con persone con cui si va d’accordo. Che libri leggi, quali sono i tuoi registi preferiti, che musica ascolti, quali sono i tuoi interessi. Insomma, se devi lavorare con le parole, digitali o no, è importante comunque avere qualche punto di riferimento. E solo dopo aver sentito le risposte mi rendo conto di quanto sia inutile cercare se stessi negli altri, capisco che è sempre più nutrita la schiera di quelli più giovani di me e più giovani tout court, è un processo incontrovertibile, scambiare qualche battuta sullo scrittore in comune probabilmente non è così importante. Non lo è nemmeno sapere che tra le passioni di un candidato c’è giocare con la PS, anche se l’immediata associazione è con i compagni di classe di mia figlia, terza elementare, chiusi nella cameretta a sfogarsi sui videogame, sudati, nemmeno una pausa per un bicchiere di succo o un morso al pane con la nutella. A quel punto il colloquio è finito, cambio canale perché l’empatia si interrompe così, fine delle trasmissioni, grazie ti facciamo sapere. Game over.

adozioni a distanza di sicurezza

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Giorno di staff meeting. Si chiama così la riunione interna tra account, project manager (che poi sono le stesse persone che fanno entrambe le cose) e il capo. Ci si aggiorna sulle lavorazioni in corso e si ha un quadro di quello che fanno gli altri. La nostra agenzia non è grande, il turn over è ampiamente nella media, non siamo mai più di sei barra sette persone a partecipare a questi incontri in cui si fa il punto della situazione.

La lavagna divisa in altrettante colonne nominali, da aggiornare di volta in volta con i progetti in corso, vira sempre di più verso il bianco, nel senso che è sempre meno popolata dai nomi delle attività in fieri. Già, per la prima volta da quando sono qui, ormai quasi 10 anni, la flessione del mercato, una perifrasi che mi ricorda la ginnastica delle medie e che sta a indicare la crisi, ha fatto prepotentemente breccia nella nostra routine. La temevamo, chiaro. Ma nel 2009 l’abbiamo scampata, addirittura c’è stato un picco di lavorazione nel 2010. A dirla tutta ho lavorato come una bestia, l’anno scorso. Ricordo di aver spento il computer, alle 19.30 dell’ultimo giorno utile prima delle vacanze di natale, dopo aver chiuso e archiviato l’ultimo progetto dell’anno. E mi sono detto che ero proprio bravo, nel 2011 sarei potuto ripartire con tanti nuovi lavori senza avere nulla in pending.

Poi gennaio, ma gennaio si sa che è un mese un po’ assopito, non ci siamo accorti dello stato di coma. Febbraio ha meno giorni, ci sta che vada così così. Marzo è quando si deve decollare, invece siamo rimasti chiusi nell’hangar. Aprile: non pervenuto.

Così ci inventiamo cose da fare, cerchiamo di allungare i lavori che i nostri clienti ci assegnano provando ad assottigliarli un po’ come si fa con la pasta per la pizza. Li schiacciamo per farli aderire a tutta la superficie della teglia, per farli arrivare ai bordi in modo che ce ne sia per tutti. Chiediamo di aggiungere un po’ di ingredienti, arricchire la ricetta, renderla più gustosa. Ma quasi mai si va oltre il pomodoro e la mozzarella, quando non ci si limita alla focaccia semplice, senza rosmarino grazie. Mi si perdoni la metafora, influenzata dalla mia cena di ieri.

I junior iniziano a tremare. Uno di loro avrà il contratto ridotto a tempo parziale fino a settembre, data di scadenza, dopo la quale se continua così non gli verrà rinnovato. Poi c’è C., che è junior solo perché è qui da poco ma ha pochi anni meno di me. Anche a lei è stato imposto una sorta di part time ma che part time non è, nel senso che d’ora in poi a metà stipendio sarà in ufficio quattro ore al giorno, sempre a progetto. A detta di tutti una scelta discutibile: se già hai pochi introiti, rinunciare alla verve e alla propositività diminuendo le risorse equivale a una zappata sull’alluce.

