Non riuscivo a chiudere la finestra, tanto era forte il vento. Sembrava un uragano e a complicare il tutto era partita all’improvviso una ghost track da un cd che ero convinta fosse finito da chissà quanto, con dei cori maschili che sembravano venire dall’oltretomba che avevano portato la tensione alle stelle. Ho fatto così notare a Rino che con quei presagi da fine del mondo avrei preferito restare a casa, ma i nostri amici ci stavano già aspettando e in più le pizze da ritirare sarebbero state sfornate di lì a poco. Si festeggiava Lia che aveva fatto armi e bagagli e si sarebbe trasferita in Portogallo, e l’aspetto curioso di questa storia è che non era la prima che sentivamo. Sembrava che il Portogallo facesse gola a tutti, in quel periodo, e egoisticamente avere un base d’appoggio per una futura vacanza ci avrebbe fatto comodo, non ditemi che voi non pensate a queste cose.
Per la strada però era tutto un via vai di mezzi dei vigili del fuoco. Il fiorista del chiosco all’angolo sotto casa, aperto nonostante il tempaccio, ci aveva messo all’erta sulla serie di incendi che si erano propagati da qualche ora. Rino non si capacitava di come facesse il fuoco ad alimentarsi ugualmente con la pioggia. Forse è troppo fitta e poco efficace, ci ha risposto il fiorista. Io però non avrei voluto nemmeno attraversare la strada. Ho una fifa boia di ciò che mi passa accanto velocemente e di sostare in prossimità di cose gigantesche. Rino, una volta, mi aveva portata su un gommone vicino a uno yacht enorme, dove avevo avuto delle vertigini ed ero quasi svenuta. Stare sul marciapiede con la autopompe che sfrecciano a sirene spiegate a mille all’ora mi fa lo stesso effetto.
A qualche isolato di distanza, sulla strada tra casa nostra e l’appartamento di Lia, ha aperto una pizzeria d’asporto in cui si mangiano pizze come le fanno solo a Napoli e come piacciono a me, e se la provate non troverete, davanti al forno a legna, un pizzaiolo egiziano o cinese come nelle altre pizzerie di Milano. Niente pizza kebab o compromessi con i gusti di noi settentrionali, come la friarielli rossa. Per sicurezza ho chiesto, prima di ordinarla al telefono, se fosse un sacrilegio, dato che altrove te la preparano lo stesso mentre lì, nel menu della nuova pizzeria d’asporto, si trova annoverata nella colonna delle pizze bianche. La ragazza addetta agli ordini mi ha risposto, in napoletano, che non esisteva proprio e mi ha spiegato che i friarielli con il pomodoro si inacidiscono, o viceversa, perché in realtà non ho capito bene cosa ha detto. Già: per fare la pizza così buona e così napoletana lì dentro ci lavorano solo napoletani e il napoletano stretto è difficile da comprendere.
C’è una leggenda metropolitana secondo cui certe pizzerie napoletane veraci del nord Italia si fanno arrivare le materie prime da Napoli, a partire dall’acqua per fare l’impasto. La cosa buffa è che al contrario, in certi supermercati, vedi gente che controlla di continuo se mozzarelle, la salsa, i pomodori stessi e altri prodotti provengono dalla terra dei fuochi o da altre zone a rischio inquinamento, ma se uno sta a guardare tutto, che vita fa. Anche io e Rino, quando facciamo la spesa, un’occhiata la diamo comunque. Stai attento agli ortaggi contaminati o radioattivi e poi, appena metti piede fuori dalla pizzeria napoletana verace, ti fai un bel tiro di smog che ti lascia i solchi nei polmoni, o passano i vigili del fuoco a tutta birra e ti tirano sotto. Più credibile allora che sia la ricetta della pasta, a fare la differenza, un segreto che mi piace pensare che raramente venga esportato dalla Campania e che si tramandi di generazioni in generazioni.
E, a proposito di parentele, anche questa nuova pizzeria dev’essere gestita da una famiglia, perché mentre ero dentro in attesa del mio turno la ragazza di prima ha chiesto alla zia, seduta a far nulla su uno di quei sgabelli che è facile trovare nell’arredamento delle pizzerie d’asporto, se lo zio fosse “asciuto”. Ma non è finita qui. Mentre pagavo in contanti – non hanno il pos per bancomat e carte di credito, nemmeno quello fosse un centro per ripulire il denaro sporco – sono entrati due che sembravano presi paro paro dal film Gomorra. Tipo quelli che sparano con il mitra in mutande, ricordate? Questi però erano grandi e grossi, hanno fatto dei convenevoli poco adatti a gente di quella stazza che, in genere, sembra usa a conquistare tutto con la prevaricazione e la violenza. Si sono rivolti con un rispetto da film sui codici d’onore della malavita e in napoletano stretto allo zio che era prima “asciuto” e poi rientrato, quindi si sono messi a chiacchierare con il pizzaiolo. Sentivo nominare ogni tanto i nomi delle altre pizzerie della zona in una sorta di studio marketing in napoletano sull’analisi della concorrenza.
Mentre pagavo così ho pensato che chissà, magari gli incendi che si erano sviluppati nel quartiere riguardavano proprio le altre pizzerie qui intorno che così avrebbero chiuso, e non dico certo che si tratti di incendi dolosi o commissionati dai gestori della nuova pizzeria. Le case bruciano per svariati motivi. Così sono uscita, anzi “asciuta”, a raggiungere Rino che mi aspettava fuori, infastidito dall’odore di fritto che c’era là dentro. Anziché aiutarmi con le pizze mi ha annusato la giacca per capire quanto ci avrebbe messo a tornare indossabile in una società civile. Quindi abbiamo dato uno sguardo all’insegna di quella pizzeria per ricordarci bene il suo nome, per non doverla poi chiamare, nel nostro lessico famigliare, la pizzeria dei camorristi, e per pensarci due volte la prossima volta anche se, devo ammettere, di pizze così buone nella zona non ne trovate.