Si salivano sette piani di scale a piedi, rampe pensate per scoraggiare gli ospiti e aggiunte o ricostruite nel tempo, le ultime due con una percentuale di pendenza da alpinista e un rapporto alzata-pedata al di fuori di ogni norma architettonica. La prima volta addirittura percorse al buio, non vi era alcuna finestra perché non esistevano spazi comuni interni, un cortile o un qualsiasi chiostro benché cinquecento anni fa fossero elementi piuttosto comuni. Probabilmente a quell’edificio mancava un pezzo, magari crollato o bombardato in tempo di guerra, e già era un miracolo che la parte in cui si trovava il mio futuro bilocale fosse sopravvissuta. Procedevamo lentamente, il padrone di casa davanti ed io dietro, la mia faccia all’altezza delle sue tasche posteriori dei pantaloni, lui anziano e fiaccato da tutti quei problemi che impongono di fare le scale con calma, a una certa età. Il buio, in alcuni punti totale, non aiutava di certo, ci tenevamo al corrimano in legno, azzardando ogni passo in base all’esperienza del gradino precedente pur sapendo che un metodo empirico in questi casi di edilizia nei centri storici è tutt’altro che efficace. Non c’era però pericolo di sbagliarsi all’arrivo, la scala terminava proprio in fronte all’ingresso dell’appartamento meta del nostro sopralluogo. A quel punto un po’ c’eravamo abituati all’assenza di luce, ma la porta, di una taglia almeno più piccola rispetto all’uscio, lasciava filtrare sopra e sotto un centimetro buono di luce. Bene, non ci saranno problemi di aerazione.
Giudicare l’appartamento immaginandoselo abitabile non fu un’impresa semplice, ma il costo era vantaggioso e decisi di dare fiducia al locatore, padre di un’amica di un mio collega che ci aveva messo in contatto. E non mi sbagliai. Già la seconda visita, a caparra versata, andò meglio. La luce nelle scale era stata ripristinata, e la casa era stata rimessa in ordine e tinteggiata tutta di bianco, tanto che con le finestre spalancate a quell’altezza con la giornata di sole sembrava di essere in Grecia. Certo avrei dovuto adattarmi perché in quanto a comodità lasciava a desiderare. La doccia era nel cucinino a ridosso della finestra, per lavarsi occorreva chiudere la veneziana verso l’esterno per non mostrarsi in pubblico, anche se la vista era su una piazza e non c’era nulla di fronte, e tirare una tenda verso l’interno per non allagare il pavimento. Nello stesso cucinino era stato ricavato il bagno, nel senso della tazza con sciacquone annesso e basta, un cubicolo con un’apertura sulla doccia cioè sulla cucina, con tutti i problemi della coesistenza tra esigenze fisiologiche e cottura dei cibi.
Ma il vero punto di forza, il particolare che faceva la differenza e che mi aveva convinto ad accettare la proposta, era il terrazzo. La scala, una volta oltrepassata la soglia, continuava a sinistra ancora per una rampa a chiocciola e in muratura che portava al tetto dell’edificio, ampio quanto l’appartamento sottostante, davvero suggestivo. Pavimento in ardesia, comignoli, vista da capogiro sul centro storico fino al Porto Antico. Solo questo sfogo, inaccessibile a temperature estreme per quanto possano essere estreme le temperature a Genova, valeva tutto il resto e convinceva a chiudere un occhio sulle caratteristiche più infelici. Le infiltrazioni d’acqua che poi diedero alle pareti di perimetro una preoccupante sfumatura verde poltiglia. I calcinacci che ogni tanto si staccavano e cadevano percorrendo le scale. Il portone sempre spalancato e apparentemente privo di serratura tanto che non mi venne nemmeno fornita la chiave, il che attirava individui senza fissa dimora alla ricerca di un posto al coperto. E quando dico apparentemente privo di serratura è perché una volta lo trovai chiuso rientrando a notte inoltrata, così scelsi di tirare mattina nella sala d’aspetto della stazione ferroviaria, con degni compagni di sventura. E il pusher che, oltre a me e a un misterioso