C. ed io, uscendo fianco a fianco dalla stanza dei bottoni, passiamo davanti alle foto dei bambini indiani che, tramite un’associazione attiva in questo campo, l’agenzia ha adottato a distanza. Ha un sorriso di quelli a metà, che meglio impersonificano il sarcasmo, a seconda del punto da cui la stai osservando. “Basta privilegiare gli indiani“, mi scrive poco dopo in chat. “Mi accontenterei di essere adottata, così mettono la mia foto lì vicino all’ingresso, a fianco delle mie letterine in cui scrivo quello che faccio con i loro soldi, ringraziandoli per il fatto che mi mantengono in vita“.

riscatti di anzianità

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Vi ci vedete voi, a 65 anni, a smanettare con Dreamweaver (o con quello che si userà allora) e progettare pagine Internet (o quello che ci sarà allora)? Ipotizziamo che il mondo non finisca nel 2012 e che i miei colleghi arrivino alla fatidica età della pensione facendo più o meno le stesse cose che fanno ora. Io scrivo testi pubblicitari, ho già 43 anni, e mi tiro fuori, almeno per scaramanzia visti i tempi che corrono. In gioco restano A. che costruisce pagine per siti web, D. che fa il grafico, I. che si occupa di montaggi video, i primi tre che mi vengono in mente a mo’ di esempio. Tutti mestieri che l’opinione comune associa a giovanotti dal profilo precario, ma che, come tutti, precari e statali, invecchieranno. Prendiamo invece i mestieri più tradizionali. Chi di voi non conosce un commerciante anziano? Un meccanico alle soglie della pensione, con le mani indelebilmente macchiate di nero? Un ingegnere con i capelli bianchi? Un ex-geometra che gioca alle bocce, cura l’orto e porta a spasso i nipotini? Un copywriter di mezza età? Si, quello sono io. Ma è l’eccezione che conferma la regola. Mi spiego meglio (ci provo).

I lavori che iniziano per “e trattino” e tutto ciò che ha a che fare con i new media è per precari highlander, i sempreverdi, gente che non solo non invecchierà mai ma che non oltrepasserà nemmeno le soglie dell’età adulta. Complice anche il turn over che c’è nel settore. I suddetti A. D. ed I. lavorano qui da un paio d’anni, chi più chi meno, e prima o poi se ne andranno, perché nessuno investe davvero in questa tipologia di figure. La rottamazione è più conveniente, si possono risparmiare i costi di una crescita professionale per stage sempre meno retribuiti. Tra poco arriveranno i nuovi A., D. e I. a sostituire gli originali, anche se originali non sono, perché sono qui già al posto di qualcuno. Ma, per fare punto a capo, consideriamoli pedine archetipo di questo perpetuo gioco dell’oca. In ogni casella c’è il logo di un’agenzia e un numero crescente, a rappresentare l’età. Dicevo, altre 3 pedine a progetto, sempre di 30 anni, ripartono da capo e si spostano lungo le caselle, così l’agenzia si può permettere di non invecchiare. Ma i tre archetipi, le tre pedine da cui siamo partiti, dove vanno a finire? Avanti di enne caselle, in un’altra agenzia a re-iniziare da capo come junior, sempre junior. L’ultimo tiro di dadi e si arriva a 65 (è una variante del gioco dell’oca vero e proprio, che invece arriva a 90), la casella della pensione, ancora da junior. Ma vediamo da vicino le ultime 10 caselle, quelle che ci interessano di più: non cambia nulla. A. è alle prese con i css, D. è prono su Illustrator e I. è in giro a portarsi in spalla la miniDV, magari in una conferenza stampa a sgomitare con i cameraman delle tv che si fanno molti meno scrupoli. Tutto questo intorno ai 60 anni, diciamo. Strano, vero?

Questo perché un anziano creativo, un nerd con i capelli bianchi o un videomaker digitale con le rughe esula dal nostro immaginario. Eppure, nel 2060, ci saranno anche loro. Quasi sicuramente con problemi di vista, per aver speso notti e giornate appiccicati ai monitor, in barba alla normativa sulla sicurezza sul lavoro in ufficio. Tutti curvi e scogliotici, per le numerose sedie low-cost che hanno ospitato le loro parti posteriori e per le posture assunte durante i briefing. Semisordi, per via della musica electro-indie a tutto volume che gli ha consentito di isolarsi meglio dal resto del mondo. E analfabeti di ritorno, incapaci di scrivere se non con la tastiera o con il touch screen, di leggere il corsivo, di comprendere un testo privo di abbreviazioni e più lungo di 160 caratteri. Anaffettivi, se non tramite faccine animate.

E io, a 93 anni, sarò ancora lì, a sistemare i testi dei miei clienti, a togliere la doppia elle da “accelerare”, a cancellare apostrofi tra “qual” e “è”, a correggere l’accento chiedendomi il “perché” (la rima non era voluta).

proposte indocenti

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Uscire dal precariato, grazie a Mediaset, si può: dieci anni di stipendio per partecipare a un reality. La chiamata è per gli insegnanti precari della scuola, che finalmente hanno un’opportunità tutta per loro, con cui calpestare la propria dignità preparando una scolaresca di grandifratelli (pare i più asini, ci sarà l’imbarazzo in fase di selezione) a un quiz finale. Alla fine, il format è sempre quello: chi ha i soldi mette mano al portafogli, tanto non c’è più nulla che non sia sul mercato.