si è roth

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le famiglie degli altri

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Oggi, l’ultimo giorno di seconda elementare di mia figlia, mi vede reduce un po’ affaticato da un trittico di romanzi su saghe famigliari made in USA. Un totale di 1500 pagine circa, a quantificare la letteratura al chilo, per un viaggio nelle vicende altrui iniziato con Pastorale americana di Roth, da cui sono approdato a Libertà di Franzen per arrivare al meno conosciuto, ma non meno intenso (una qualità della narrativa la cui accezione non sempre è positiva) La condizione, di Jennifer Haigh. La sensazione è quella di aver passato tanto tempo fuori casa, almeno un paio di mesi, immerso in drammi e soluzioni degli stessi in un viaggio su una limousine narrativa (brillante e appropriata metafora di Ipazia sognatrice), comunque scomoda e affaticante sulle lunghe distanze.

Ieri, mi si permetta un finalmente, ho chiuso l’ultimo capitolo di questo tour letterario peraltro casuale – leggo i libri a seconda di quando scatta il mio turno nelle prenotazioni in biblioteca – seduto nella platea di un teatro comunale, pronto a gustarmi il piccolo saggio conclusivo di un laboratorio teatrale organizzato per le tre classi seconde dell’istituto scolastico in cui è iscritta mia figlia. La sala era gremita di nuclei famigliari, ciascuno con le proprie trame da romanzo, tragiche o grottesche, molto spesso a lieto fine. Genitori separati e supporter fino al terzo grado di parentela, padri dal passato burrascoso e madri lavoratrici tuttofare multipresenti.

E un padre, lì in mezzo, accaldato in giacca e camicia, che prima che si spegnessero le luci ripensava a una mattina di molti molti anni prima in cui, con un grembiule nero e un fiocco blu, aspettava irrequieto che la mamma finisse di pettinarlo per andare a scuola, era il giorno dell’esame che un tempo i bimbi sostenevano al termine del primo biennio delle elementari. “Come sei cresciuto, hai già finito la seconda” disse quella mamma, oggi nonna settantaquattrenne, co-protagonista di una saga famigliare dai risvolti tragici e grotteschi che difficilmente sarà a lieto fine. Si è compiuto un ciclo, se ne compirà un altro.

l’amore ai tempi della polio

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Nemesi, l’ultimo libro di Philip Roth pubblicato da Einaudi, è una storia sulla guerra, un conflitto su più fronti. Il protagonista, Bucky Cantor, ha poco più di ventanni ed è un insegnante di educazione fisica prestato all’animazione dei campi estivi di Newark, proprio mentre si diffonde – siamo nell’estate del 1944 e il vaccino non è stato ancora scoperto – un’epidemia di poliomelite. La guerra di Bucky Cantor è principalmente contro se stesso. Un paio di difetti, apparentemente irrilevanti (gli occhiali e la statura) lo hanno tenuto lontano dal fronte, il che gli genera la frustrazione di non aver potuto seguire gli amici partiti a lavare l’onta dei giapponesi dopo Pearl Harbour. La sua missione con i suoi ragazzi nella torrida estate newarkese, educarli con il gioco e tenerli lontani dall’infezione, assume quindi il valore della  rivincita. La guerra è anche contro il suo dio, il dio degli ebrei, che dispensa invalidità e sopravvivenza con polmone d’acciaio, se non, nel migliore dei casi, la morte, ai ragazzini dei quali vede diminuire la presenza giorno per giorno. In una lotta titanica contro l’immutabilità degli eventi, Bucky sarà la principale vittima del suo rigore morale, negando a se stesso anche l’amore di una vita. Solo la finzione narrativa di Roth riesce ad alleviare, anche se solo in parte, il decorso tragico. Roba, comunque, da cinque stelle.