infermiere transgender, abitava lo stabile occupando l’appartamento al piano inferiore rispetto al mio. Ogni tanto i clienti lo aspettavano seduti sui gradini, ma si spostavano volentieri per farmi spazio quando passavo. Una volta, salendo, trovai la sua porta d’ingresso sfasciata a colpi di martello (era di legno e, come la mia, piuttosto fatiscente) così, temendo per mia incolumità, chiamai la Polizia e mi lamentai con il padrone di casa, proprietario di tutto l’edificio. Prima però provai a rintracciare il pusher, cosa abbastanza semplice perché nel bar della piazzetta, una sorta di filiale per la sua attività, era molto conosciuto. Il barista non si sorprese più di tanto. Aveva sgarrato con il suo principale, per così dire, ed era sparito dalla circolazione. Ma non era il primo comportamento anomalo che avevo notato in lui. Era uno molto macho, con tanto di cicatrice sul viso e i capelli lunghi e in casa indossava una vestaglia orientale aperta sul petto. Uno di quei personaggi che si incontrano solo nel centro storico di Genova. Per un certo periodo c’era una ragazza con lui, che presentava come la sua donna, che scacciò di casa un notte come un film d’altri tempi, lanciando le sue cose giù per le scale e urlandole di sparire, che lì dentro di suo non c’era niente e di non farsi più vedere. Sul terrazzo organizzai anche un paio di feste, con il barbecue e la musica, divertendomi a scendere e salire lungo l’impervia scala a chiocciola per trasportare vino fresco e birra e focaccia.
Una mattina, poi, stavo ancora dormendo, saranno state le cinque, suonarono e bussarono alla porta in modo concitato. Debole di nervi come sono rischiai l’infarto ma riuscii a infilarmi i pantaloni e portarmi all’ingresso. “Carabinieri. Aprite o sfondiamo la porta”. Giuro. Non me lo feci ripetere due volte. C’erano un paio di agenti in divisa, un vigile del fuoco e una donna in borghese. Mi colpì il modo in cui rimasero sorpresi sbirciando alle mie spalle, mi ero sistemato piuttosto bene con mobili comprati per due lire ai mercatini dell’usato o trovati nella spazzatura ma tutta roba di design e vintage, più qualche immancabile pezzo Ikea. Mi dissero che avevano l’ordine di sgombrare l’intero stabile che a loro risultava essere occupato abusivamente. Ma, mentre mi osservavano cercare nel faldone dei documenti il regolare contratto, si rendevano conto che qualcosa non quadrava, anche se sembravo un giovane scapigliato avevo comunque la parvenza di una persona per bene. Io mi stavo preoccupando per il mio vicino di sotto, chissà se gli perquisiscono la casa e gli trovano qualcosa. Poi la donna in borghese, che doveva essere la più alta in grado, lesse l’indirizzo indicato sul contratto. Salita San Bernardino. Il loro mandato era per Mura di San Bernardino. Ci scusi tanto. Tutto da rifare.
Ma non fu nemmeno quel qui pro quo a farmi desistere, dopo due anni, dal rimanere lì. Decisi di trasferirmi altrove dopo un episodio apparentemente privo di significato ma che mi portò a una riflessione esistenziale. Lasciavo spesso la finestra sulla doccia aperta, durante il giorno, quando uscivo per recarmi al lavoro. Un giorno iniziai a sentire un odore piuttosto sgradevole nella rampa di ingresso, in un punto preciso tra due scalini ma non riuscivo a capire cosa fosse, la penombra non permetteva indagini più accurate. Temevo il peggio, vista la diffusione di roditori indesiderati nella zona. Ma, presa di petto la situazione e munitomi di una torcia, rinvenni un piccione appena nato, morto da tempo a giudicare dalla puzza e dalle sue condizioni, nascosto sotto una piega della moquette. Pensai al disagio della fauna nel contrasto tra urbanizzazione e edilizia storica, la mia casa come un cimitero di piccioni che scelgono di venire qui a morire. Ecco, ne avevo abbastanza. Trovai un appartamento allo stesso prezzo in un palazzo di fine 800 e lentamente cominciai il trasloco, per lo più utilizzando l’autobus.